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"Pentalogia dell'amore": un saggio di Rosario Castelli sulle fragili architetture amorose e i loro percorsi librari, musicali e cinematografici

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Pentalogia dell’amore
di Rosario Castelli
Pungitopo edizioni, febbraio 2025

pp.152
€ 14 (cartaceo)


Rosario Castelli, professore associato di "Letteratura italiana" al Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, con il suo ultimo saggio Pentalogia dell’amore (Pungitopo Edizioni), coniuga, in quello che lui stesso definisce “il meno accademico dei suoi saggi”, l’amore per la letteratura all’esperienza quotidiana, nella costante ricerca di sé stessi e dell’altro, attraverso silenzi ed emozioni. 


“Non solo un saggio ma anche un lemmario eccentrico, nel senso del voler stare programmaticamente ex-centrum, spostando continuamente i confini del senso in un altrove”, si legge nella scheda di presentazione di questo saggio ibrido, a metà tra una lezione, un trattato di letteratura e un intenso memoir, il tutto con l’ironia geniale di chi si diletta, insegnandoci a sentire le parole e le idee; le stesse che spiegano il mondo e collegano l’intuito all’intento.


Sembrerà forse strano che in un libro sull’amore e che vuole indirizzarci verso un’architettura del fare dicendo, la prima sezione sia dedicata al silenzio. Non il silenzio che punisce, come quello dei bambini, ma il silenzio che eleva, centellinando solo le cose importanti da dire, senza preoccuparsi troppo di tacere, se nulla di interessante si può aggiungere ad un discorso. Così c’è una sorta di tenzone poetica tra il domandare – in manus dare latino, ovvero l’affidarsi – e il rispondere – il responsum, solenne consacrazione che un padre chiedeva fiducioso prima di dare la figlia data in sponsa. Da qui nasce l’idea di stimare le parole, pesarle in base a ciò che dicono e a coloro a cui sono destinate. Forse per questo la parte della sintassi che è il motore dell’intera frase è il verbo, ciò che in principio era Dio stesso.


Uno scatto durante la presentazione:
l'autore Rosario Castelli e Samantha Viva
alla rassegna "Coincidenze tra le righe"

La parola si trasforma continuamente, si fa poesia e per esistere quelle parole non solo le mettiamo in relazione e le pensiamo, ma le scriviamo. Appunto perché, come dicevano i latini, scribere è incidere. Già dall’epoca umanistica, con la nascita di una coscienza etimologica, abbiamo cercato il senso delle cose affidandoci alla loro origine e oggi più che mai siamo chiamati a difendere quel linguaggio, a non lasciare che si impoverisca.


La parola come messaggio, ma – ci ammonisce Castelli – lo stesso vale anche per il silenzio. Se tutti i messaggeri degli Dei, compreso Ermes, comparivano avvolti in un mantello di silenzio, un motivo ci deve essere. Un silenzio può essere anche un termometro di rapporti, in quelli più autentici non servono tante parole. Nello stesso modo i luoghi in cui si fa silenzio sono luoghi eletti: le biblioteche, le sale da musica, le chiese, i musei.


Il silenzio può quindi avere diverse sfumature. Si parte dalla sua una funzione balsamica, propria di chi si comprende senza parlare, restituendo dignità e solidità ad un rapporto amicale, ad esempio. Può diventare un silenzio propiziatorio all’atto artistico, nel senso di condivisione di pensiero e di dialogo con i grandi del passato, da Foscolo a Dante, da Simone Weil a Octavio Paz, da Fellini a Leopardi: tutti i grandi hanno elogiato il silenzio e ne hanno reso immortale i “sovrumani spazi”. C’è poi un silenzio mortifero e mortale, come quello del canto delle sirene, che ammalia e uccide, ed è spesso associato a una particolare ora, quella dell’incanto del mezzogiorno, l’ora immobile. C’è un silenzio di resistenza, che si oppone alla loquacità dell’invasore in un bellissimo racconto lungo Il silenzio del mare del partigiano Vercos, alias Jean Marcel Adolphe Brulle, che narra di una fanciulla e suo nonno che per opporsi al nemico tedesco, in terra francese, si trincerano dietro la totale mancanza di parole, in una forma di resistenza non-violenta. E infine c’è il silenzio d’amore, quello che fa dubitare di tutto, che porta ad una forma di follia e gelosia senza pari, distruttivo e tirannico; analogo a quello vissuto da Robert de Saint-Loup nella Recherche proustiana.


Se poi passiamo dalla parte delle parole ecco una sezione dedicata alle storture linguistiche, come l’eufemismo, nato per “proteggerci” da dure verità e, oggi più che mai, troppo “politicamente corretto”; Castelli ne fa un elenco spassosissimo, ad esempio a proposito delle espressioni che hanno sostituito l’espressione relativa a qualcuno che “è morto”. Per non parlare del totalitarismo dell’aggettivo “importante” o degli intercalari, che la linguistica definisce “frammenti di enunciato”, tra cui spiccano: assolutamente, diciamo, mediamente, affatto e su tutti il temutissimo “come dire”. La crociata personale del “piuttosto che” usato impropriamente come oppure, la ritrovo con piacere anche tra le pagine di questo libro.


C’è una parte riservata al turpiloquio, a cui Castelli non si dice sempre contrario, se non nell’accezione dell’offesa gratuita, soprattutto quando va a sostituirsi all’argomentare; se come diceva Wittgenstein “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo” cogliendo come nel limite linguistico risieda l’incapacità di comprendere e descrivere il mondo, così esistono varie sfumature del turpiloquio. 


Un posto in tribuna d’onore però, in questo degradar di epiteti è riservato al classico “cretino di una volta” quello rappresentato dai film di Totò, quello tanto rimpianto da Sciascia o classificato a più riprese dia libri di Fruttero e Lucentini, fino a giungere alla figura popolare del buon cretino siciliano, che ha il suo antenato in Giufà. L’autore ricorre ancora all’etimologia per spiegare come il cretino sia nato dal cristiano. 


Più volte si cerca un’epifania attraverso l’origine della parola, una spiegazione all’uso poi contaminato nelle lingue antiche, che ci mostrano con chiarezza quanto sia meraviglioso il mondo delle parole, fino a giungere alla punteggiatura, dimenticata e vituperata, nel suo volerci indurre a riflettere e a far spazio; come nel punto e virgola - ormai avvelenato, insieme alla sfumatura possibilista del congiuntivo, da questi tempi così semplici e semplificati - il cui assassinio linguistico fa inorridire Pietro Citati, molto più degli omicidi di padri, mariti, nonne e cognati di cui “parlano con infinita voluttà i nostri giornali”. 


Il tutto è condotto con estrema ironia e senza perdere il gusto per l’ammonimento didattico, come se fossimo anche noi studenti fortunati delle lezioni universitarie di Castelli. Il capitolo più denso di suggestioni letterarie, sebbene tutto il volume ne sia cosparso piacevolmente, è quello intitolato “Parlare è un po’ celare”, e forse anche celiare, mi verrebbe da dire. Le suggestioni che lo animano ci parlano di un Pinocchio Manzoniano, del traditore per antonomasia forse da rileggere in quanto eroe predestinato, ovvero Giuda, di Dante, Kafka e degli ipocriti tristi, gli incarcati, così come del lupo e della sua coscienza. Non manca un elogio dell’inganno amoroso in lotta con la melensa pretesa di eternità, che racchiudiamo in un “per sempre”. 


Camminando per le pagine è come se si intravedessero le impalcature di una immensa architettura amorosa, le cui fondamenta vengono costantemente messe alla prova. Restano in piedi le parole e le poesie, le strofe delle canzoni, i carteggi bellissimi, come quelli tra Kafka e Jelenska, i brandelli ricuciti dell’amor sacro, tra pelle e stoffa, di San Francesco e Santa Chiara, la vertigine che sfida la certezza, quasi che la luce si possa intravedere tra le rovine di tutto ciò che pensiamo di sapere, nel silenzio dell’amante, nel sottrarsi e nel rivendicare, quando tutto si riduce al punto cruciale, che per Nabokov è “la fine di un amore”. Quindi, ci dice Castelli:

“Se c’è qualcosa di sicuro - lo dirà lo stesso De Roberto in un suo trattato di erotologia […] è che l’amore è una categoria che non si presta ad alcuna assertività definitoria. 

E se il discorso tocca anche il personale, Castelli prova a spiegare, a chi siciliano non è, quanto la maturità, nell’isola dei grandi contrasti, passi attraverso una mandorla quagliata, secondo un modo di dire molto noto (“Quannu ti quagghia ‘a mennula?” Equivalente a: “Quando cresci?”). Da lì quel nesso etimologico che lega il termine moderno al suo originario latino: amygdăla, che è anche il nome della ghiandola, che si annida nel lobo temporale e presiede alle nostre sensazioni ed emozioni e che solo a maturità raggiunta ti fa capire che sei una persona compiuta. E ancora la spiegazione di cosa sia la Vilitudine, termine che non ha equivalenti nell’italiano standard e che sorprende i siciliani durante l’ora più calda, quando le forze abbandonano il corpo e c’è una resa totale alla canicola, che anestetizza ogni passione. Una sorta di strenue lotta opposta all’ira letteraria, che al contrario della vilitudine è salvifica spesso, ma che a volte non riesce a dare la soddisfazione ipotizzata. 


Il testo si conclude con un monito pacificatore, il richiamo al non opporre resistenza ai cambiamenti, perché se è vero che smussando le pietre, come faceva Michelangelo, e togliendo il superfluo si trova l’opera d’arte, è altresì vero che gli amori, ma anche le parole destinate a noi, le opere e i libri che ci parlano sono in grado di trovarci. Questo libro, che ho di recente presentato alla prima serata della rassegna #CoincidenzeTLR, di cui la nostra redazione è media partner, è in grado di parlare a tanti e di tante cose, letteratura e musica, ma anche cinema e vita, e tenta di ammonirci su ciò che i vari secoli hanno insegnato all’uomo: comunque vogliamo condurre questo, viaggio verso il compimento del nostro scopo su questa terra, non possiamo pensare di farlo privi delle parole che contano, privi del sentimento d’amore, che a volte è deludente e in fin dei conti non spiega nulla, ma è l’unica strada verso la felicità.


Samantha Viva