«Lo scopo era quello: raggiungere la propria perfezione»: nel territorio dei diavolo con Flannery O'Connor, tra le pagine del romanzo di Romana Petri



La ragazza di Savannah
di Romana Petri
Mondadori, febbraio 2025

pp. 276
€ 19,50 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)

La piccola Mary Flan è nella sua stanza; i genitori, Regina ed Edward Francis, sono al piano di sotto. È una sera come tante nella casa di Savannah, in Georgia, prima metà del Novecento. Dalla stanza della bambina arrivano un borbottare e dei rumori strani, dei colpi, come se stesse prendendo a pugni qualcosa. O qualcuno. Mary Flan in effetti sta cercando di prendere a pugni il suo angelo custode. Risponde così ai genitori, tra la costernazione della madre e il divertimento del padre. Quel che è certo, è una bambina originale e, Edward Francis ne è certo, dimostrerà di avere talento da vendere. Per cosa ancora non è del tutto chiaro, ma ne è convinto. Quella bambina, Mary Flan, diventerà la donna che conosciamo come Flannery O’Connor. Aveva decisamente ragione Edward Francis, anche se purtroppo non fece in tempo a vedere la carriera straordinaria di sua figlia, scomparso quando lei era ancora una ragazza, lasciando la figlia e la moglie da sole con il loro dolore.

Da quel giorno decise che non avrebbe mai parlato del padre. Non era per dimenticarlo più in fretta, lei non voleva dimenticarlo mai, ma era perché non si sarebbe mai sentita sicura nel farlo, mai compresa. Nemmeno da sua madre. (p. 43)

Romana Petri parte da quella stanza, dalla lotta immaginaria di una bambina contro il suo angelo custode, per costruire un romanzo sulla figura leggendaria di una scrittrice che tanto profondamente ha influenzato il canone letterario del Novecento, seppure nello spazio breve del tempo che le è stato concesso. Sottolineo fin da principio la natura di quest’opera, così da evitare equivoci su ciò che il lettore possa o meno aspettarsi: La ragazza di Savannah, appena uscita per Mondadori, non è una biografia né una biografia romanzata, ma un romanzo, che si innesta si su un personaggio realmente vissuto e lo scarto tra realtà e invenzione letteraria è totale. Non facciamo quindi l’errore di cercarvi imprecisioni biografiche o di domandarci se le cose narrate siano andate davvero come Petri racconta, gli episodi, i dialoghi, gli stralci di lettere e conversazioni. È un romanzo, come puntualizzato appena sotto il titolo, che nasce da una conoscenza approfondita della scrittrice e della sua opera, tra testi originali, saggi, documentari, interviste, lettere, materiali di varia natura. Non è una biografia, dunque, né un saggio critico, pur mantenendo il tono della prima e numerosi spunti di riflessione tipici del secondo. Definire questi confini è fondamentale per entrare nell’opera e fare le dovute considerazioni, anche se poi non è così facile tenerli a mente, soprattutto quando si ama Flannery O’Connor e la si insegue da molto tempo in quel suo territorio del diavolo.

Quella di Petri dunque è la storia di una ragazzina cresciuta nel profondo Sud degli Stati Uniti, un luogo, una cultura e un’appartenenza che saranno suoi per tutta la vita, indipendentemente da dove si trovi, da quello che scriva. Radici e un’etichetta, quella di scrittrice del Sud, che le starà un po’ troppo stretta per la marcatura negativa che molto spesso si lega al regionalismo, specie di quella zona. È Mary Flan, dunque, prima e più di Flannery O’Connor, che cresce in una piccola cittadina, si sposta con la famiglia e per un certo periodo frequenta altrove scuola e poi università, prima di stabilirsi nella fattoria che sarà la sua casa per tutta la vita. Una casa che come tutti i figli immaginava di lasciare a un certo punto, ma dalla quale non andrà mai via se non per brevi viaggi: è molto giovane quando le viene diagnosticata una malattia rara, la stessa che anni prima aveva ucciso suo padre, il lupus. Dai sintomi alla diagnosi – a lei non rivelata immediatamente – passa del tempo, ma la salute di Mary Flan è già chiaro sia compromessa. Riuscirà a rubare molto più tempo di quello che ebbe il padre, morto appena tre anni dopo la diagnosi, tra innumerevoli cure, ricoveri, riprese e cadute, finendo per diventare un tutt’uno con quella malattia che così profondamente ne ha determinato la vita, la mancata autonomia, forse la scrittura stessa. E Andalusia, la fattoria dove vive con la madre e i suoi amatissimi pennuti, diventa il centro della sua esistenza, il luogo da cui creare il proprio mondo letterario, da cui si allontanerà per periodi sempre più limitati.

In quei giorni pensò che, a differenza degli altri scrittori, lei doveva trovare a casa ciò che loro trovavano andando in giro per il mondo. E non volle patirne, anzi, volle trovarci il suo sugo. Arrivò a considerarla una grande fortuna. (p. 118)

La scintilla della scrittura si accende precocemente e già a dieci anni scriveva un romanzo che il padre fece rilegare. Ma la strada non è ancora delineata, ci sono altre cose da esplorare: i dipinti, le vignette e soprattutto l’allevamento di polli e poi di pavoni, che saranno la sua gioia. Prosegue gli studi, nei quali non dimostra talenti particolari, si iscrive all’università e frequenta un corso di giornalismo. Poi, il primo corso di scrittura creativa esistente in America e la scoperta della propria voce. Intraprende una strada dalla quale non tornerà mai indietro, nonostante sia accidentata, impervia da percorrere nelle sue condizioni fisiche sempre più precarie, nonostante le incomprensioni. È la famiglia che per prima rimane sconcertata da quello che scrive, non lo comprende: la accusano di scrivere sempre di balordi, lei, una così brava ragazza cattolica del Sud. Ecco, la fede, poi, altra questione spinosa: i suoi racconti sono intrisi di violenza, il diavolo cammina tra quei poveracci, non c’è redenzione né grazia. Ma la grazia è proprio lì, viene fuori dal male, il divino a rompere l’equilibrio di un mondo secolare e materialistico, il mistero che lo attraversa. Continua a scrivere, «storie “strane come la morte” e che “bruciavano di dolore e speranza”» (p. 44), racconti, romanzi, pagine «di piombo e fuoco» (p. 84).

Non scriveva ancora molto, ma le era ben chiaro che cosa volesse scrivere: il suo mondo del Sud, la sua violenza, le anomalie, la mostruosità, le cose che succedono quando si perde l’unica strada da percorrere. Non si poneva il problema se i lettori avrebbero capito le sue vere intenzioni. (p. 60)

I lettori spesso faticano in effetti a comprenderla o lo fanno solo in parte; riceve moltissime lettere nella sua fattoria, a numerose delle quali risponde, intessendo una rete di rapporti epistolari che la accompagna per tutta la vita. Il suo nome, l’identità che si è scelta, Flannery O’Connor, si fa strada nel mondo letterario, pubblica racconti su diverse riviste, firma un contratto editoriale, riceve riconoscimenti e premi, tra cui il prestigioso O'Henry per ben tre volte; è chiamata per conferenze, corsi, discorsi agli studenti. Non sempre si trova a suo agio di fronte al pubblico, ai suoi lettori, spesso le domande la irritano, viene fraintesa; altre volte è un fiume in piena, le sue parole incendiano la platea, le sue considerazioni sulla scrittura fissate come comandamenti. È sempre più sfiancante tornare da quei viaggi, ma sono anche l’occasione per vivere «l’illusione di un po’ di autonomia». (p. 111) Per poi tornare a casa, alla fattoria. Da Regina. Non esisterebbe Flannery O’Connor senza quella donna.

Nella fattoria i compiti erano chiari. Regina si occupava delle questioni pratiche, Mary Flan del mondo letterario che, non potendo più raggiungere tanto facilmente, qualche volta ospitava in casa. La sua fama stava crescendo e non erano pochi gli ammiratori che le scrivevano lunghe lettere nella speranza di essere invitati in quell’esotica fattoria per un tè. Solo raramente riusciva a partire per brevi viaggi. Si trattava di incontri e conferenze e Regina organizzava tutti gli spostamenti. Ma non la seguiva. Avrebbe voluto ma non lo faceva. (p. 111)

Rimasta vedova precocemente e con una figlia malata, Regina non indugia mai nel dolore, non lascia trasparire la sofferenza; è una donna del Sud, è stata educata in un certo modo. Prega, prega intensamente il Signore di avere la forza di accudire la figlia fino all’ultimo e poi di potersene andare un attimo dopo di lei. Non si mostra mai debole, sconfitta, addolorata. È un generale, i rapporti tra lei e Mary Flan non sono sempre facili, ma è la vita che è capitata a entrambe, sono la famiglia che sono. Regina non nasconde alla figlia di non capire niente di quello che scrive, si addormenta dopo poche pagine dei racconti che le fa leggere per prima, si preoccupa per le critiche che riceve dalla famiglia, dai vicini. Ma la sostiene sempre, indipendentemente da tutto. Capisce che anche alla fine per Mary Flan, per Flannery O’Connor, «non scrivere è molto peggio di scrivere» (p. 202).

Quella de La ragazza di Savannah non può essere una storia a lieto fine, non nel senso tradizionale, e neppure la finzione del romanzo può cambiare il tragico destino di Flannery O’Connor, morta a trentanove anni per complicazioni di un intervento e il risvegliarsi del «lupo rosso» come definiva la propria malattia. Sono pagine per loro natura intrise di dolore, eppure riescono anche a farci penetrare nel mistero della scrittura e a far rivivere se non la più veritiera una delle forme possibili di Flannery O’Connor, in una complessità crescente, dove fare spazio all’identità della scrittrice, ai rapporti col mondo letterario, aprendo a numerose riflessioni e spunti. La scrittura di Petri si fonda sulla profonda conoscenza dei testi di O’Connor, sulle ricerche minuziose, su cui innesta l’invenzione letteraria ma riuscendo allo stesso tempo a restituirci un ritratto che poco importa alla fine quanto sia aderente al modello in carne e ossa: vive di ogni pagina scritta, delle lettere, dei dialoghi di chi l’ha incontrata, della leggenda stessa che intorno a quella scrittrice di Savannah si è creata.

Poco incisivo nella parte iniziale dell’infanzia – a quanto pare non la dimensione ideale di Petri –, si sviluppa poi in un crescendo interessante, cui perdoniamo facilmente anche alcune digressioni e lungaggini. Nell’anno del centenario della nascita di Flannery O’Connor (il 25 marzo), La ragazza di Savannah apre a molti spunti e suggestioni sul mistero della scrittura, sull’influenza della malattia, il rapporto con la madre, la vita ritirata, il tempo. Pagina dopo pagina mi sono interrogata spesso su questi aspetti, ripensando a tutti i racconti letti, ai due romanzi, alle raccolte di saggi e lettere, con cui ho nutrito negli anni la mia ossessione per Flannery O’Connor e la sua scrittura selvaggia, brutale, grottesca e vera. E se scoprirla in questa forma, attraverso il romanzo di Petri, può avvicinare nuovi lettori ai racconti di O’Connor non può esserci miglior obiettivo. Rinunciando all’accuratezza di una biografia Petri non mette però da parte il rigore dei suoi anni dedicati allo studio di O’Connor (di cui, tra l’altro, ha curato la bella prefazione alla raccolta Il geranio e altre storie, uscita per Minimum Fax nel 2023) e il testo è disseminato di preziose considerazioni sulla sua opera, sulla sua ricezione, sul mondo in cui visse, aprendo una finestra sulla poetica di O’Connor.

Molte etichette sono rimaste appiccicate addosso a Flannery O’Connor, molte letture superficiali o incomprensioni sulla sua opera, ma c’è un punto – e qui la citazione arriva proprio dalla fonte originale – su cui l’autrice è stata lapidaria per via delle troppe considerazioni distorte che ne sono state fatte: «[…] se scrive come scrive è perché è cattolica. Non benché sia cattolica» (p. 149). In modo simile risponderà con i suoi libri a chi le chiede del Sud che rappresenta nelle sue storie, di quel grottesco che è chiamato tale solo al Nord ma che per lei, per loro, non è altro che realismo. Rinuncio alle etichette, allora, io per prima che molto spesso mi ritrovo a usarle per segnare un confine tra generi e forme, mi accontento di aver penetrato un poco di più quel mistero mai davvero svelabile della scrittura di Flannery O’Connor, una scrittura che mirava sempre alla perfezione, a qualsiasi costo e in qualsiasi condizione. Torno ai suoi racconti intrisi di ironia feroce, vi leggo un po’ più di lei – ma non troppo, lo detestava – , delle persone che erano il suo mondo, della vita. Lo consiglio anche a voi.

«[…] ho lasciato spazio al mio lato migliore, alla solidità emotiva. È lì che affonda la mia vocazione alla scrittura. E non c’è dubbio che scriviamo ciò che abbiamo davanti. Ma se poi non lo deformiamo, allora è solo carta da buttare». (p. 135)

Debora Lambruschini 

La guerra, la colpa e il passato che torna a vendicare: "La gatta e il generale" di Nino Haratischwili


La gatta e il generale 
di Nino Haratischwili
Marsilio, ottobre 2024 

Traduzione di Francesca Bonomi e Fabio Cremonesi 

pp. 656
€ 24 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)

Vedi il libro su Amazon

Tutti noi cambiamo, ci disperdiamo in mille direzioni, ci rompiamo in pezzi e ci ricomponiamo, sì, questo lo so bene, ma i nostri sogni ci perseguitano, per quanto ostinati e fastidiosi siano, non ci lasciano in pace. (p.100)

Dei libri di Nino Haratischwili una delle cose che colpisce al primo sguardo è indubbiamente la mole. 
La scrittrice georgiana, già autrice degli acclamati L'ottava vita e La luce che manca, firma narrazioni estese in cui la lunghezza è un tratto stesso della trama. 
Haratischwili abbraccia infatti ampie porzioni di storia con libri che si inseriscono nel solco della grande tradizione dei romanzi russi con le tipicamente intricate architetture di personaggi e lo scenografico disporsi delle loro vicende lungo gli anni.
Nel volume d'esordio, L'ottava vita, prendeva corpo attraverso la storia della famiglia Jashi più di un secolo di vicende personali e collettive (dalla fine dell'Ottocento ai primi anni Duemila); ne La luce che manca, invece, si fa un salto avanti fino agli anni Novanta, alla dissoluzione dell'Unione Sovietica e a una Georgia in piena guerra civile, con numerosi salti indietro che fanno capire cosa ha determinato quegli eventi. 

#PercorsiCritici - n. 76 - Riemergere dalle proprie ceneri: libri sulla rinascita


Si sa, gennaio e febbraio sono mesi in cui è possibile osservare un incremento di riflessioni introspettive e di buoni propositi: così, tra chi vuole ritagliarsi più tempo per leggere e chi invece si ripromette di non saltare più l'appuntamento in palestra, spuntano anche desideri più profondi, riguardanti il proprio percorso di vita. Quindi perché non dedicare una puntata della nostra rubrica proprio a questo tema? 

Nel nostro archivio ci sono davvero molti titoli che hanno parlato di una rinascita, e anche nel 2024 non sono mancati. Una delle ultime uscite dello scorso anno, è stata quella di Giulia Caminito, che in Il male che non c'è (Bompiani, 2024) racconta la storia di Loris, un trentenne che si barcamena tra lavoretti precari e una relazione altrettanto instabile. Ma a tenerlo sotto scacco c'è un forte disagio personale: una fortissima ipocondria, che lo costringe a vivere ogni giorno chiuso nelle sue paure, tra auto-sabotaggi in crescendo. Il malessere di Loris ha radici lontane, a partire dalla perdita dell'amato nonno, Tempesta, evento mai del tutto elaborato dal protagonista. Così Caminito ci porta nell'inferno personale e quotidiano di Loris, fino a quando, proprio mentre tutto sembra perduto, un inaspettato colpo di coda lo riporterà a galla, per rinascere davvero.

Anche Asia, protagonista di Se mi amassi davvero (Rizzoli, 2024), è una donna che parte da una condizione di forte fragilità per poi rinascere a nuova vita: chiusa in una relazione ormai diventata tossica, all'interno della quale vive di una fortissima dipendenza affettiva verso il suo compagno, Asia pian piano inizia a rendersi conto che la vita vera l'aspetta fuori e che al di là delle sue paure c'è un mondo che l'attende.

Il "mondo fuori" di Emilia, invece, protagonista di Cuore nero (Rizzoli, 2024), è quello al di là della cella. Ebbene sì, perché la protagonista dell'ultimo libro di Silvia Avallone ha scontato quattordici anni di detenzione e ora che ha espiato la sua pena è pronta a tornare all'esterno. Ma come si ricomincia dopo tanto tempo dietro le sbarre? Come ci si riabitua a un mondo che le sembra di non conoscere più? Avallone mette in scena questo duro passaggio a una nuova esistenza, tutta da riscrivere.

Talvolta poi, rinascere non implica per forza uno spostamento a una nuova vita ma il riconoscimento della propria: è il caso di Gebke, bambino che viene emarginato da tutti perché a causa di una deformazione ha dodici dita. Gebke vive emarginato, si sente diverso, si isola e viene isolato a causa di questa caratteristica che cerca di nascondere grazie ad un paio di guanti neri che si è fatto cucire appositamente. Un giorno però, incontra Eckart Brandt, che nasconde un segreto: suo fratello soffre di ipertricosi e per questo viene soprannominato "l'uomo scimmia". Così Gebke, assieme a Jörg, ha un'idea: mostrare al mondo che quelli che la società chiama "mostri" sono persone come tutte le altre e, anzi, possono nascondere grandi talenti. Nasce così il loro spettacolo circense, in un tentativo, riuscito, di riconoscimento e rinascita. È possibile leggere la loro storia in I santi mostri, di Ade Zeno (Bollati Boringhieri, 2024), in cui il talento innesca un movimento di auto-determinazione più che ammirevole, specialmente in anni drammatici come quelli che portano dalla repubblica di Weimar alla Seconda guerra mondiale.

A volte poi, quando si parla di rinascita, si può intendere il ritorno alla quotidianità serena dopo aver affrontato una malattia. Questo è il caso di Sophie Kinsella, che in Cosa si prova (Mondadori, 2024) racconta la propria vicenda in un'autobiografia romanzata e il proprio difficile percorso attraverso la malattia, la sofferenza, la speranza di farcela e infine il sollievo della guarigione. I suoi lettori affezionati non mancheranno di riconoscere anche in quest'opera la dinamicità narrativa e la confidenzialità tipiche di Kinsella.

Basta un pezzo di mare, di Ludovica Della Bosca (Corbaccio, 2024), è invece un intenso racconto di due solitudini che si incontrano: Sara e Agata sono amiche fin dall'infanzia, ma si sa com'è la vita, intreccia e disfa i fili delle relazioni come più le piace. Ed è così che le due si sono perse di vista: la prima è fuggita altrove, lontana da una famiglia che rifiuta la sua omosessualità, mentre la seconda è rimasta col padre dopo la malattia e la morte della madre. Entrambe però si sentono perse, lontane da quella stabilità che da piccole credevano che avrebbero raggiunto relativamente presto. Sarà un viaggio insieme, svolto a causa di un astice, che le porterà a rivedere le loro vite e a capire che forse sono più vicine di quanto pensassero... una nuova vita, stavolta insieme.

Similmente, anche Amelia e Ada, protagoniste di La casa delle magnolie di Flavia Biondi (Bao, 2024), scoprono che insieme si può andare più lontano. Le due si incontrano per caso in un piccolo paese per motivi diversi: una è lì per delle pratiche burocratiche legate alla casa della nonna, l'altra ha raggiunto quel paesino per una supplenza. Le loro esistenze, però, sono destinate a intrecciarsi molto più di così: ed entrambe scoprono che le loro vite, ugualmente difficili dal lato emotivo, seppur per motivi diversi, possono essere un gancio per l'altra persona e insieme affrontare le sfide del mondo e rinascere, insieme. 

Se, come abbiamo detto, il tema della rinascita è ampio e foriero di interessanti situazioni narrative, va da sé concludere che tale argomento abbia dato luogo a molti libri: anche se ci spostiamo un po' più indietro nel tempo, troviamo altri titoli degni di attenzione: Cose che nessuno sa (Mondadori, 2011), di Alessandro D'Avenia, è una storia di ripresa e ritorno alla vita, perché racconta la storia di Margherita, una ragazza di quattordici anni che sta affrontando un piccolo grande terremoto all'interno della sua vita: l'abbandono del padre. Sarà un professore ispirato a mostrarle la via della rinascita, attraverso le pagine dell'Odissea: un insegnante che ha bisogno anche lui di ritrovare la strada di casa...

Se parliamo di Odissea e di Alessandro D'Avenia, non è possibile non citare Resisti, cuore (Mondadori, 2023), una lunga riflessione in cui l'autore si mette a nudo personalmente e per la prima volta affronta su carta i demoni che lo hanno tenuto lontano dalla felicità: un lungo viaggio, posto in analogia con quello di Ulisse, verso la sua Itaca.

Spesso, poi, sono i nostri desideri più nascosti a farci da bussola e a indicarci la via della ripresa: Rachel, protagonista di Alla fine di una caramella al limone (Garzanti, 2023), ha l'opportunità, tramite un intervento magico, di vedere e vivere per una notte una vita alternativa, cosa sarebbe successo se... Una possibilità, per lei, di capire finalmente cosa vuole e come fare a prenderselo.

Quando, infine, a rappresentare il ritorno alla vita c'è l'amore, ecco che arriva Marsullo a raccontarci quello che accade: in Tutte le volte che mi sono innamorato (Feltrinelli, 2022), Cesare, maestro elementare dal cuore romantico, non ha ancora trovato l'amore della sua vita, nonostante abbia avuto diverse relazioni. Quando tutto gli sembra perduto e ormai si trova rassegnato a una vita da single, ecco che, inaspettato, giunge l'amore a sparigliare le carte...

Siamo così giunti al termine di questo PercorsiCritici in cui abbiamo messo in mostra come il tema della rinascita e del ritorno alla vita sia stato trattato nella narrativa recente: nonostante questa sia sicuramente una rassegna limitata a pochi titoli, siamo certi che le scelte possano rappresentare una svariata gamma di situazioni... dunque, buona lettura!

Come fa il silenzio a esplodere dentro a un romanzo. Potenza narrativa e segreti di famiglia nel magnifico lavoro di Fatma Aydemir “Tutti i nostri segreti”


Tutti i nostri segreti
di Fatma Aydemir
Editore Fazi, 11 febbraio 2025

Traduzione di Teresa Ciuffoletti

pp. 324
€ 18,50 (cartaceo)
€ 11,99 (eBook)

Perché in fondo cos’è un padre, se non uno dei punti fermi che delimitano lo spazio in cui si cresce e da cui prima o poi bisogna evadere, un problema con cui misurarsi, uno specchio in cui osservi la tua vita di volta in volta e capisci come non deve essere, una sorta di anti-Io? (p. 141)

Il secondo lavoro della scrittrice di origine curde Fatma Aydemir è un romanzo coinvolgente, un caso fortunato e sempre più raro di gagliardia narrativa unita a una storia intensa, intrigante e commovente. Non si può chiudere il libro senza pensare di aver letto uno dei romanzi più importanti scritti negli ultimi tempi. Non a caso, la scrittrice, che scrive in tedesco, ma è figlia di immigrati curdi, in Germania è una delle più premiate e tra l’esordio Ellbogen (2017) e Dschinns (2022), titolo originale di Tutti i nostri segreti, in Italia edito da Fazi, ha fatto incetta dei più prestigiosi premi letterari del suo paese. 

Ho letto una penna davvero interessante, piuma e punta di diamante, che accarezza e che graffia a sangue, che sa presentare in maniera coinvolgente e originale il dramma di una famiglia che ha perso il padre, Hüseyin, a pochi giorni dalla tanto sospirata pensione e che fa di questo evento luttuoso occasione per far entrare il lettore nelle storie dei figli e della loro madre, Emine. Tutti i nostri segreti è un romanzo che mette sotto i riflettori non solo il contrasto, ormai universale direi, tra la generazione dei padri e quella dei figli, tra tradizione e modernità, tra valori atavici e la necessità di cambiare, ma anche la realtà difficile in cui versa la popolazione curda, perseguitata in Turchia e disprezzata negli Stati dove emigra.

Sevda non si capacitava di come fosse finita in quel ginepraio. Sapeva solo che non avrebbe mai più detto a nessuno da dove veniva la sua famiglia. Da piccola parlava curdo con i nonni, chissà quando aveva smesso di preciso. Forse dopo che si erano  trasferiti in città? Sì. Sevda ricordava uno schiaffo. Emine le aveva dato un ceffone e aveva detto: se rispondi un’altra volta in curdo, ti ammazzo. […] «Parliamoci chiaro, Sevda: qui siamo in Germania. E ai tedeschi non gliene frega un cazzo di quante lingue parliamo o di che Dio preghiamo. Ci vedono come turchi di merda, per cui siamo turchi di merda. Punto e basta. (pp. 88-89)

Quanto pesano sul cuore di una madre i segreti di una vita? Anche i figli però hanno le loro più o meno inconfessabili debolezze, intimi dispiaceri che non hanno potuto rivelare a nessuno dei familiari. Il silenzio quando esplode fa rumore: Tutti i nostri segreti è un romanzo che sa riprodurre molto bene attraverso immagini, gesti, flussi di coscienza, salti temporali nei ricordi, la tristezza, l’infelicità, la depressione che attanaglia la vedova Emine e sua figlia Peri, che si è accorta del suo dolore. Ancora: Hakan, che tra vendite di auto rubate e i ricordi dell’adolescenza, è dentro lacerato dal tormento psicologico di aver deluso il padre; Sevda, la figlia maggiore, e il suo bisogno di riscatto e il senso di essere stata abbandonata da bambina, che non vede e non sente i genitori da cinque anni in seguito a un pesante litigio con loro.

Ümit, il più giovane dei figli, sta scoprendo la sua identità di genere e teme di rivelarsi ai genitori. Chi non ha segreti in questa famiglia, chi non ha il proprio jinn (il titolo originale del libro è la traduzione tedesca del termine arabo jinn, genio, spirito, demone)? Emine è una donna infelice, che ha costruito la sua vita di moglie e di madre su un segreto del passato doloroso e inconcepibile e l’ha custodito nel silenzio, educata all’obbedienza e alla mitezza dalla cultura musulmana, ma le figlie sono il suo opposto. Peri è una femminista, diversamente dalla madre, ha fatto già le sue esperienze sessuali adolescenziali:

[…] finché si trattava di studiare Hüseyin ed Emine non le proibivano mai di uscire nel pomeriggio, del resto lei frequentava il liceo, un luogo per loro misterioso, che li riempiva di orgoglio ma al tempo stesso li metteva in soggezione. Hüseyin ed Emine devono aver pensato che Peri avesse bisogno di studiare in compagnia per andare bene a scuola e che il divieto di uscire di casa dopo le sei di pomeriggio potesse impedirle quello a cui tutti i ragazzi della sua età pensavano costantemente, preservando così la sua illibatezza. Come se prima delle sei di pomeriggio non si potesse perdere la verginità, come se prima delle sei non ci si potesse crogiolare nel calore, nei baci, nel sudore dell’altro, come se non si potessero fare mille cose per provare piacere senza compromettere l’imene, il cui legame con la verginità era stato scientificamente smentito da un pezzo, come Perì avrebbe appreso in seguito al collettivo femminista. (p. 147)

La narrazione scorre a doppia focalizzazione ed è circolare, perché si chiude ad anello: il primo e l’ultimo capitolo presentano le voci dei genitori in seconda persona, gli altri capitoli sono invece scritti in terza persona e rappresentano le voci dei quattro figli, Sevda, Hakan, Peri e Ümit. Questa scelta narrativa è assolutamente più coinvolgente sul piano emotivo, perché le parti raccontate in seconda persona sono state per me quelle più toccanti, mi sono sentita risucchiare da quel tu narrativo, è assolutamente più diretto, più intimo, più lacerante. 

Tutti i nostri segreti ha una struttura equilibrata, ogni sua parte contribuisce a creare un romanzo armonico, a più voci, che non trascura la necessità di avere personaggi credibili, ben caratterizzati, attraverso i quali il lettore riesce a comprendere meglio, attraverso le loro esperienze e le loro storie, le complesse sfaccettature dei loro genitori, un uomo e una donna forti e fragili allo stesso tempo, che avevano provato a scappare dal loro triste passato per creare una vita migliore alla loro famiglia. Se siano riusciti o meno in questo intento è l’interrogativo e la riflessione che lascio al lettore.

Ai funerali è diverso. Di fronte alla morte non c’è facciata che tenga. Le crepe affiorano, che lo si voglia o no. E tra una crepa e l’altra affiora l’orrore, la paura narcisistica di essere, anche noi così precari. Che ogni passeggiata possa sfociare in un infarto, ogni sigaretta nel cancro, ogni pena d’amore nel suicidio, ed è per questo che al funerale di suo padre le è toccato vedere tutti quegli sconosciuti che singhiozzavano a dirotto, non per un uomo di cui a loro in fondo neanche importava granché, no, ma per se stessi. Ha visto persone che piangevano la propria morte imminente e seppellivano il proprio presente e i propri sogni. (p. 144)

Marianna Inserra

 

Un mini saggio narrativo che ci spiega, tappa per tappa, la storia della masturbazione dalla Bibbia ai giorni nostri


 

Il piacere sovversivo-breve storia della masturbazione
di Alessia Dulbecco
Tlon, febbraio 2025

pp. 122
€ 13 (cartaceo)

Vedi il libro su Amazon

Secondo Tissot, «i medici di tutti i secoli hanno creduto unicamente che la perdita di un'oncia di quell'umore indebolisse più della perdita di quaranta once di sangue», motivo per cui ogni uomo doveva evitare di sprecarlo. La teoria di Tissot non risparmia le donne: quando si masturbano anche loro perdono il "fluido riproduttivo femminile", una sorta di corrispettivo dello sperma maschile, sempre derivato dal sangue, che fin dall'antichità si credeva venisse rilasciato all'acme del piacere e fosse pertanto essenziale nel favorire la fertilità e il concepimento. (p. 38)

Alessia Dulbecco, professionista nella pedagogia di genere e nel couselling legato all'educazione, già autrice di un testo per Tlon Si è sempre fatto così edito nel 2023, torna in libreria con un piccolo libello, un mini saggio narrativo che ci racconta le tappe della storia della masturbazione.

In poco più di cento pagine, Dulbecco, adottando un tono tra l'accademico e l'informale che l'aveva già distinta nel testo precedente, illumina spazi oscuri che, a volerli svelare da soli, rischiano di confonderci ancora di più: ad esempio, da dove arriva la parola "onanismo"? E cosa c'entra una parabola della Bibbia con questo famoso termine oggi caduto in disuso? Chi l'ha fatto cadere in disuso sostituendolo con il più moderno "autoerotismo"?

Domande interessantissime che vengono esaminate e a cui viene fornita una risposta con un metodo ben preciso: parlare riprendendo le teoria di medici, psicologi, teologi, terapisti, scrittori che nel corso dei secoli hanno contribuito a forgiare quella che si potrebbe dire una vera e propria fobia per la masturbazione. Dulbecco parte concentrandosi sul '600 e '700, sottolineando che prima di alcuni testi cardine sul tema, la masturbazione non aveva tutto questo interesse mediatico che gli fu attribuito in seguito, quando fu tacciata di essere pericolosa per la salute mentale e fisica. 

Atto contronatura, piacere solitario, vizio solitario, odiosa perversione: la masturbazione fu appellata in tutti i modi possibili, a partire da un'azione sistematica della religione (ovviamente) e di testi pseudo scientifici che crearono un clima di panico intorno alla pratica. In una semplice quanto efficace strategia di marketing come quelle che abbiamo anche oggi - creare un problema che non esiste per poi fornire magicamente una soluzione, pensiamo ai prodotti per la cellulite - alcuni medici e accademici tirarono fuori dall'anonimato la masturbazione e ne fecero il nemico sociale e politico numero uno.

In questa sede ci limitiamo a sottolineare la progressiva virata che compie il ragionamento di filosofi e religiosi, individuando nella combinazione di segretezza e desiderio l'innesco che scatena l'autopolluzione. Scrive Benedicti: «Chi, commettendo questo peccato pensa o desidera una donna sposata oltre al peccato di mollezza commette adulterio; chi desidera una vergine, commette stupro; chi desidera una religiosa, sacrilegio». Il desiderio, cioè, amplifica il vizio e rende il peccato ancora più grave. Secondo l'ecclesiastico Richard Capel, vissuto nella prima metà del Seicento, tutti gli atti contronatura sono di per sé impuri, ma quelli praticati in solitudine e di nascosto sono i peggiori perché il desiderio, lasciato libero, contrasta con l'ordine voluto da Dio. (p. 34)

Insomma per tutto il 1700 e 1800 (e parte del XX secolo) l'autoerotismo fu esplicitamente vietato.  Di queste influenza nefaste ne risentiamo tutt'oggi: avrete sicuramente sentito quel detto secondo cui gli uomini che si dedicano alla masturbazione in modo sistematico e compulsivo diventano ciechi, no? Ecco, sono retaggi di quei secoli, del terrore che con cui fu raccontato. E se parliamo di autoerotismo femminile le cose si fanno anche più complicate perché ancora una volta la donna veniva posta in posizione subordinata rispetto all'uomo: a parità di "peccato", la donna subiva meno danni perché non sprecava fluidi preziosi, utili alla riproduzione. Quindi, per farla breve, era vietato per entrambi i sessi ma l'uomo finiva più spesso all'inferno perché il suo seme era più prezioso. 

Anche nelle punizioni gli uomini parevano essere i protagonisti.

Dulbecco poi procede a raccontare il versante della psicoanalisi, dunque le teorie di Freud, di Stekel, i primi tentativi di riscattare l'autoerotismo da baratro in cui era caduto. Stekel stesso, psicoterapeuta che si opponeva alla teorie freudiane, affermò che erano «le privazioni e le proibizioni - di carattere igienico, morale, educativo - a causare le malattie fisiche e mentali che per tanto tempo erano state imputate alla pratica. Era convinto, cioè, che chi fosse portato a smettere temendo problemi di salute gravi, se non addirittura mortali, sviluppasse sì una nevrosi, ma proprio a causa del senso di colpa, della vergogna e della paura instillati poco per volta. «Ho sempre rilevato - scriveva - che le persone si ammalano quando per i motivi più svariati fanno violenza alla propria natura intima e ai propri bisogni». (p. 63)

Infine, Dulbecco ci parla dell'autoerotismo oggi, di quanto dei secoli scorsi è rimasto nel nostro approccio all'autoerotismo, quali spauracchi si sono sostituiti alla religione e alla fobia della malattia, l'attenzione che poniamo sulle tematiche inerenti al piacere queer, sempre troppo trascurato o mal raccontato.

Insomma, un saggio svelto, agile, interessantissimo, adatto a chi vuole saperne di più sul come la storia della masturbazione, femminile e maschile, si è evoluta nel corso del tempo e quali retaggi, quesiti, dubbi e sfide ci ha lasciato da affrontare oggi.

Deborah D'Addetta


La malattia come cura: la potenza di "Addio, bella crudeltà" di Riccardo Meozzi



Addio, bella crudeltà
di Riccardo Meozzi
edito da E/O edizioni, febbraio 2025

pp. 208
€ 17,50 (cartaceo)
€ 11,99 (eBook)

Nell'intreccio delicato delle nostre esistenze, l'amore spesso si manifesta come una forza tanto sublime quanto crudele. È un sentimento che ci avvolge, ci trasforma e, talvolta, ci mette di fronte alle nostre più profonde fragilità. In questo complesso scenario emotivo, Addio, bella crudeltà di Riccardo Meozzi emerge come un'opera che esplora con sensibilità e profondità le sfumature dell'amore giovanile, della passione travolgente e delle sfide inaspettate che la vita ci riserva.

Ambientato negli anni Novanta, il romanzo narra la storia di Giovanni e Lidia, due adolescenti che si incontrano e si innamorano in un contesto che sembra soffocarli. La loro relazione nasce da un bisogno reciproco di evasione: Giovanni, con la sua presenza dominante, e Lidia, alla ricerca di uno spazio in cui sentirsi vista e amata. Fin dalle prime pagine, Meozzi dipinge un quadro vivido della loro dinamica, evidenziando come l'equilibrio tra i due sia precario e spesso inclinato verso una dipendenza emotiva più che verso un amore sano.

La decisione di sposarsi subito dopo le superiori rappresenta per entrambi una fuga dalle rispettive realtà opprimenti. Tuttavia, la vita li mette presto alla prova quando Giovanni si ammala di un tumore al cervello dopo aver sofferto di forte emicrania per anni. Questo evento drammatico inverte i ruoli all'interno della coppia: Giovanni, un tempo pilastro della relazione, diventa vulnerabile, scontroso e bisognoso di supporto, mentre Lidia assume il ruolo di sostegno principale. Meozzi esplora con maestria questa trasformazione, mostrando come la malattia possa ridefinire le dinamiche di potere e affetto in una relazione.

Si china ancora una volta. Va avanti. Gli dice che ha sopportato tutto quello che è venuto dopo per amore e poi per senso del dovere, perché odiava vederlo stare male, e si era quindi sottomessa di nuovo. Non a lui, ma alla malattia, a vederlo in quello stato, a inventare un modo per potergli permettere di vivere comunque quel che avevano voluto insieme. E poi era stato abbastanza, e poi troppo, e non era neanche potuta star male perché era lui il malato. Adesso era tardi anche per baciarlo. (p. 187)

L'amore tra Giovanni e Lidia diventa, in questo caso, un catalizzatore per una nuova forma di amore, meno artefatta e meno legata ai ruoli sociali predefiniti. La vulnerabilità porta i protagonisti a una connessione emotiva più profonda, seppur molto silenziosa, in cui le maschere cadono e l'essenza dell'altro si rivela in tutta la sua umanità. L'autore riscrive le regole dell'affetto e del potere, imponendo una trasformazione dolorosa ma anche portatrice di nuove consapevolezze: restare accanto all'altro senza riserve.

Un aspetto particolarmente interessante del romanzo è la sua struttura narrativa anticronologica. La storia si sviluppa attraverso una serie di flashback che svelano gradualmente gli eventi passati, offrendo al lettore una comprensione più profonda delle motivazioni e delle esperienze dei protagonisti. Questa scelta stilistica riflette l'idea che il presente sia costantemente influenzato dal passato e che, per comprendere appieno una relazione, sia necessario esaminare le sue radici e le sue evoluzioni nel tempo.

Meozzi affronta temi universali come la fragilità dei legami umani, il peso del tempo e la crudeltà dell'amore quando smette di essere una scelta consapevole e diventa una forma di resistenza. La sua prosa è intesa e penetrante, capace di catturare le complessità delle emozioni umane senza cadere in cliché o sentimentalismi eccessivi. Attraverso la storia di Giovanni e Lidia, l'autore invita il lettore a riflettere sulla natura dell'amore, sulle sue trasformazioni e su come le esperienze condivise possano sia unire che allontanare. 

La "crudeltà" del titolo rappresenta la durezza e l'inevitabilità dei cambiamenti. Non è forse senza Giovanni che Lidia ha ricominciato una nuova vita? Non è forse grazie alla malattia che Lidia comincia a prendersi cura anche di sé per dare a se stesse quelle attenzioni che le mancano? Per Meozzi, la crudeltà dell'amore incarna la realtà spietata che spesso si cela dietro le passioni intense e le relazioni simbiotiche. È la consapevolezza che l'amore, per quanto profondo, può trasformarsi in una gabbia quando diventa totalizzante e privo di spazio per l'individualità.

Serena Palmese

«Il passato è così, vero? Credi di essertelo lasciato alle spalle, poi un giorno entri in una stanza e lo trovi lì ad aspettarti». "Il giorno dell'ape", di Paul Murray



Il giorno dell'ape
di Paul Murray
Einaudi, gennaio 2025

Traduzione di Tommaso Pincio

pp. 664
€ 22 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)

Ma crede sia il caso di farci studiare una persona così? […] Siamo tutti persone così, disse Miss Grehan. Tutti noi abbiamo dei problemi. Ma spesso, invece di accettare la verità su noi stessi, preferiamo nasconderla sotto il tappeto. Cerchiamo di trasformarci in ciò che pensiamo di dover essere. Molte delle brutture che ci sono al mondo provengono da persone che fingono di essere qualcosa che non sono. (p. 33)

A meno di non essere stati rinchiusi in una caverna nelle ultime settimane, è piuttosto improbabile non aver sentito parlare di Il giorno dell’ape, il nuovo romanzo dello scrittore irlandese Paul Murray, in libreria da fine gennaio per Einaudi. Il giudizio è pressoché identico ovunque, l’entusiasmo generale della critica anglosassone si è tradotto in una altrettanto calorosa accoglienza da parte di quella italiana. Un successo notevole per questa poderosa storia che si snoda per oltre seicento pagine, libro dell’anno per The New York Times, Guardian, Washington Post, New Yorker, The Economist, finalista al Man Booker Prize e vincitore del’Irish Book Of the Year 2023. Arriva dunque in Italia tradotto da Tommaso Pincio con questo carico di aspettative, accresciute dalle parole di scrittori come Sandro Veronesi, che lo inserisce tra i più importanti libri di questo quarto di secolo. Ricorre, nei vari salotti letterari e “discussioni” intorno al libro, anche il nome di Franzen, di cui Murray sarebbe una sorta di risposta irlandese. Difficile con queste premesse riuscire a formarsi un’opinione propria in merito senza rischiare di scivolare da una parte nella superficialità di critica a seguito dell’entusiasmo generale o, per contro, di volersi porre a tutti i costi come voce fuori dal coro, in una posa di snobismo che non porta nulla al discorso letterario.

Fin da principio, mi sento di poter sostenere alcune cose in modo chiaro: Il giorno dell’ape è un romanzo potente, dall’architettura solida, universale nelle tematiche affrontate; certe scelte di traduzione mi hanno lasciata alquanto perplessa, ma colgo perfettamente anche la sfida rappresentata dalla prosa di Murray e Tommaso Pincio è un professionista; il richiamo a Franzen ha senso solo fino a un certo punto, in quanto romanziere che si è spesso concentrato sul tema famigliare, come il Murray di questo romanzo, ma le similitudini si fermano qui. È quindi un romanzo straordinario, libro dell’anno, tra i più importanti degli ultimi venticinque anni? Il nostro giudizio su un’opera artistica è sempre e per sua natura difettoso: entriamo in contatto con una minima parte della produzione annuale, ogni lettura è in qualche modo influenzata dalle nostre competenze, studi, soggettività, esperienza umana, dal filtro con cui osserviamo il mondo. Chi mi può garantire che in Vietnam, per esempio, non ci sia una scrittrice che stia rivoluzionando il canone letterario o un romanzo che racconti la rovina di una famiglia molto meglio di quanto abbia fatto Murray? O, stando all’area anglosassone e pure io stessa leggendo anche in lingua originale, quanto è limitata comunque la selezione che faccio, quanti autori, quanti testi, restano fuori? Mi rendo conto che sto insinuando più dubbi che risposte, ma diffido sempre un po’ da certi picchi di entusiasmo.

E dunque: Il giorno dell’ape è un ottimo romanzo, che francamente avrei sfoltito di un centinaio di pagine, la prosa e la tenuta narrativa sono senza dubbio interessanti, ma non ai livelli di quanto ha fatto Sally Rooney in Intermezzo, per esempio. Ci sono passaggi che ho trovato didascalici e francamente continuo a interrogarmi sul perché Pincio a un certo punto abbia deciso di tradurre “showroom” con “garage” o usare espressioni lombarde come “menga”. Tuttavia, di rado ho trovato una narrazione così salda e uno scavo nella psiche dei personaggi, negli angoli più reconditi, riuscendo a tradursi sulla pagina in persone fatte di carne e sangue, complesse, mutevoli. Murray stringe perfettamente il filo di tutti gli innumerevoli spunti, tematiche, movimenti minimi e accadimenti, che di colpo si svelano al lettore come infiniti dettagli disseminati lungo la trama a comporre un quadro maestoso dove nulla è mai lasciato al caso. Farlo, nello spazio di quasi seicentocinquanta pagine e in una storia così densa di cose senza però mai diventare strabordante, è di certo notevole.

Il giorno dell’ape è un romanzo corale, una storia famigliare, in cui si alterano i punti di vista e le voci dei quattro componenti della famiglia Barnes: Cass, la figlia adolescente in procinto di diplomarsi e partire per il Trinity College; Imelda, la moglie bellissima dal passato difficile; PJ, il figlio minore e vittima dei bulli; Dickie, il capofamiglia, padre, marito. Vivono in una villa ai margini della foresta – un richiamo ancestrale che avrà un ruolo tanto simbolico quanto concreto lungo tutta la vicenda e fino all’epilogo – in una cittadina a due ore di strada da Dublino, una piccola comunità dove tutti quanti si conoscono e tutti quanti sono pronti a guardarti cadere. E la caduta dei Barnes è particolarmente rovinosa. Questa, in fondo, è la storia: la rovina di una famiglia, un errore che porta allo sgretolarsi di ogni cosa ma, soprattutto, che delinea ruoli, desideri, colpe e mette in crisi tutto ciò che fino a quel momento si credeva impossibile da scalfire, i rapporti, la propria concezione di sé stessi.

Il punto d’origine di questa caduta pare essere la crisi dell’attività di famiglia, le autoconcessionarie fondate dal padre e ormai da tempo guidate da Dickie, il primogenito. Pare, perché addentrandoci nella storia è presto evidente che i segni della rovina erano già parte della vita dei Barnes da molto prima della crisi economica del 2008, che ha investito la città e, come tante altre attività, anche la loro. La caduta dell’impero lascia tutti loro allibiti e di colpo li trascina dall’essere la famiglia più ricca e in vista della città a fantasmi che vanno di nascosto a fare la spesa in qualche discount mai frequentato prima, mettere all’asta online capi di abbigliamento firmati, gioielli, pezzi d’arredo unici. Per Imelda il crollo della sicurezza economica che il matrimonio con Dickie le ha garantito è un tradimento imperdonabile e risveglia in lei il passato di povertà, abusi, violenza e privazioni da cui era fuggita vent’anni prima incontrando i Barnes. Dickie tenta con scarso successo di minimizzare la gravità della situazione, ma è presto evidente che le cose hanno raggiunto un punto di non ritorno. I figli sembrano vedere per la prima volta le crepe lungo la facciata di una famiglia tutt’altro che perfetta, dentro la quale si annidano invece antichi rancori, segreti ben sepolti che spingono per venire fuori. Intorno a loro una comunità tutt’altro che coesa e solidale, intenta a osservare con maligna soddisfazione la caduta dei potenti.

Probabilmente l’aspetto peggiore della lenta agonia in cui si sta spegnendo l’attività di famiglia è proprio scoprire quanti in paese ne gioiscano – in quanti, per tutti questi anni, abbiano odiato i Barnes in silenzio. (p. 451)

I Barnes, che alla contea hanno offerto in tutti quegli anni non pochi drammi e colpi di scena. Ed è un pezzo alla volta, da punti di vista differenti, che il lettore conosce davvero questa famiglia, il suo passato, le disgrazie che l’hanno colpita, le meschinità, i segreti. Perché il crollo dello showroom non è che l’ultima più evidente crisi che li investe, ma la loro caduta è iniziata molto prima, forse proprio in quel giorno dell’ape… Murray compone un romanzo ricchissimo di trama e non è mia intenzione svelarvi nulla di più di quello che serve a inquadrare la storia: la mole è importante, ma è difficile staccarsi dalle pagine, stregati da un racconto tanto denso, ricco di colpi di scena, mutamenti, personaggi. E, allo stesso tempo, Il giorno dell’ape non è però soltanto romanzo di trama, seppur godibilissimo, ma un’attenta analisi psicologica dei personaggi che lo compongono, indagine delle zone più oscure dell’animo umano, dei tormenti, della lotta al proprio io, in una storia che si intreccia a tematiche complesse e ammalia per la solidità con cui l’autore riesce a trasportarci dalla riflessione sul cambiamento climatico all’orientamento sessuale, il conflitto generazionale e gli abusi, l’influenza del passato, le radici, il matrimonio.

È, soprattutto, un romanzo sulla vulnerabilità: degli individui, ma anche dei rapporti e, non da ultimo, del fragile ecosistema del nostro mondo. La crisi, la rovina, dunque, è privata e specifica, ma si espande all’esterno e travolge ogni cosa. Va da sé che un romanzo di questa portata racchiuda una molteplicità di spunti e riflessioni su cui varrebbe la pena concentrarsi in modo dettagliato; scelgo però di inquadrarne solo alcuni, di particolare interesse per la resa letteraria, per la profondità delle considerazioni. E parto da Imelda, la cui voce in questo romanzo corale è quella che spicca con maggior intensità: Murray sceglie infatti di affidare la narrazione alle voci diverse e alternate dei protagonisti, rafforzando in questo modo la soggettività sulla vicenda, lo sguardo peculiare su ciò che sta accadendo e mediante piani temporali che intrecciano il presente al passato che li ha condotti fino a quel momento, le scelte compiute, le parole taciute. Ognuno di loro ha un punto di vista diverso e in potenziale anche una voce; quella di Imelda si fa la più riconoscibile – e perfetta per il personaggio – grazie alla scelta di usare una sorta di monologo interiore che scivola verso il flusso di coscienza e senza segni di punteggiatura, a seguire pensieri, ricordi, allucinazioni del personaggio. La storia di Imelda è intrisa di dolore e la bellezza straordinaria è solo la maschera che nasconde un passato di abusi, povertà estrema, disperazione. L’incontro con i Barnes cambierà ogni cosa, ma prima di tutto la mette di fronte all’evidenza della distanza che c’è tra quelli come lei e loro, dall’infanzia dalla quale è scappata e le vite cariche di possibilità.

E nell’ascoltarli realizzò che era questo a renderli diversi Perché a casa sua non si facevano piani di nessun tipo Non si pensava al futuro La vita ti veniva addosso come membri di una banda usciti da un furgone (p. 224)

Sarà presto chiaro, tuttavia, che ogni famiglia nasconde le proprie colpe, ogni famiglia indossa una maschera per mostrarsi al mondo in modo accettabile e anche i Barnes, soprattutto i Barnes, non sono immuni al dolore. Vent’anni dopo, annientata dalla rovina che ha colpito tutti loro, Imelda ripenserà al «residuo di un’altra vita» (p. 290), quello che doveva essere e che poi si è trasformato in cenere. È stata una morte violenta il momento in cui ogni cosa si è infranta? È stato il giorno dell’ape? Ancora prima, quando se n’è andata dalla casa di suo padre per trasferirsi dalla vecchia Rose, la donna che sembra avere il dono speciale di vedere cose che altri non possono vedere? È stato quando si è rivolta a Maurice, il capostipite, tanti anni prima o adesso, affinché li salvi dalla rovina finanziaria?

Era insopportabile Esserci ancora Essere ancora viva (p. 272)

E insopportabile è uscire dal flusso di pensieri di Imelda, dalle pieghe della sua storia e la portata di quello che rappresentano. Ne emergiamo per seguire il filo di una storia che è chiaro fin da principio non fa sconti e dove è difficile credere possa esserci consolazione. Non vi svelerò il finale, naturalmente, ma il ritmo sempre più sincopato ci porta a un momento di massima tensione e sarà interessante confrontarsi sul significato dell’epilogo, sulla sua interpretazione. Tempo di lasciare il flusso di pensieri di Imelda, addentrarsi in quelli di Cass, di PJ, di Dickie. Ognuno di loro porta la propria visione sulle cose, vive pezzi di vita che gli altri non conoscono, in un gioco di incomunicabilità e distanze che sono le fondamenta pericolanti di questa famiglia in rovina. Cass e PJ, con le loro peculiarità e distanze, ci ricordano quanto insidioso possa essere crescere, di quante scelte sono disseminate l’infanzia e l’adolescenza, del peso che hanno le parole non dette. 

Il giorno dell’ape è anche un romanzo sul confronto generazionale, sulla violenza dei sentimenti e dei rapporti con i genitori, che qualche volta restano schiacciati dal peso di quello che non si può dire, dalle distanze incolmabili. L’indifferenza di Cass a quello che accade nella sua famiglia, le sue risposte brutali, le sue scelte avventate sono lo spauracchio di un’adolescenza incomprensibile ed estranea, che porta il carico di veder crollare ogni certezza nello stesso momento in cui dentro di sé sembra esistere solo caos e confusione. Murray costruisce con Cass - ma non solo con lei - un personaggio difficile da amare, realissimo tanto nei turbamenti quanto nelle azioni che compie, acuto e scostante. Mette un punto difficile da dimenticare nelle innumerevoli rappresentazioni del rapporto padri-figlie, perché non ha paura di essere brutale, onesto.

Avrai l’impressione che papà ti giudichi e ti chieda al contempo compassione e tu non saprai cosa sia peggio. E in un attimo ti tornerà in mente perché hai iniziato a odiarlo: perché ti ha insegnato a essere giusta, integra, buona, e tu hai scoperto che non sapevi esserlo; perché tuo padre non può fare a meno di te, perché ha ancora bisogno di te come quando eri la sua bambina, anche se sei diventata odiosa, viscida, orribile e perversa. Perché sai che, se sapesse la verità, ti vorrebbe comunque bene, e per qualche ragione questo ti è insopportabile. (p. 614)

Ho detto che Il giorno dell’ape è la storia di una famiglia che va in pezzi. Ho detto che è un romanzo sul rapporto generazionale. Ho detto che alla storia si intreccia il discorso sul cambiamento climatico ma anche quello sull’abuso, la violenza, la sessualità, la profondità delle radici. Non ho detto che forse prima di tutto è un romanzo sull’identità: su quella più vera, ma più ancora su quella che scegliamo di calzare, una maschera che risponde alle aspettative, le nostre prima ancora di quelle degli altri. Dickie incarna perfettamente questa contraddizione, il bisogno di essere ciò che pensiamo gli altri ci chiedono di essere. Fino al punto che accettare la verità su chi siamo diventa insopportabile, meglio «nasconderla sotto il tappeto» e fingere di essere qualcosa che non siamo. Ma cosa succede quando fingere si trasforma però in una vita, in persone che amiamo e che a loro volta ci amano o ci hanno amato senza però conoscerci davvero? Eccolo, un altro nodo: fino a che punto possiamo conoscere le persone che amiamo? E fino a che punto saremmo disposti a perdonarle, ad amarle lo stesso, qualsiasi cosa abbiano fatto, a loro stessi, alle nostre vite? 

Il giorno dell’ape è un romanzo magnifico, imperfetto, brutale, che alla fine della lettura mi ha fatto venire voglia di scagliare via il libro con violenza. Non lo so se è il miglior romanzo dell’anno, di questo quarto di secolo o di questo quarto d’ora di celebrità e nemmeno mi importa. So quello che conta: che è una storia capace di suscitare dibattito, mettere scomodo il lettore e spingerlo a interrogarsi. Un testo denso e di trama ma che si regge su una narrazione salda e scelte stilistiche interessanti. Una storia che forse, mi auguro, non ha niente in comune con noi e con le nostre vite, perché la letteratura non ha certo il compito di farci da specchio ma, casomai, di offrirci uno spiraglio su qualcosa di altro. Non consola, offre ben pochi spiragli di luce. Non è Franzen, non è nient’altro che Paul Murray, la sua voce, la sua scrittura. A cui perdono certi momenti didascalici, alcune lungaggini di troppo. Il finale, non so ancora se perdonare Murray o ringraziarlo per il carico di ambiguità.

Debora Lambruschini

Un narratore bizzarro, inaffidabile, sul quale resta il dubbio: è un genio o è solo pazzo? Il nuovo romanzo di Luis Landero


 

Una storia ridicola
di Luis Landero
Fazi, gennaio 2025

Traduzione di Giulia Zavagna

pp. 216
€ 18,50 (cartaceo)
€ 11,99 (e-book)

Certo, avevo sperimentato quella stessa passione con alcuni dei miei nemici, intendo il bisogno di stargli vicino e, in qualche modo, il non saper vivere senza di loro, ma con Pepita era diverso, perché se l'odio può arrivare a essere soddisfatto o attenuato con la vendetta o il disprezzo, in amore non c'è altra possibilità che la conquista dell'amata, e al di là di questo tutto è fallimento, orrore, rovina e desolazione. In amore ci si gioca tutto con una sola carta, mentre nell'odio sono molti gli assi, le combinazioni, le sfumature del gioco. Le varianti dell'odio sono molto più ricche e numerose di quelle dell'a-more. Sebbene sia vero che, in fondo, le storie d'odio e quelle d'amore sono esposte in parti uguali ai soprusi dell'immaginazione e della follia. (p. 32)

Luis Landero, autore spagnolo classe '48, già conosciuto per aver pubblicato, sempre con Fazi, il romanzo pluripremiato Pioggia sottile, torna con una storia che lui titola "ridicola" e che effettivamente possiede la capacità straordinaria di non far comprendere appieno se il protagonista sia un genio o un pazzo cialtrone.
Marcial è un uomo peculiare e, quello che diremmo, un narratore inaffidabile: filosofeggia sul qualsiasi argomento, dando sfoggio della sua inaspettata capacità dialettica e ricchezza culturale, nonostante per sua stessa ammissione, non sia che un umile lavoratore in un mattatoio, a contatto con la carne viva, il sangue, il processo della morte. Ci espone, quasi in modo accademico, cosa pensa delle persone, dell'amore, dei suoi comportamenti, giustificando il suo tratto caratteriale estremamente critico e un po' snob attraverso interludi filosofici scritti in forma confidenziale. 

Marcial si rivolge al lettore, è un narratore che parla in prima persona, e ci si domanda subito quanto sia vero ciò che dice, quanto c'è di geniale nelle sue "perle" di saggezza e quanto di follia autoreferenziale. Una nota familiare è che si ripete spesso, affermando appunto di ripetersi, come se il lettore stesso fosse - ai suoi occhi - un po' stupido oppure giudicante e ostile nei suoi confronti.

Marcial è saccente, per niente modesto, e continuamente promette al lettore mirabolanti prove della sua presunta intelligenza, del suo talento. A fare cosa? Beh, secondo lui, tutto. Questa sua arroganza comincerà a vacillare, come spesso accade anche nella vita vera, quanto incontra Pepita, la straordinaria donna di cui si innamora perdutamente. Se ne innamora così perdutamente che deciderà di ucciderla.

Ora, questa questione potrebbe sembrare al lettore la classica espressione patologica e malata di un uomo che non sopporta di non avere una donna e dunque "o mia o di nessuno". In realtà, proprio in virtù del fatto che Marcial è un personaggio davvero bizzarro, lui stesso spiega perché, argomentando la sua decisione, quasi convincendoci che, tutto sommato, l'idea non è così bizzarra. Ecco perché in apertura ho detto che si ci confonde su di lui, certamente una scelta narrativa voluta dall'autore, perché nei suoi deliri saltano fuori alcune considerazioni che fanno pensare "beh, però non ha tutti i torti".

Da quel pomeriggio, molte volte mi baloccai con la fantasia di uccidere Pepita e poi porre fine alla mia stessa vita. Non era, ovviamente, la prima volta che mi succedeva. Come tanti altri, anch'io ho spesso sentito il desiderio di eliminare qualcuno, e non solo persone che odiavo dal più profondo e segreto del cuore, ma a volte anche chi mi era semplicemente antipatico, o mi suscitava un lieve disappunto, tanto enigmatici e capricciosi sono quei raptus giustizieri. Il pensiero e il cuore sono indi-pendenti, non possiamo evitarlo, e in tutti noi, perfino nei più docili, c'è in agguato un assassino, in attesa del suo momento. Eppure, perché si veda fino a che punto è volubile quell'istinto criminale contro il prossimo, Ibáñez e la taverniera, per esempio, raramente mi ispirarono il desiderio di ucciderli.

Forse perché non li ho mai considerati acerrimi nemici, non li ho mai odiati a fondo e con consapevolezza. E sono certo che nemmeno loro l'hanno fatto con me. In termini amorosi, direi che eravamo qualcosa di simile a lieti amanti occasionali, non innamorati disposti a uccidere e a morire per amore (p. 73)

Al di là dei suoi propositi folli, Marcial, di fianco a Pepita diventa un cucciolo, ma al tempo stesso assume un atteggiamento ossessivo: pensa e ripensa in continuazione a ciò che ha detto in sua presenza, a come si è mosso, a che errori ha commesso, a quanto si è reso ridicolo (la sua paura più grande), a come rimediare al fatto di essersi reso ridicolo. Questi sprazzi di pazzia sono mitigati da raccontini divertenti del rapporto di odi et amo che intrattiene con alcune persone di sua conoscenza, su tutti, la locandiera di una taverna castigliana e l'amministratore del suo condominio, il signor Ibáñez. 

L'ho già detto prima, e non mi stancherò di ripeterlo: detesto le ovvietà, e questa domanda è un'ovvietà. Certo che ci pensai. Certo che sarebbe piaciuto anche a me sistemare in qualche modo quel malinteso, perché so quanto può far male un'offesa, ma ormai eravamo entrambi sopraffatti dalla situazione, il destino ci aveva già assegnato i rispettivi ruoli nel dramma. E questo senza contare il piacere che la nostra avversione reciproca già cominciava a procurarci. Ripeto: il piacere che la nostra avversione reciproca già cominciava a procurarci. Pagai, presi il resto, feci un vago saluto con la mano e me ne andai senza guardarla. Per qualche giorno mi misi ad analizzare in profondità quell'incidente, e più di una volta fui sul punto di andare a trovarla per tentare di riparare al torto, ma qualcosa mi diceva che era tardi, che il danno dello sgarbo era ormai irreparabile, e che, come gli innamorati, entrambi eravamo rimasti intrappolati senza rimedio nella fatidica rete della rivalità. Questa è la mia teoria circa l'origine della nostra discordia. (p. 50)

Il racconto comunque si incentra per la maggiore sulla conquista di Pepita da parte di Marcial, una conquista stramba, ironica, che ha dell'assurdo. Mi sembra quasi un personaggio picaresco, con la differenza che invece di gonfiare i suoi successi e sgonfiare gli insuccessi, Marcial opera al contrario. Resta il dubbio, forse chiarito o forse no, che Marcial sia un grandissimo ridicolo (e qui riprendo il titolo) e bugiardo.

Ne consiglio la lettura a chi cerca un romanzo breve diverso, originale, con un narratore che potrebbe far saltare i nervi ai più, ma che in fondo ha una capacità di convincimento che gli concede il beneficio del dubbio. 

Deborah D'Addetta

La Grande Guerra nell’opera teatrale di R. C. Sherriff: “La fine del viaggio”

 

La fine del viaggio
di Robert Cedric Sherriff
Fazi editore, 21 febbraio 2025

Traduzione di Silvia Castoldi

pp. 140
€ 17 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)

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I muri di terra attutiscono i rumori della guerra, rendendoli deboli e lontani, nonostante la prima linea sia solo a cinquanta metri più avanti. Le fiamme delle candele che ardono giorno e notte restano immobili nell’aria ferma e umida. (p. 11)

Immaginatevi un teatro, un palco e un sipario che si apre sulla Prima Guerra Mondiale e su un comparto di fanteria inglese, bloccato in trincea. Ecco, sono questi i punti centrali di La fine del viaggio di Robert Cedric Sherriff, opera teatrale messa in scena, per la prima volta, nel 1928.

A comparire per primo è il tenente Stanhope, giovanissimo soldato inglese che ha fatto una velocissima carriera, riuscendo ad arrivare ai gradi più alti. Fin da subito, la domanda sorge spontanea: a quale prezzo? Sì, perché quel tenente, che agli occhi di tutti è l’incarnazione dell’eroe, ha scelto un modo tutt’altro che semplice per sopravvivere: l’alcol. Questa dipendenza è ormai un fatto noto al comparto, tanto che anche i suoi sottoposti se ne fanno beffa, solamente uno sembra comprendere le sue ragioni, l’ufficiale Osborne. L’ufficiale, infatti, non biasima l’amico per quella scelta che, in "tempi normali" sarebbe scellerata, ma che lì in trincea diventa l'unica possibile. D'altronde, il tenente Stanhope è lì da tre anni e ha assistito alle morti e alle menomazioni dei suoi compagni, cosa che ha segnato per sempre la sua mente brillante.

Lo faccio per dimenticare [...]! Per dimenticare! Lo capisci? Per dimenticare! Pensi che non ci sia limite a quello che un uomo può sopportare? (p. 125)

La trasformazione è talmente evidente che, quando si unisce al suo reparto il diciottenne Raleigh, Stanhope stenta a riconoscerlo. Entrambi, infatti, si conoscono fin dai tempi di pace, amici e appartenenti agli stessi ambienti inglesi. Ed è proprio per quest’amicizia che Raleigh decide di arruolarsi e di entrare nel comparto dell'amico. Quando arriva, però, Stanhope non è lo stesso: è diventato burbero, alcolizzato e sembra abbia perso quello scintillio di orgoglio che aveva all'ultima licenza, ormai avvenuta tre anni.

È un microcosmo umano, prima che bellico, quello raccontato da Sherriff in quest'opera teatrale, nella quale la Grande Guerra, ormai agli sgoccioli, rimane sullo sfondo, mostrando il logoramento dei soldati. Sì, tutti e cinque i personaggi sono in attesa di un attacco, della fine o solo della morte che, per molti, diventa una forma di libertà da quelle atrocità. Il tempo così scorre lentissimo, scandito solo da messaggi di guerra, da bicchieri di alcol e da battute che suscitano un sorriso amaro. Tutti i personaggi, dunque, aspettano qualcosa di indefinito, ognuno imprigionato nel suo trauma. Se da una parte c’è il crollo morale, dall’altra c’è la fine delle illusioni, di quella Guerra che, prima dell’arruolamento, era avvertita come “necessaria” e che ora ha perso ogni motivazione. Raleigh incarna quella delusione che potrebbe essere quella di altri molti soldati perché «il fronte logora gli uomini... e non poco...» (p. 29).

La fine del viaggio ha il respiro della narrazione contemporanea; se non fosse per la struttura teatrale (il testo è diviso infatti in tre atti), potrebbe essere un romanzo breve, tanto che, in quelle battute così vivide, sembra essere rappresentato l’antieroismo: nessuno dei protagonisti si muove come un “superuomo”, bensì Sherriff mostra tutta la loro fragilità, debolezza fisica e psicologica, ponendo una domanda che vale allora come oggi: sopravvivere o sperare di morire in quelle condizioni? È questa la domanda che scorre nella mente del battaglione inglese. Quel che è certo che, in quelle ore di attesa, «sembra tutto piuttosto... stupido» (p. 62) e quell’orgoglio sembra svanito nel buio e nel silenzio che accompagna e schiaccia i personaggi sulla scena.

In La fine del viaggio c'è un'immediatezza comunicativa, che è sicuramente tradizionale nella forma teatrale, ma che Sherriff sfrutta per rendere partecipe il lettore di quell'esaurimento che colpì la maggior parte dei soldati. E forse il senso della lettura sta nel titolo: è la fine del viaggio dopo anni di guerra ma che comporterà un futuro sicuramente meno luminoso.

Giada Marzocchi

Le braci di un amore: «Materiali resistenti» di Francesca Marzia Esposito


Materiali resistenti
di Francesca Marzia Esposito
Harper Collins, febbraio 2025 

pp. 224
€ 18,50 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook) 

Dovrei bloccarlo, rimuoverlo dai contatti. Nel primo mese l’ho tolto e rimesso non so più quante volte. Poi mi ha tolto lui e mi ha richiesto l’amicizia lui. Ho accettato, eliminato, bloccato e sbloccato mille volte. Alla fine è rimasto fuori dalla bolla ma visibile. Quindi se voglio posso andare sulla pagina e strafarmi della sua immagine pubblica in dosi massicce. (pp. 13-14)

L’amore ha sul cervello effetti simili a quelli prodotti dalle droghe: entrambi mettono in moto la produzione di ormoni e neurotrasmettitori come la dopamina, noradrenalina, la serotonina, e di conseguenza ci fanno sentire superattivi, vitali, energici, concentrati soltanto a ricercare costantemente l’oggetto del nostro desiderio. Poi nel tempo le cose si stabilizzano, si crea un legame profondo e la persona (o la sostanza) diventano parte della nostra quotidianità al punto da non immaginare un’esistenza priva della sua presenza. E cosa accade – in entrambi i casi – quando l’altra componente di questo nuovo binomio viene a mancare, magari per una motivazione che non dipende da noi? Crisi d’astinenza, dolore emotivo e fisico, incapacità di concentrarsi su altro che non sia quella cosa. A volte, una vita distrutta.

Degli effetti della fine di un amore ci parla bene il nuovo romanzo di Francesca Marzia Esposito, questo Materiali resistenti che del rapporto fra resistenza – appunto – e fragilità fa la propria bandiera a partire dalla copertina, con quella silhouette di un fiore sul punto di scomparire, e che sembra il vestito soffice ed etero di una ballerina. L’oggetto del desiderio venuto a mancare è Mauro, un uomo come tanti: divorziato, con una figlia... a ben guardare non sappiamo molto altro di lui se non l’immagine che Quintana, la protagonista, ha creato nel tempo. Un’immagine distorta come quella che rinveniamo nei frammenti di uno specchio rotto, ciascuno dei quali riflette un dettaglio incoerente, una molteplicità disordinata incapace di restituire l’intero, il vero. Sin dalla prima pagina Mauro è in quasi ogni riga ma solo per sentito dire.

La sua assenza è compensata dalla sua ingombrante presenza sui social – dove scrive, mette immagini, racconta di sé e della nuova fiamma, con la quale scatta subito una competizione che però è solo interiore, perché la vita di Mauro e della nuova donna che gli sta accanto è separata, distante, avviene in differita – ma soprattutto è compensata dalla presenza nella mente di Quintana, che quasi non riesce a formulare un pensiero senza dover tornare a lui. Ogni passo, dentro e fuori casa – in quella Milano algida e frenetica descritta così bene da Esposito –, ogni conversazione con l’amica Agata riporta a Mauro. Eppure Mauro non compare spesso nelle parole di Quintana. Esiste, persiste e insiste soprattutto nei suoi pensieri. Quintana infatti “non dice”, come sottolinea la narrazione serrata di Esposito. Non dice, non parla di lui, lo ricaccia dentro di sé come fosse un segreto da proteggere o qualcosa di incomprensibile agli altri. Anche nelle sedute con lo psicologo, Quintana “non dice”. Parla di altro, racconta fatti e fattarelli, pettegolezzi, quotidianità, ma il vero problema – quell’assenza che è astinenza – non viene fuori. E così passano i giorni, e dove non interviene la risolutezza di una donna distrutta interverrà – forse – il tempo e la sua capacità di appiattire ogni cosa, come la marea che abbatte i castelli di sabbia sulla battigia.

Gli ingredienti di cui è composto questo libro sono pochi ma ben congegnati: una manciata di donne, ciascuna con le proprie fisse; una casa enorme e vuota; un quartiere appena accennato nel quale avvengono fatti a volte poco rilevanti; una fonte di dipendenza che sembra non voler scomparire. Con questi pochi ingredienti Esposito costruire Materiali resistenti, alla maniera con cui aveva già costruito il primo romanzo, quel La forma minima della felicità pubblicato con Baldini + Castoldi ormai dieci anni fa. Come altri romanzi basati su pochi ingredienti, il rischio è sempre quello di arrivare a un’impasse nella parte centrale, in quel momento che spesso è di passaggio fra l’incipit e la conclusione. Anche qui il rischio si avverte: le pagine della seconda metà del libro sono un po’ più incerte, frenate, perdono parte della lucidità che caratterizza il potente inizio, prima di scivolare verso il morbido finale. Esposito scrive meravigliosamente, quindi il pericolo viene scongiurato dalla sua penna che sa tagliare, affettare, sminuzzare gli ingredienti prima di ricomporli in un amalgama ben definito. Eppure persiste questa sensazione di quasi pericolo, l’idea che una o due pagine in più avrebbero fatto impazzire il composto.

Per fortuna – per bravura – ciò non accade, e il risultato è un romanzo ben strutturato, con pochissime sbavature e molti passaggi memorabili, in grado di parlare a ciascun lettore di quell’amore che ci ha divorato e infuocato l’animo, che ci è sembrato infinito ed enorme, e che poi ci ha lasciati svuotati come la carta di una caramella, gettata a terra accanto al bidone della spazzatura. Quell’amore, insomma, che ci ha costretti a ricostruirci, e che oggi ricordiamo quando uno dei nostri social ci ripropone di noi un’immagine sbiadita ed erosa dal tempo.

David Valentini

Quella Russia è scomparsa, quell'amore no: «Hélèna. Prima della rivoluzione» di Maria Gabriella Giannice


Hélèna. Prima della rivoluzione
di Maria Gabriella Giannice
Blu Atlantide, gennaio 2025 

pp. 192
€ 18,50 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook) 

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«Attento Stepán, tu rischi la testa. Che t’importa dei pizzi e delle merlettaie?». E come potevo io dire loro che in un giorno della Russia imperiale, mentre ti guardavo, Hélèna Arkàdjevna, avrei rischiato la vita proprio per i tuoi pizzi candidi, e per questo ero disposto a rischiarla ancora? (pp. 94-95)

C’è un prima e c’è un dopo. Il prima è prima della rivoluzione, come già si intuisce anche nel titolo del primo romanzo di Maria Gabriella Giannice – primo romanzo ma non primo libro, poiché Giannice è già autrice di due libri di saggistica sul cinema. Il prima di cui si parla è un tempo breve, brevissimo se confrontato con il dopo: è infatti, questo prima, l’epoca della Russia zarista del 1913 – prima della Grande guerra, prima della rivoluzione bolscevica – ma è anche il prima della giovinezza del protagonista Stepán Tverskòj, che nel dopo – dopo la rivoluzione bolscevica e durante il lungo buio della Russia comunista – vivrà una vita lunghissima, fatta di altri onori e di altri amori ma nella quale ricorderà sempre con calore ed emozione quel prima nel quale ha brillato, come una stella polare nella notte, la passione per Hélèna Arkàdjevna Karamzina, moglie del ricchissimo e potentissimo Nikolaj Aleksàndrovic Karamzin.

Hélèna. Prima della rivoluzione è infatti una storia d’amore, a voler essere estremamente riduttivi. È una storia d’amore fra due ragazzi giovanissimi, complicata dal fatto che lei non solo è sposata, bensì è sposata con un uomo crudele, cinico e arrivista, a voler essere un po’ meno riduttivi. Se invece vogliamo scendere più nel dettaglio, Hélèna. Prima della rivoluzione è la storia d’amore, tragica e disperata, di due ragazzi nella Russia imperiale, ossia in un’epoca in cui l’apparenza della vita pubblica ha un peso specifico enorme, infinito, che rende impossibile – o quasi – il buon esito di un amore clandestino. C’è Stepán Tverskòj, principe solo di nome, e c’è Nikolaj Aleksàndrovic Karamzin, non solo ricco e potente ma avido di successo, avido di gloria e soprattutto desideroso di raggiungere quella posizione che Tverskòj ha per diritto di nascita. Stepán lavora per Nikolaj, gli è quasi amico, ma c’è quell’amore di mezzo che fa nascere fra i due una guerra gelida, fatta di lento logorio, di frasi sussurrate, di fughe notturne e di esplosioni finali. Nel mezzo, Hélèna, così giovane da essere praticamente una bambina agli occhi di noi moderni.

Quel che accade dopo – dopo il grande amore, dopo la rivoluzione, dopo ogni cosa che è rilevante – è presto immaginabile e viene raccontato nelle pagine finali: l’età adulta, Lenin e Stalin, la Guerra fredda, il regime. In tutto questo gelo, fra tutte queste cose noiose da gerarchi comunisti, in Stepán brilla sempre quell’amore mai sopito e quell’anno – il 1913 – che è stato prima di ogni cosa. La grande passione che travolge, spazza via, distrugge ogni diga col flusso inarrestabile della propria marea, quella passione sta lì, nascosta da qualche parte, pronta a riscaldare nell’inverno della vita. Hélèna è lì, incorniciata come un quadro dipinto in un’epoca nella quale si scattano già fotografie.

Giannice è magistrale a dipingere scene di vita quotidiana nella Russia zarista. Siamo dopo Dostoevskij e dopo Tolstoj, in quel Novecento che il primo non ha mai visto e il secondo ha goduto per pochi anni. È una Russia che però somiglia molto a quella dei due grandi autori russi, fatta di samovar e corti nobiliari, di carrozze sgargianti e duelli alla luce del sole. E Giannice riesce a mostrarci tutto questo, a trasportarci nei palazzi imperiali e nelle ville di campagna di una Russia scomparsa, pur con uno sguardo contemporaneo, fresco e moderno. È un connubio perfetto, il suo, fra il prima e il dopo, fra lo ieri e l’oggi.

Hélèna. Prima della rivoluzione è un romanzo evocativo scritto da una penna capace e intelligente. Una penna da seguire con estrema attenzione.

David Valentini