Simenon e la sua "Francia sconosciuta" tra canali e imbarcazioni senza tempo nel volume di Adelphi dedicato ai reportage di viaggio


Una Francia sconosciuta



Una Francia sconosciuta
di Georges Simenon

Adelphi, novembre 2024

Traduzione di Maria Laura Vanorio

pp.186
€ 16 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)


Vedi il libro su Amazon


Se oggi un giornalista chiedesse a Simenon, come spesso capita di chiedere agli scrittori, la materia da cui attinge per scrivere i suoi romanzi, è in questo reportage che troverebbe la sua risposta. Viaggiare o navigare (come in questo caso) era per il grande autore un modo per conoscere la materia di ciò che avrebbe poi riversato in pagina: vite, personaggi, luoghi, atmosfere. 


Ed è per questo che decide di conoscere la Francia oltre Parigi e partire, nella primavera del 1928, appena venticinquenne, per un’avventura fluviale attraverso chiuse e canali francesi, in una Francia che oggi non esiste più nei luoghi e nemmeno nelle abitudini. 


Acquista una piccola imbarcazione, la Ginette (appena quattro metri di lunghezza e poco più di un metro e mezzo di larghezza), e si imbarca. Per sei mesi affronterà i piaceri e le scomodità di una vita in barca: dormire sotto piogge torrenziali, sprofondare nel fango, competere con le grandi chiatte trainate da cavalli per raggiungere le chiuse, e destreggiarsi tra rocce sommerse.


Il volume raccoglie cinque articoli pubblicati su diverse riviste tra il 1931 e il 1977, in cui Simenon rievoca le sue avventure nautiche insieme alla moglie Tigy, alla domestica Boule (che sarà anche sua amante) e al gigantesco cane Olaf, un alano di sessanta chili. Questi viaggi, intrapresi lungo la fitta rete di fiumi e canali francesi, ispirarono le atmosfere di romanzi polizieschi come Il cavallante della Providence, La balera da due soldi e La chiusa n. 1.


Il pezzo che dà il titolo al libro e l’articolo "Marinai da strapazzo, ma pur sempre marinai" rappresentano i primi reportage dell’autore belga e furono commissionati dal settimanale «Vu» per il numero speciale France Marine pubblicato nel luglio del 1931. Questi servizi erano arricchiti da una decina di fotografie scattate da Hans Oplatka, un giovane fotografo di origini austriache appena diciannovenne. 


Oplatka, pur ancora agli inizi della sua carriera, collaborava con la rivista, fondata nel 1928 da Lucien Vogel, ispirata al modello del fotogiornalismo della «Berliner Illustrierte Zeitung». Quest’ultimo, influenzato dalle avanguardie artistiche del dadaismo, del costruttivismo e del Bauhaus, segnò un’epoca per l’uso innovativo della fotografia nella narrazione giornalistica.


Tre anni dopo la “vita errante sui canali” vissuta a bordo, Hans Oplatka accompagna Simenon in auto per ripercorrere lo stesso itinerario. Da Parigi a Montargis; il viaggio segue il corso di fiumi iconici come la Senna, la Marna, il Rodano e la Garonna, rievocando l’atmosfera di quella precedente avventura. Durante il tragitto, Oplatka realizza circa duecento scatti, alcuni dei quali sono stati selezionati e inclusi nell’album iconografico che arricchisce il volumetto pubblicato da Adelphi.


Simenon traduce in letteratura il fascino delle locande fluviali e delle atmosfere liminali che contraddistinguono questi luoghi. Ne nasceranno le ambientazioni che accoglieranno il commissario Maigret nelle sue inchieste, talvolta condivise con la signora Maigret, in un delicato equilibrio tra il piacere del relax e il rigore investigativo. 


Questo viaggio, con la sua crudezza e il suo romanticismo, non è solo un’esperienza personale, ma una fonte d’ispirazione fondamentale che permea l’immaginario simenoniano e lo lega indissolubilmente ai paesaggi dell’anima e delle rive francesi.


Samantha Viva




Chi ha ucciso Anna Karenina? Un'indagine contemporanea e brillante di Nadia Fusini



 
Chi ha ucciso Anna Karenina?
Inchiesta sugli omicidi bianchi nei romanzi dell'Ottocento
di Nadia Fusini
Minimum Fax, settembre 2024

pp. 107
€ 14 (cartaceo)
€ 8.99 (ebook)


Nadia Fusini è una scrittrice, critica letteraria, anglista e traduttrice; nel 1974, per la rivista diretta da Gianni Scala, scrisse un saggio in cui si interrogava sulla natura delle morti delle donne nei romanzi dell'Ottocento. Ora quel testo, redatto molti anni fa, torna grazie all'attenzione di Luca Briasco, che ripubblica questo piccolo volume pregno di etica, un'indagine sociologica applicata alla letteratura o, come direbbe la scrittrice:

«Che sia la letteratura non tanto a fare da specchio alla società, ma addirittura a modellarla». (p.102)

Sono passati cinquant'anni da quella prima pubblicazione e mai avremmo pensato che argomenti come le leggi del patriarcato e la connotazione etico-politico della donna nella società fossero ancora materia di dibattiti e riflessioni; ed è la stessa Nadia Fusini che si interroga, nelle prime pagine, sull'attualità o meno di questo saggio.

«Poi rileggo le pagine di allora, e mi viene il dubbio che sì, certo, molto, forse è tutto cambiato, ma forse anche no». (p. 6)

La scrittrice analizza i romanzi Anna Karenina di Tolstoj, Madame Bovary di Flaubert, Effi Briest di Fontane, Hedda Gabler di Ibsen, Una vita di Guy de Maupassant, con perizia tecnica letteraria minuziosa che non lascia nessuna sorta di dubbio nelle maglie dell'interpretazione testuale; le morti, i suicidi di queste donne sono assassinii preterintenzionali e dolosi: morti bianche.

Il saggio, strutturato in brevi capitoli, scritto con autorevole competenza, pulito e chiaro come le migliori indagini, con un processo di sillogismo ci porta a esplorare la tesi della scrittrice, lavorando per gradi sugli intrecci dei romanzi, riscoprendo la potenza narrativa della letteratura dell'Ottocento in cui ogni incastro, ogni protagonista, ma anche figure secondarie o di passaggio, sono capolavori di specchiature etico morali. L'attuale definizione di caratterizzazione del personaggio, che tanto spesso leggiamo nella critica, perde di efficacia al pari dell'analisi e dell'uso che i grandi scrittori del passato ne facevano come forma di espressione più alta per denunciare le gravi storture sociali. Scrittori, uomini che scrivevano di donne imprigionate in una femminilità tradizionale, incastrate dall'oppressione delle etichette, schiacciate dal contesto famigliare, strattonate da figure maschili: padre, marito, amante, figli. Emma c'est moi, disse Flaubert; uomini che si sono svincolati non schierandosi nella divisione di genere, ma riconoscendo diversi tipi di identità presenti in quell'epoca.

Le donne studiate in questo saggio sono donne non ammantate dal torpore della vita; al contrario, come in Anna Karenina, in cui oscilla il tema de il sonno della vita, ossia la tensione tra il sonno e l'essere sveglio, sono donne eversive. Nella struttura patriarcale la donna è relegata alla condizione di sonno, mentre in queste opere le donne esistono, scardinando i processi patriarcali, li sfidano compiendo atti estremi, agendo con un'azione free will, rivendicando la libertà di coscienza; sono loro per una volta "eroi", non "eroine", che, come sottolinea l'autrice, ha un suffisso diminutivo, bensì diventano loro stesse moral agency, soggetti morali.  

Fusini descrive in maniera approfondita anche i diversi tipi di donna che, come differenti colori della stessa  sfumatura di una scala di Itten, dipingono le personificazioni dei modelli famigliari e sociali; le situazione gravi o meno di malessere vengono quindi accettate, o sfruttate, o tollerate o, come nel caso delle protagoniste di questo saggio, combattute.

Diversi istituti sociali sono approfonditi, in primis il matrimonio e l'adulterio, gabbie in cui la donna, Anna Karenina nel particolare, è strozzata, ma è grazie alla sua azione che ribalta gli schemi tradizionali in cui le decisioni vengono sempre prese dagli uomini.

La scrittrice offre, come testimoni chiamati alla sbarra a deporre, parallelismi incontrovertibili: la cruciale corsa di Vronskij con la cavalla Frou-Frou, Levin, personaggio binario e prosaico con la scena della falciatura, e il tema degli allogeni.

«L'eroe-uomo, il personaggio-uomo appartiene a un sistema associativo privilegiato, eroico: E' il cavaliere, il guerriero, il cacciatore. Il personaggio-donna appartiene a una catena associativa subalterna: è cavalla, il contadino; e come vedremo l'allogeno». (p. 49)

Anna Karenina è precorritrice di un nuovo modello di donna che insieme alle altre è vittima ma non martire, tutte spie di un'offensiva che è molto più forte, impattante e sovversiva, di un grido virile maschile in battaglia, figure di una rivolta e di una ribellione etico politica. Fusini, con brillante acume e stimabile conoscenza, ricorda che:

«Anna non rivendica l'eguaglianza giuridica o l'eguaglianza per assimilazione, non vuole essere come l'uomo, ma vuole esistere come donna in un mondo di uomini. Eguale in un mondo diseguale. Diseguale in un mondo di non eguali». (p. 101)

Caterina Incerti




Una novella generazionale in cui si parte per capire a chi mancheremo: "Addio arrivederci ciao" di Francesco Spiedo



Addio arrivederci ciao
di Francesco Spiedo
Zona42, 2024

pp. 104
€ 10,90 (cartaceo)
€ 5,49 (ebook)


S. vivacchia in una cittadina ai margini e dà una festa per avvisare tutti: si trasferisce. Ma la mossa non sconvolge nessuno; a parte qualche scialbo invito a ripensarci e un paio di malcontenti formali, la sua partenza sembra essere stata già messa in conto. In fondo, che ci resta a fare in quel posto?
Dopo aver comunicato agli amici la sua decisione, S. si è trasformato, negli occhi di chi lo sta guardando, in un condannato a morte. (p. 7)

Per tutti S. è già partito e sembra di assistere a una veglia funebre. Gli altri si affacciano sulla sua bara aperta e pongono domande sterili, anche se ormai sono sul punto di varcare la porta per l’ultima volta e sarebbe l’ora dei saluti finali, di un addio consapevole, di domande offensive, magari persino rivoltanti, delle parole giuste e senza scrupoli. Invece niente. (p. 15)
Chi sbuffa contrariata quella sera è però G., ragazza che conosce S. da anni, e quelle ultime ore assieme producono un blando, incartato tentativo di discussione. Ma indietro non si torna: la scelta è fatta, domani si parte. 

Quindi addio.

Eppure il ragazzo non conosce ciò che gli aspetta. La prima certezza è che il volo è stato annullato dalla compagnia aerea. Bisogna quindi ripiegare su treni inaffidabili. Arrivano in fila i problemi con la serratura, gli intermezzi con un'arzilla vicina con pappagallo in dotazione, i pensieri su G.; lui la chiama, lei non risponde. Resta solo la città, da attraversare a piedi per l'ultima volta, fino alla stazione, in una cavalcata di straordinaria follia
Una volta glielo aveva spiegato, aveva a che fare con il centrarsi, lo stare bene con se stessi, o forse era qualcosa legato al senso del dovere e la noia. Perché nella sua vita gli obiettivi non erano mai fuori di sé, ma dentro, qualcosa che stava all’altezza dello stomaco. Ecco come si sente, gli pare di star correndo non verso la stazione, ma verso se stesso. (p. 77)
Chiamando in causa Nanni Moretti, autore caro a Francesco Spiedo (e il titolo Addio arrivederci ciao ne è prova), potremmo riadattare il celebre tormentone (negli anni diventato meme) di Ecce Bombo (1978) in un moderno Che dici, parto? Mi si nota di più se parto e mi faccio mancare o se non parto per niente? Ne sarà probabilmente d'accordo S., ragazzo scocciato che, come capita a molti, un giorno capisce che deve cambiare aria. I motivi sono tanti ma nelle intenzioni di S. si nasconde la necessità di una risposta: se parto, a chi manco? Ecco, il senso di una partenza sta nel farci capire chi di noi sentirà l'assenza e chi ci dimenticherà. 

Quindi che succede quando nessuno, appresa la notizia, ne è devastato - quando scopriamo che di noi, a chi ci circonda da anni, in fondo importa poco?
Sto dimenticando, pensa, e dimenticare è una forma di difesa. (p. 23)

Perché è la partenza che spiegherà ogni cosa, partire e poi guardarsi indietro, e allora iniziare a capire tutto, o se non tutto almeno qualcosa. Lei, lui, gli altri capiranno. (p. 54)
Addio arrivederci ciao, pubblicato da Zona42, è una novella fluidissima e rocambolesca. Ma soprattutto generazionale. Spiedo comunica la deriva disincantata di ragazze e ragazzi stufi di barcamenarsi tra ambizioni, destini da centrare, compromessi e attese. Quindi trasforma una mini-odissea urbana in una riflessione tanto amara e poco dolce. 
Emerge subito un personaggio dimesso, quasi rassegnato, di certo deluso e meno pirotecnico dell'Andrea di Stiamo abbastanza bene (Fandango, 2020), giovane emigrato alle prime armi al Nord, e già più vicino ai tre personaggi di Non muoiono mai (Fandango, 2022), che concedevano ampio spazio a sentimenti come l'acredine, il rancore, la tristezza, offuscando la sagacia, l'astuzia e una equilibrata malinconia che caratterizzavano Andrea, di cui S. potrebbe rappresentare una versione cresciuta di qualche anno. 

Spiedo non rinuncia comunque alla sua poetica, cinica solo nella facciata e parecchio divertente e per certi tratti romantica, e combatte la frustrazione con ironia e paradossi, lasciando che il protagonista s'imbatta in una città stralunata, di dylandoghesca fattezza, in cui tutto e tutti sembrano perdere la ragione e le regole civili entrano in stand-by, tra parate surreali e animali in libera circolazione, incontri ravvicinati di improbabile tipo. 

Più maturo e sfiduciato ma non meno brillante, l'autore riflette e riflette, centrando bene una verità che sembra riguardare il mondo degli adulti: più cresciamo, meno sono le persone a cui ci interessa di importare. E a S. importa solo di G.; i due sono cresciuti accanto, si sono visti cambiare, hanno conosciuto attriti e incomprensioni, non hanno forse molto altro da darsi eppure, per dirla alla Calcutta, che mi manchi a fare?, sembra tormentarsi S., nelle ore che, precedendone l'addio, suggeriscono che questa persona, al contrario suo, non ne sentirà la mancanza. Mentre si va, e S. lo sa, bisogna aggrapparsi all'idea che ogni addio conservi in sé la speranza che non sia tale e che non ci si dimenticherà, o quantomeno alla sua illusione.

Daniele Scalese

La pazzia come alternativa all’illogicità della violenza e dell’ingiustizia: “Il matto di piazza della Libertà”, esordio dell’iracheno Hassan Blasim


Il matto di piazza della Libertà
di Hassan Blasim
Utopia editore, 29 novembre 2024

Traduzione  dall’arabo di Barbara Teresi

pp. 136
€18,00 (cartaceo)
€ 9,99 (eBook)

Molto spesso mi capita di pensare che passerò il resto della mia vita a scrivere di storie e di eventi surreali che ho vissuto lungo i sentieri dell’emigrazione clandestina. È il mio cancro, e non so come curarlo. (p. 47)

Nella raccolta di racconti di esordio, Il matto di piazza della Libertà, lo scrittore iracheno Hassan Blasim mostra a uno straniato lettore occidentale la realtà irachena degli anni dell’embargo, considerato uno dei periodi più bui della storia irachena, ma, soprattutto, il racconto della sua esperienza di immigrato clandestino in Europa - precisamente in Finlandia, dove vive tuttora -,  raggiunta dopo tre anni e mezzo di viaggio fatto quasi a piedi, con qualche passaggio su camion a opera di loschi trafficanti di esseri umani. Il lettore occidentale curioso di avvicinarsi a questa scrittura e a questo autore troverà una penna potente, ironica, amara a volte, profondamente umana, visionaria, allucinata, già matura in certi passaggi. 

Ho letto in traduzione diversi autori di lingua araba, ma nessuno, di quelli che ho affrontato, l’ha mai usata come fa Blasim. L’arabo è una lingua elegante, dai parlanti è considerata sacra, vero e proprio dono di Allah e gli scrittori arabi secondo me possiedono una innata tendenza alla raffinatezza, alla grazia, che va dai segni grafici della loro affascinante scrittura alle opere letterarie. Blasim usa l’arabo per parlare nei suoi racconti di miseria impensabile, di violenza efferata, di sangue, di sperma, di ammassi di carne a brandelli, di luoghi puzzolenti, di incubi, di cannibalismo, di donne picchiate dai mariti, di mostre di cadaveri maleodoranti. Le immagini sono forti, a volte disturbanti, poste in bilico tra la realtà vissuta e l’incubo più temuto.

Per Hassan Blasim quelle storie che gli bruciano sotto la pelle, per collegarmi la citazione che ho messo in apertura (tratta dal racconto La valigia di Alì), non sono solo un fuoco che lo tormenta come una malattia, ma costituiscono anche l’acqua che lo spegne, la sua meravigliosa terapia. Basta ascoltare o leggere un’intervista in cui Blasim racconta della sua vita segnata dal vagabondaggio, dalla dissidenza alla dittatura di Saddam Hussein, dall’amore per la filmografia e il cinema, per accorgersi che nei suoi libri l’esperienza biografica ricorre quasi sempre, trasfigurata a volte, finanche sublimata, ma assolutamente vivida, ammonitrice. Ed eccoci allora ad ascoltare il resoconto della rocambolesca fuga di un rifugiato iracheno trascritto in un ufficio immigrazione svedese nel racconto L’archivio e la realtà: l’uomo si definisce un musulmano devoto, ma riferisce di essere stato rapito diverse volte da gruppi armati che lo hanno risparmiato e gli hanno dato in mano un biglietto da leggere davanti alle telecamere in cui si autoaccusava di aver ucciso, stuprato, commesso crimini ai danni di diversi gruppi religiosi, anche islamici. La scena è sempre la stessa: trafficanti mafiosi lo vendono a gruppi di uomini diversi, nelle scene sono presenti teste umane mozzate sistemate in una busta e ogni volta l’uomo dichiara di essere ora un ufficiale dell’esercito iracheno, ora di essere un militante di al-Mahdi, ora un terrorista sunnita. Nella storia non c’è differenza tra vittima e carnefice, come la conclusione del racconto afferma a suggello:

«Il mondo non è altro che una storia sanguinosa, tutta da ricostruire, e ognuno di noi è assassino ed eroe. E queste sei teste mozzate non possono essere la prova di ciò che dici, così come non possono provare che la notte non scenderà sulla terra». (p. 17)

Storie di brutalità con cui vengono trattati i clandestini, migranti per mare o per terra, storie di criminali che si arricchiscono con la pelle degli sfortunati in cerca di un luogo migliore, che truffano i malcapitati il più delle volte abbandonandoli al confine dove i soldati li colpiscono con bastoni, pale e li sbattono in prigione. Ognuna di questa storie è una «macchia di merda su una camicia da notte» (p. 18). In realtà i media, soprattutto quelli occidentali, ignorano e fanno finta di ignorare quanto accade a chi valica i confini  di uno stato per scappare dall’inferno e quindi

non trasmettono mai, per esempio, certe notizie da umorismo nero, e a voi non arrivano mai le notizie su ciò che gli eserciti della democratica Europa fanno quando di notte, in una sterminata foresta, catturano un gruppo di esseri umani terrorizzati e fradici di pioggia, affamati e al freddo. Ho visto con i miei occhi i soldati bulgari colpire un giovane pachistano con una pala fino a fargli perdere conoscenza. Poi ci hanno chiesto, in quel freddo da gelare le ossa, di scendere in un fiume semicongelato. Tutto questo è successo prima che ci consegnassero all’esercito turco. (pp. 19-20)

Nel racconto La vergine e il soldato si narra di una vicenda misteriosa e demoniaca di un giovane soldato che si trasforma in lupo in seguito a un atto di cannibalismo; ancora, ne Lo scarabeo stercorario, chiaro omaggio a Kafka da parte dell’autore iracheno, la voce narrante è quella di un uomo «sull’orlo della follia» (p. 109) che sogna di essere la larva di quell’insetto avvolta dallo sterco, e che racconta ai medici di  sentirsi assalito ogni mattina da un imperante bisogno di fede e d’amore verso le persone e finanche verso le cose, di sentirsi sopraffatto dalla necessità viscerale di credere in qualcosa di immensamente buono e misericordioso. Vuole dai medici non le solite medicine palliative, ma delle «risposte convincenti» alle sue domande

Io non so scrivere storie, però sono pronto a entrare nella questione della letteratura, ma a un unico scopo: tutelare la dignità di chi si trova sull’orlo della follia. (p. 109)

La particolarità della penna di Hassan Blasim in questa raccolta di racconti è la sua capacità di coniugare storie autentiche di emarginazione, clandestinità, con il gusto per il macabro, il mistero, la claustrofobia dell’incubo notturno, l’allucinata follia, quasi come unica alternativa ad una società fatta di violenza illogica e di ingiustizia. Il risultato è un racconto che coinvolge il lettore, lo risucchia nelle vicende, nonostante le asperità delle storie raccontate, ora grazie a quel velo di scanzonata ironia del paradosso che talvolta sottende i racconti, ora per l’ipnotismo delle immagini generate dalla penna di Blasim, che dettaglio non minore, è stato film-maker e documentarista. Per chi si avvicina allo scrittore per la prima volta, consiglio di leggere prima Il matto di piazza della Libertà e successivamente Il Cristo iracheno, raccolta di racconti più matura, ma anche più complessa soprattutto per i più frequenti rimandi alla storia dell’Iraq degli ultimi decenni.

Marianna Inserra 


Mimmo Maltempo e la fuga dalla provincia del Sud: il ritorno di Alfred al mondo del fumetto




Maltempo
di Alfred
Bao Publishing, settembre 2024

Traduzione di Michele Foschini

€ 21,85 (cartaceo)
€ 13,51 (ebook)


Da persona del Sud, rimango generalmente scettico e diffidente rispetto alle rappresentazioni del Meridione fatte da autori stranieri. La tendenza in generale è sempre quella a esorcizzare l’immaginario del Sud, rendendolo o locus amoenus della vita lenta o territorio di abbandono e arretratezza socioculturale. Pare che non ci sia una via di mezzo tra le atmosfere sognanti di Nuovo Cinema Paradiso e gli scenari semi-abbandonati della provincia che vengono mostrati in Gomorra. Poi ci sono quelle rappresentazioni del Sud che vogliono essere una via di mezzo, tra le atmosfere eterne del mare e dei fichi d’India e la desolazione provinciale. Maltempo è uno di questi esempi.

Alfred, il suo autore, è riconosciuto come uno dei più celebri e apprezzati fumettisti e illustratori della bande dessinée francese. La sua opera più nota, Come prima, gli è valsa nel 2014 il Fauve d’Or al Festival di Angoulême, uno dei più prestigiosi riconoscimenti nel mondo del fumetto. Il suo stile si distingue per la capacità di evocare atmosfere intime e quotidiane, spesso ambientate in contesti rurali o provinciali.

Maltempo narra la storia di Mimmo Maltempo, un giovane sognatore con un sogno nel cassetto che vive in un paesino del Sud Italia. Il suo sogno è sfuggire a un destino già scritto attraverso la musica rock'n'roll. Quando infatti scopre che le selezioni locali di un talent show musicale televisivo, sulla falsariga di X Factor, si terranno nella piazza del suo paese, decide di riunire i suoi amici per rimettere insieme la loro band, ancora senza nome dopo anni di inattività. Tra questi c’è Cesare, cacciato di casa dal padre, occhi azzurro ghiaccio e un’indole anarchica e insurrezionalista, che dorme all’aria aperta non avendo un posto dove stare. Poi c’è Gennaro, detto Mortadella perché suo padre possiede un negozio di alimentari, mingherlino eppure tenace. E poi c’è Guido, il più scapestrato di tutti, che fa piccoli lavoretti per i malavitosi locali, con l’indole del leader, che cerca di fare del suo meglio per tenere nascosta la malattia della madre, di cui si occupa segretamente in ospedale. C’è Alba, che scopa di nascosto con Cesare e che è segretamente innamorata di Mimmo. Poi c’è il Matto, un vecchio che gira per il paese seminudo, urlando inni e litanie indecifrabili, nei quali Mimmo si ostina a cercare un senso più profondo.

Affrontando le difficoltà delle vite personali, i timori, le incertezze e i sogni di ciascuno,  tra piante succulente, scenari desertici, spiagge solitarie e ruderi di campagna dismessi, le prove per il programma televisivo diventano per alcuni dei protagonisti una vera ragione di vita, un dilemma esistenziale. La malavita, i crimini di cui nessuno si rende conto, la difficoltà delle piccole esistenze di provincia di cui nessuno si preoccupa, insieme alla speranza di riuscire a scappare da un paese che molto spesso può diventare una trappola, una tomba per chi cerca di sfuggire all’anonimato e sogna di essere qualcuno, sono gli elementi che rendono Maltempo un interessante romanzo di formazione.

Anche qui Alfred, autore francese profondamente innamorato dell'Italia, ambienta Maltempo nel Sud per rievocare un’atmosfera estiva palpabile, struggente, con colori caldi e malinconici, luci solari soffuse o canicole accecanti, fichi d'india ai bordi delle strade e sentieri di breccia che si perdono in mezzo alla macchia mediterranea, selvaggi giri in Vespa, panorami mozzafiato a tutta tavola, specchi d'acqua azzurra e case arroccate su impervie salite. Questa ambientazione è un espediente per Alfred di esplorare il doppio volto del Sud Italia: da un lato bellissimo e selvaggio, dall'altro segnato da pregiudizi, difficoltà economiche e sociali.

Attraverso i suoi disegni, la silenziosa serenità e la monotonia di piccole comunità dove il tempo sembra essersi fermato, dove le giornate che scorrono lente sotto un sole immutabile rendono il Sud un non-luogo che può essere ovunque e da nessuna parte. L’attenzione ai dettagli e alla rappresentazione di ambienti familiari con le loro dinamiche di precarietà e conflitto suggerisce prossimità e realismo, mettendo a nudo l’umano negli spazi periferici, reificando il realismo atmosferico tra la solitudine dei personaggi e la vastità degli spazi naturali disabitati. Il disegno di Alfred è caratterizzato da un tratto pulito e delicato, capace di cogliere le sfumature emotive dei personaggi e delle situazioni. Alfred utilizza una palette cromatica sobria ma efficace, che contribuisce a creare l'atmosfera desiderata in ogni tavola. La sua abilità nel combinare testi e immagini permette al lettore di immergersi completamente nelle storie, vivendo le esperienze dei protagonisti in modo diretto e coinvolgente.

Matteo Cardillo 

Una donna, mille identità: “Il mio nome è Anastasia Romanov. Il caso di Anna Anderson” di Elisabetta Lubrani

 

Il mio nome è Anastasia Romanov. Il caso di Anna Anderson
di Elisabetta Lubrani
CDM edizioni, 2024

pp. 310
€ 18 (cartaceo)

Vedi il libro su Amazon

«Il mio nome è Anastasia Romanov. Sono la figlia più giovane dello zar Nicola II». (p. 35)

Nel Novecento non sono certo mancati eventi e fatti storici che hanno lasciato dubbi e incognite, tanto che, ancora oggi e nonostante le fonti a loro disposizione, gli studiosi (e non solo) si chiedono dove sia il confine tra la realtà storica (quella documentabile) e la leggenda, alimentata spesso da voci, pettegolezzi e falsi miti. D’altronde, è proprio per quest’ultimo aspetto che alcuni personaggi o casate reali restano nell’immaginario collettivo, assumendo di secolo in secolo una connotazione umana sempre diversa. È il caso, fra tutti, dell’omicidio della famiglia Romanov, avvenuto nella regione di Ekaterinburg il 17 luglio del 1918, conseguenza della nota Rivoluzione Russa. Se in un primo momento, sembrò che la rivoluzione avesse trovato il suo epilogo nello sterminio della famiglia; ben presto, si comprese che la questione era tutt’altro che chiusa. Poco dopo, infatti, una donna, ricoverata all’ospedale psichiatrico di Dalldorf (Germania), dopo aver tentato di togliersi la vita, inizia a dichiararsi come l’ultima figlia dello zar Nicola II: Anastasia Romanov.

È da qui che parte l’accurata indagine storica e umana di Elisabetta Lubrani, Il mio nome è Anastasia Romanov. Il caso Anna Anderson. Sì, perché quella donna, all’apparenza così distante da quei momenti, sembra non avere dubbi: è l’ultima discendente dell’impero zarista. Subito dopo il ricovero, superato un primo momento di titubanza, Fräulein Unbekannt («signorina sconosciuta», p. 27) racconta al personale medico di essersi salvata dai rivoluzionari e di essere fuggita dalla Russia, grazie all’aiuto di alcuni amici della famiglia reale. Se inizialmente i medici e le infermiere l’ascoltano con estrema pazienza, spiegando quelle affermazioni con un delirio mentale, dall’altra la sua insistenza porta ben presto a chiedersi se nei suoi racconti ci fosse «un fondamento di verità» (p. 34). È sufficiente il dubbio perché, nel giro di qualche mese, la notizia faccia il giro di tutte le famiglie nobili europee, ed è così che al suo capezzale si riversano molti esuli russi che avevano trovato rifugio dall’aristocrazia europea, tra cui molti sostenitori dei Romanov. D’altronde, l’occasione non è da poco perché, se davvero quella donna fosse la figlia più giovane dello zar, potrebbe reclamare il trono, diventando la chiave per restaurare la monarchia in Russia.

[...] nei circoli culturali la questione era dibattuta da tutti, nei locali notturni si improvvisavano ritornelli e canzonette su Anastasia. Tutte le pubblicazioni di Berlino parlavano di Anastasia [...]. A Stoccarda, a Düsseldorf, a Brema, ovunque ci si chiedeva: Anastasia è ancora viva? (p. 161)

Il chiarimento, però, non è semplice: come dimostrare con prove certe e inconfutabili che Fräulein Unbekannt è la Granduchessa Anastasia? Inizia qui un via vai di storici, grafologi, psichiatri, avvocati e di testimoni (non sempre in buona fede) che si protrae anche dopo la morte della donna, senza mai (fino agli anni Novanta almeno) chiarire però in modo inequivocabile la sua identità. Sì, perché in questo giro di visite, perizie e testimonianze, non saltò mai fuori quella decisiva in un verso o nell’altro, e così «ogni volta che si faceva avanti qualcuno pronto a confermare l’identità, ne arrivava un altro pronto a smentirla» (p. 180). Di fatto, Fräulein Unbekannt (che poi cambierà nome in moltissime occasioni, assumendo per ultimo, quello di Anna Anderson) rimane incastrata in un circolo vizioso, dal quale non riuscirà mai più a uscire, rimanendo però sempre convinta di essere la figlia dei coniugi Romanov («Io sono la granduchessa e pretendo tutto quello che mi spetta di diritto: titolo ed eredità», p. 203).

Quello che però mi ha sorpreso di più nel corso della lettura è che se, nei primi anni, l’attenzione era rivolta a chiarire la questione, negli anni della maturità di Fräulein Unbekannt, quando lascerà il manicomio di Berlino per essere ospitata a turno da varie famiglie aristocratiche, è diventata simbolo di una lotta che aveva ben poco a che vedere con l’identità vera o presunta della donna. Lo si nota ancor di più negli ultimi anni, quando una volta trasferitasi negli Stati Uniti, Fräulein Unbekannt è vista e spiata come un «raro animale esotico» (p. 215), simbolo di qualcosa che forse non fa nemmeno più parte della Storia stessa ma che ha travalicato i confini della Rivoluzione, assumendo ben altri connotati, in primis umani.

La sopportavano solo per quello che pensavano rappresentasse. «Per loro non ero una donna, ero uno spettacolo» confidò amaramente a una sua conoscente. (p. 216)

Elisabetta Lubrani dona nuovamente una voce a Fräulein Unbekannt, intrecciando la documentazione storica con la parte più umana (e quella più fragile) di questa donna, che, forse, si è ritrovata in una situazione ben più grande di sé, senza però mai arrendersi anche davanti alle prove più evidenti. Al dì là dell’interrogativo identitario, Il mio nome è Anastasia Romanov è un libro che si muove tra le pagine della Storia, mostrandoci quanto Il caso Anna Anderson sia diventato, almeno per alcuni, una questione di principio e quanto abbia coinvolto numerose persone nel corso degli anni. E non solo nobili o politici in cerca di un riscatto sociale, ma anche, ad esempio, i tabloid, che individuarono nella sua storia uno “scoop facile”. Tra narrativa e saggistica, è certo che l’autrice ha tirato i fili di una questione che per decenni è stata una matassa difficile da sbrogliare, dando l’opportunità di approfondire un mistero che non smette di incuriosire ancora oggi. 

Giada Marzocchi


Una mattanza inosservata: «La generazione ansiosa» di Jonathan Haidt



La generazione ansiosa
di Jonathan Haidt
traduzione di Lucilla Rodinò, Rosa Prencipe
Rizzoli, settembre 2024 

pp. 456
€ 22,00 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook) 

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La tesi centrale di questo libro è che queste due tendenze – iperprotezione nel mondo reale e scarsa protezione nel mondo virtuale – sono le principali ragioni per cui i bambini nati dopo il 1995 sono diventati una generazione ansiosa. (p. 18)

Jonathan Haidt è uno psicologo statunitense. Laureato in filosofia e psicologia, è professore associato di psicologia presso la Virginia University. Tratta principalmente di psicologia morale, una branca che si occupa dello studio della morale e del suo sviluppo, del ragionamento etico, dei valori morali e degli atteggiamenti emotivi dell’individuo e dei gruppi sociali. Nelle pagine conclusive di questo testo, Haidt ammette che «alla fine del 2021, [ha] iniziato a scrivere un libro su come i social media stavano danneggiando la democrazia americana. Il piano era iniziare con un capitolo sull’impatto dei social media sulla Gen Z, mostrando come abbiano disgregato la loro vita sociale e provocato un’ondata di disturbi mentali» (p. 345). Il resto del libro avrebbe dovuto occuparsi della rimanente parte della società, quindi i giovani, gli adulti, gli anziani. Indagando sugli adolescenti, però, si è accorto che il danno era più esteso di quanto apparisse a una lettura superficiale. Da qui, l’idea di un testo che si occupasse interamente del rapporto malsano fra social media e adolescenti.

Il libro è strutturato in quattro parti, tutte volte a dimostrare la tesi che viene esposta nelle primissime pagine e che è riportata nella citazione all’inizio di questo articolo. Haidt anticipa sin da subito anche il proprio piano d’azione, specificando i temi che verranno affrontati nelle quattro parti: nella prima si espongono «i fatti relativi al declino della salute mentale e del benessere dei teenager nel XXI secolo» (p. 20); nella seconda affronta quella che lui definisce “infanzia basata sul gioco”, ossia la normale infanzia che la maggior parte dei bambini ha vissuto prima dell’avvento degli smartphone, descrivendone nel dettaglio le caratteristiche e i vantaggi per lo sviluppo dell’individuo; nella terza, si presentano «le ricerche che dimostrano come un’infanzia basata sul telefono alteri lo sviluppo del bambino in diversi modi» (p. 21); nella quarta, infine, quella che potremmo definire la pars construens del libro, Haidt – supportato dai propri collaboratori e da altri psicologi – illustra le possibili soluzioni a questo disastro annunciato.

Questo modo di procedere è tipico degli articoli e in generale della saggistica, soprattutto di stampo americano: nell’abstract e nell’incipit vengono riportate tutte le informazioni essenziali che si andranno a sviluppare, di modo che il lettore possa avere già chiari la tesi generale e il metodo che si seguirà; l’articolo vero e proprio – in questo caso il libro vero e proprio – approfondisce ogni singolo aspetto della tematica in oggetto, portando centinaia di altre pubblicazioni (articoli e libri) a supporto della propria tesi. È una metodologia che consente di restare sempre sui binari precisi e sicuri del percorso tracciato, il cui principale vantaggio e l’evitare che il lettore si possa perdere nella mole di informazioni e dati che vengono forniti lungo il percorso. D’altro canto, ha anche il difetto, se così vogliamo dire, di essere altamente ridondante: per dimostrare che la propria tesi, spesso – come in questo caso – innovativa e volta a distruggere un determinato status quo, è ferrea, ancorata sulla realtà e non fondata su principi aprioristici, il nucleo centrale delle argomentazioni viene sviscerato in ogni dettaglio e a volte ripreso in diversi punti. Che l’infanzia basata sul telefono nuoccia ai bambini viene ripetuto decine di volte, come a far entrare a forza questa informazione nella mente del lettore. È un piccolo prezzo da pagare, potremmo dire, per poter approfondire un tema in effetti enorme e complicato.

Haidt affronta gli argomenti in modo spietato. Non risparmia nulla, ad esempio, al modo in cui le aziende dietro ai principali social network lavorino per accaparrarsi le risorse più importanti che vi siano oggi in circolazione, ossia l’attenzione dei fruitori dei social network stessi e i loro dati sensibili. Più volte fa presente come clienti finali dei social network non siano i loro fruitori, che sono piuttosto considerabili come dei beni in vendita; i clienti finali sono invece le aziende che mantengono in piedi le piattaforme di Meta, TikTok ecc. tramite le pubblicità. All’interno di questo processo di attrazione dell’attenzione ed estrazione dei dati, afferma Haidt – e difficilmente si può essere in disaccordo con lui –, gli adolescenti i giovani sono come spugne che assorbono tutto e si fanno irretire da una concezione del mondo deviata e pericolosa. Il confronto costante con un mondo incorporeo, privo di legami stabili, che pubblicizza standard estetici irraggiungibili e modelli etici spesso negativi, è proprio ciò che ha condotto all'aumento esponenziale delle malattie mentali fra i teenager americani e non solo.

I dati che Haidt porta a supporto sono quasi tutti riferiti agli USA e all’anglosfera (Canada e Gran Bretagna), poiché è qui che la maggior parte delle ricerche e degli esperimenti è stata condotta. Laddove possibile, l’autore ha cercato di coinvolgere anche ricercatori di altre parti del mondo, con risultati non ottimali. È innegabile, tuttavia, che quanto avviene negli Stati Uniti sia un fenomeno globale, seppure con casistiche forse più lievi e dal tratto meno emergenziale. La tesi di Haidt è però allarmante, e un libro come La generazione ansiosa dovrebbe essere al centro del dibattito riguardante l’uso dei social media e del loro rapporto con lo sviluppo degli adolescenti. Non tutte le buone prassi esposte nell’ultimo capitolo possono essere facilmente portate avanti dalle aziende, dai governi, dalle scuole e soprattutto dai genitori. Iniziare però a lavorare affinché l’infanzia fondata sul gioco non venga sostituita da quella fondata sul telefono è un atto che risulta necessario.

La generazione ansiosa è un libro da leggere, soprattutto se si è un genitore.

David Valentini



Il romanzo di formazione autobiografico di André Aciman: dalla cacciata dall'Egitto a New York, passando per la capitale


Un'educazione sentimentale
di André Aciman
Guanda, ottobre 2024

Traduzione di Valeria Bastia

pp. 384
€ 19 (cartaceo)
€ 11,99 (e-book)

La famiglia Cohène (rigorosamente con l'accento, a proclamarne la fittizia discendenza francese) faceva ogni cosa a modo suo. Non vedevano il motivo di adeguarsi a ciò che veniva spacciato per la tendenza del momento. Era il mondo a doversi piegare ai loro standard - come aveva sempre fatto.

Quegli standard, tuttavia, non erano solo datati, erano estinti. Loro si rifiutavano di accettarlo e continuavano a prediligere la cortesia ma di rado la sincerità, il buon gusto ma non l'integrità morale, sempre pronti a giudicare le persone più per come reggevano coltello e forchetta che per quello che facevano o dicevano. Tutto decisamente d'altri tempi. (p. 13)

Torna in libreria, dopo il clamoroso successo di Chiamami col tuo nome, lo scrittore egiziano naturalizzato statunitense André Aciman, con una storia che riprende le tematiche già affrontate nel romanzo fortunato che aveva per protagonisti Elio e Oliver e che però aggiunge alla narrazione un bel ventaglio di esperienze autobiografiche. 

Si tratta di un vero e proprio romanzo di formazione, nel senso canonico del termine: André - lo stesso autore e narratore - ripercorre la sua infanzia da esule, cacciato insieme alla famiglia dall'Egitto e approdato a Roma, una città che non riconosce, che non sente come casa, che odia persino. I genitori, che si erano stabiliti ad Alessandria d'Egitto, sono ebrei sefarditi, molto ricchi, abituati all'agio, ma in quegli anni (siamo negli anni '60) il clima nel Paese diventa rovente a causa dell'ostilità del presidente Nasser verso gli ebrei. Dunque che altro fare, se non abbandonare tutto e partire?

Non saranno per niente facili i primi periodi: ci sono da ricalibrare esistenze intere, la sua, quella della madre sorda, quella del fratello piccolo, che pare cavarsela molto meglio di lui. A contorno, familiari farseschi, zii avari ma ricchissimi, scuole prestigiose, cene e pranzi a volte miseri, altre luculliani. 
In questi particolari mi ha molto ricordato narrazioni simili, di famiglie partite e mai tornate, come I miei giorni a Parigi di Banine e La casa sul Nilo di Denise Pardo: si intreccia la nostalgia per lo sfarzo perduto e la costrizione all'adattamento in un luogo che si sente ostile e con cui si fa difficoltà a familiarizzare.

In effetti, chiunque sposasse un membro della famiglia Cohène trovava nella morte la perfetta via d'uscita da un matrimonio in cui ciò che si spacciava per amore durava al massimo un paio di serate simboliche, non un secondo di più. (p. 19)

André, nonostante i propositi incoraggianti di mamma e fratello, tuttavia, è fatto di un'altra pasta:

Una cosa l'avevamo in comune: il rettile che viveva dentro di noi. Eravamo entrambi animali dal sangue freddo. Furono gli altri, come mia madre o mio fratello, a insegnarci cosa dicevano, facevano e sentivano le persone dal sangue caldo, altrimenti da soli non ci saremmo mai arrivati. Imparammo a imitarli. Non appartenevamo a questo pianeta, alla sua gente, al suo tempo, ai suoi ritmi brutali. Eravamo alieni tra i terrestri, ed era questo ad avvicinarmi tanto a Flora. (p. 56)

Ci sono poi le pulsioni del corpo adolescenziale (e qui l'autore si avvicina per tematiche e stile a Chiamami col tuo nome), lo struggente sentimento di mancanza per la sua città di nascita, Alessandria, ma anche i desideri nei confronti di New York (dove sogna di scappare), le fantasticherie su Parigi e il rapporto d'amore e odio con Roma: sì, perché se dapprima André non accetta la sua nuova vita nella capitale, piano piano la città saprà fargli cambiare idea, a partire da via Clelia (e, d'altra parte, chi è che odia Roma per sempre?).

Alcuni capitoli sembrano un'unica frase di più pagine, che si attorciglia e gira e svirgola in modi labirintici, con una punteggiatura quasi orgasmica - frasi che si ripetono in stretta successione, citazioni dirette di altri suoi libri, le stesse idee modellate e rimodellate -, il loro significato pressato e piegato in modo da costruire una sua poetica riconoscibile, e davvero la si riconosce: nella sua mielosità, nel suo spiccato romanticismo (a volte troppo mieloso e troppo romantico, per i miei gusti) si torna sempre al punto di partenza, e cioè a Call me by your name, come se l'autore stesso fosse vittima di quel romanzo fortunatissimo e qualsiasi cosa scriva successivamente ne debba essere per forza influenzata.

Aciman tenta continuamente di racchiudere il significato della vita in qualche frase magica che possa in qualche modo dire tutto, ma non riesce mai a riassumere l'inarticolata verità del vivere. Le pagine sono dense e anche ben scritte, ma questo dettaglio spegne un po' di poesia. 

Probabilmente più che una storia di crescita è una storia sull'attesa, sull'indecisione: André ragazzo, adolescente, che non sceglie quasi mai per sé ma attende, appunto, che siano gli altri a decidere. Se posso osare, un Elio più debole, sia come personaggio che come narratore.

Lo consiglio ovviamente a chi ama la poetica dell'autore, soprattutto se si viene dalla lettura di Ultima notte ad Alessandria. Se invece non amate le narrazioni sdolcinate o siete stanchi dell'autofiction sulla storia della sua famiglia, non fa per voi.

Deborah D'Addetta


Se il vostro Natale vi sembra difficile leggete cosa succede a Ernest Cunningham in "Tutti hanno dei segreti a Natale" di Benjamin Stevenson


Tutti hanno dei segreti a Natale



Tutti hanno dei segreti a Natale
di Benjamin Stevenson
Feltrinelli, Novembre 2024

Trad. di Elena Cantoni

pp. 220
€ 18 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

Vedi il libro su Amazon


Benjamin Stevenson, già noto per i suoi precedenti lavori come Tutti nella mia famiglia hanno ucciso qualcuno e Tutti su questo treno sono sospetti, ritorna con un nuovo capitolo della serie dedicata a Ernest Cunningham: Tutti hanno dei segreti a Natale. Pubblicato da Feltrinelli a fine 2024, questo romanzo si presenta come un giallo natalizio che mescola mistero e ironia.


La trama vede Ernest Cunningham, scrittore e detective per necessità, alle prese con un nuovo caso durante le festività natalizie. Chiamato a indagare sull’omicidio del committente del famoso mago Rylan Blaze, nonché compagno della sua ex moglie, Ernest si trova immerso in un ambiente popolato da illusionisti e maestri del depistaggio e si ritrova, mentre sta organizzando il matrimonio con la sua fidanzata, a dover correre in aiuto dell’ex moglie Erin. La struttura del romanzo è concepita come un calendario dell’Avvento, ogni capitolo offre un indizio che avvicina il lettore alla soluzione finale. 


Gli indizi sono come sempre posizionati sotto l’occhio del lettore, celati però abilmente, in maniera da passare inosservati e non mancano le lezioni sul genere, ripercorrendo i passi dei grandi giallisti della storia, perché, come precisa Stevenson, «il patto di onestà del detective letterario è con il lettore, non, malauguratamente, con gli altri personaggi della storia» (p. 20).


Nonostante l’originalità della struttura e l’ambientazione festiva, è abbastanza chiaro come il romanzo si collochi nella scia del libro-panettone, quindi ha tutta l'aria di un libro realizzato appositamente per le feste e forse per questa ragione si pone meno attenzione alla profondità e allo sviluppo dei personaggi. Di certo non inizierei da questo romanzo, se dovessi conoscere meglio Stevenson, che resta comunque sempre pungente, riesce a raccontarci i rapporti umani e le festività comandate con grande senso di ironia e molta onestà. 


La prima persona, scelta stilistica che accumuna tutti e tre i romanzi, aiuta il lettore a immedesimarsi meglio nelle disavventure di questo protagonista, Ernest Cunningham, scrittore che per puro caso si ritrova circondato da una serie di disavventure che lo toccano da vicino, in termini di congiunti e amici, e giocoforza deve diventare una sorta di investigatore.


Inoltre, la brevità del libro, il più corto della serie finora, potrebbe contribuire a una sensazione di incompletezza, lasciando alcuni aspetti della storia meno sviluppati rispetto alle aspettative dei lettori affezionati. 


Punto di forza sono di sicuro la grafica e la copertina, che ci presentano un libro che è un piccolo scrigno, concepito per essere un perfetto dono, con tanto di sovracopertina e bordi delle pagine di un meraviglioso rosso natalizio. Per chi ha apprezzato i primi due libri della serie, questo romanzo rappresenta comunque un’aggiunta interessante, seppur con aspettative moderate, ma di certo gustosissimo e molto azzeccato, per la sua ironia e leggerezza, per sopravvivere ai momenti più stressanti delle feste. 


Samantha Viva

«Nel dopo-Cery non avremmo bevuto più. Cery era idolo e feticcio»: il romanzo della clinica di Ottiero Ottieri

 



Cery
di Ottiero Ottieri
Utopia, 2024

pp. 160
€ 18,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

"La vita, la vita, non parlavamo che dell’esistenza e dell’essenza del vivere giorno per giorno, di ora in ora" (p. 25)

Cery è un’opera dell’ultimo Ottieri e colpisce fin da subito per la lingua che esibisce: in un fraseggio scabro, sincopato, l’autore sceglie di non scegliere, presenta nella stessa frase più opzioni lessicali, gioca con i suoni, ricerca l’inciso che ferisce. L’aggettivazione si slancia al di sopra di qualsiasi possibile medietà, ambisce al guizzo inaspettato. Abbondano anche le parole straniere. Si vuole dire fin da subito l’instabilità emotiva, e allo stesso tempo l’acume mentale del protagonista, Filippo Ciai, in viaggio verso una clinica di cui ignora quasi tutto, financo il nome (crede di andare a La Prairie, si trova a Cery). Il malessere che ve l’ha condotto è profondo, eppure incomprensibile. Lui è un etilista inquieto, vorrebbe una terapia miracolosa, è ossessionato da qualunque donna lo avvicini e associa all’attenzione femminile la possibilità di una guarigione.

Mi tendevo come un arco senza freccia, aspettando una tregua. Non si realizzava. Aumentava una sofferenza che nessuno può immaginare, che metteva in gioco tutta la mia vita, come in un duello. […] Agivo solo nell’agitazione, tutto il resto mi faceva perdere tempo, una consequenzialità era impossibile. Avevo fretta di guarire, fretta di vivere. Il mio corpo doveva taumaturgicamente placarsi, non con la pazienza. Questa assurdità mi faceva acerbamente soffrire, mi disperava mentre aspettavo la calma con tutti i mezzi che non producono calma. (pp. 14, 15)

Il narratore è tagliente e politicamente scorretto, a tratti francamente sgradevole, senza che nulla, e di nulla, gli importi. La sua è una voce del tutto diversa rispetto a quella incontrata in Donnarumma all’assalto. Il suo divagare è ipnotico, magmatico. Non se ne intuisce la direzione, ma è difficile non assecondarlo. È uno scrittore bulimiconon potevo non narrare, ma senza invenzione, senza ispirazione, senza felicità», p. 48). Disserta di dipendenza, d’amore, di politica. Su tutto pare avere un’opinione. C’è anche tanta filosofia, da Nietzsche a Heidegger, e tanta letteratura, da Byron a Pasolini, da Goethe a Parise, da Zanzotto a Gadda, soprattutto Gadda («a me Gadda mi avvolge, mi sconvolge, mi muta, non posso non imitarlo anche nel parlare», p. 37). Tutto diventa occasione per esperimenti linguistici, per divagazioni ondivaghe, che si attorcigliano intorno a un’angoscia indistinta e pervasiva.

Ahhh! Vuol stilettarmi. L’anima sbuzzarmi. […] L’angoscia plumbea si era coagulata, bussava nella parte interna del costato, dolorando a neoplasia anche all’esterno, schiacciando il costato come fra incudine e martello, aveva invaso solidamente il povero petto, dall’ombelico alla gola. Non resistevo, non tolleravo. (p. 41)

L’anormalità non è più elemento elettivo per l’artista, ma diventa gorgo che risucchia. Così il romanzo stesso, che sprofonda in un continuo ansiogeno dibattersi senza esitonelle cliniche proseguiva l’impresa eterna della mia esistenza, l’impresa tantalica, l’impresa frustrata. Vissi d’arte e vissi d’amore. Non vissi. L’ereditarietà della follia, forse narcisa, mi sovrastava», p. 54). Lo sguardo si allarga a tratti rispetto alla prospettiva egoriferita del narratore per coinvolgere altri ospiti della struttura, come Lotte o la signorina Mueller, destinatarie delle sue ossessioni erotico-sentimentali, e di lettere mai spedite. Il principio di piacere prevale sempre in lui sul principio di realtà e questo lo rende un paziente ingestibile, e un protagonista per cui è impossibile provare reale empatia.

La sfida di Ottieri è primariamente intellettuale, stilistica: descrivere a parole gli abissi della malattia mentale, della dipendenza, i gorghi e le vette, le continue oscillazioni umorali. Lo fa dando sfoggio di un linguaggio pirotecnico, mobile, impastato di citazioni e tasselli letterari. Il passato ritorna per frammenti sghembi, permette solo con fatica di ricostruire un quadro contestuale. Tutto si esaurisce a Cery, sempre in bilico tra luogo di guarigione e di prigionia.

Gli elementi biografici sono forti, ed emergono non solo dalla conoscenza evidente e profonda del disagio psichico, ma anche dai continui inserti metaletterari, dalla riflessione ritornante sul mestiere di scrivere, vissuto dal narratore come un ulteriore viluppoio scrittore senza fantasia, che ha sempre voluto scrivere senza fare lo scrittore, che non piaccio agli italianisti e sono un bad-sellerista, scrittore più che altro pratico e ‘infelice’, difficile che non ha mai ‘lavorato sul linguaggio’”, p. 126). L’autobiografismo diventa una nuova trappola, man mano che lo scrittore si scopre incapace di creare intrecci, di scrivere romanzi di successo, di accontentare la critica.

L’intreccio era sempre una nube nera in cui si annidava una tempesta. Ero nato per scrivere, avevo la vocazione, ma l’intreccio mi scuoteva, mi scassava, dalla testa al plesso, là dove i pensieri si trasfondono in scariche violente. La violenza era agitazione psicomotoria, contorsioni, mute grida, sofferenze senza scampo, travaglio da parto. Spesso il bimbo non nasceva. Ero sicuro invece che mi sbudellavo e scalciavo, battendo anche la testa contro il muro. (p. 47)

In un’opera decisamente complessa, da leggere e digerire, le pagine più riuscite sono quelle in cui si descrive il meccanismo della depressione, che viene assaltato da più lati e prospettive, nel tentativo di trovare una spiegazione o un senso univoci che si sanno impossibili. Coraggiosa si rivela la scelta di Utopia, che sta riscoprendo e riproponendo l’opera di un autore troppo spesso dimenticato e quasi certamente non allineato al tempo in cui scrisse. Al lettore è lasciata quindi la sfida di comprendere in che modo, piuttosto, possa parlare del nostro.

Carolina Pernigo