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Una trappola, un groviglio, una vitalità inestinguibile: "Rosy" di Alessandra Carati

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Rosy
di Alessandra Carati
Mondadori, 2024

pp. 164
€ 18,50 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

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Si apre con una lenta messa a fuoco l’opera di Alessandra Carati, e il riferimento al panopticon, che prevede di osservare inosservati, sembra fin da subito una definizione che si attaglia anche alla condizione del lettore. Non è subito evidente, per chi non abbia scorso la trama, quale sia l’oggetto della narrazione. La rivelazione dell’identità dei protagonisti, anzi, della protagonista, è posposta per quanto possibile: all’inizio si parla de “la coppia”, “i due”, poi di “lei” (o, al massimo, “lei e il marito”). Questa impersonalità, ben lungi dall’attenuare la barbarie degli eventi, la fa risaltare maggiormente: tutto viene descritto con precisione, creando un senso di inquietudine e di straniamento che possiede il lettore (ma si potrebbe dire anche lo spettatore) già dalle prime pagine. Carati sembra misurarsi – non si può non pensarlo sin dalle prime righe – con il Carrère de L’avversario e si muove nella storia con una iniziale prudenza narrativa.

Ci parla di una corte lombarda in cui non esiste privacy, la vita dei singoli è messa in piazza in ogni suo dettaglio; dell’esistenza routinaria di due coniugi, forse turbata dai litigi di una giovane famiglia al piano di sopra; di un feroce assassinio che coinvolge quattro persone, del tentativo di cancellarne le tracce col fuoco; di un sopravvissuto; dell’arrivo dei giornalisti, che entrano e invadono con i loro corpi e le loro domande. E di lei, che immediatamente si pone al centro dell’attenzione, e parla, racconta e si racconta, spesso si contraddice. Solo quando si inizia a trattare del processo che li coinvolge vengono svelate le identità degli imputati, e sempre in relazione a definizioni fornite da terzi, l’opinione pubblica o i giornali (“i mostri di Erba”, “Rosetta e Olly”, “Olindo e Rosa”, infine, solo nel momento della condanna all’ergastolo, i nomi completi, Rosa Bazzi e Olindo Romano). Questo dice la difficoltà dell’autrice a inquadrarli, a definirli, o la volontà precisa – davanti all’assalto rapace della stampa – di non farlo (non ancora). La sentenza, ripresa poi dalla Cassazione, pare d’altronde abbastanza esplicita, irrevocabile: dice di «un progetto atroce di annientamento […] vissuto come necessitato e giusto, per eliminare tutto ciò che agli occhi degli imputati poteva costituire una minaccia di quel loro equilibrio blindato e autosufficiente» (pp. 22-23). 

La prima sezione del volume, introdotta non a caso da un’epigrafe di Baudrillard, indaga tuttavia il rapporto ambiguo, a doppio senso, tra l’immagine e la realtà. Nel caso specifico, l’allusione al modo in cui la prima finisce per sovrapporsi e sostituirsi alla seconda porta il lettore a interrogarsi su quanto l’idea che si è fatto sulla strage di Erba dipenda dal trattamento mediatico riservato agli imputati, e lo predispone ad affrontare quel che seguirà, un’indagine letteraria condotta da Alessandra Carati sull’identità di Rosa.

La stessa protagonista fatica del resto a distinguere i due piani, li sovrappone continuamente, li manipola e li impasta. Questo pesa enormemente nella decifrazione dei fatti, tanto in presa diretta quanto a posteriori.

Nel momento dell’arresto, lei e Olindo vivono in uno stato simbiotico e nulla li preoccupa, se non l’idea della separazione. Allo stesso modo, qualunque elemento o persona si frapponga tra loro, o ostacoli il mantenimento di una quotidianità ripetitiva e rassicurante, viene percepito come ostile, nemico. Lo scollamento dalla realtà è tale da portarli, in prigione, a richiedere una “cella matrimoniale” per poter continuare a stare insieme. Anche presi singolarmente, Olindo e Rosa continuano a mettere a dura prova chiunque si interfacci con loro: lui è sfacciato, ossessivo nelle sue richieste; lei contraddittoria, confusa, bugiarda. Sulla natura di queste bugie si focalizza l’attenzione della psicologa e degli avvocati che si occupano del caso: «non è facile spiegare cos’è Rosa» (p. 51) perché il suo bisogno di attenzione e riconoscimento la porta a riscrivere il reale tramite narrazioni iperboliche, che ripetute a più riprese finiscono per plasmare i fatti, per spingere lei stessa a crederci:

Il suo bisogno di essere visibile non si è mai estinto. Se non si sente riconosciuta, lei crea un discorso che parte da fatti accaduti e li eleva a potenza, moltiplicandoli, ingigantendoli fino a distorcerli. E questo discorso diventa una realtà che soddisfa i suoi bisogni. Lei crede nella realtà che immagina. (p. 52)

Rispetto a E poi saremo salvi, principale ragione per cui ho scelto di leggere questa nuova opera di Carati, ho trovato nella maggior parte del volume una prosa molto più asciutta, chirurgica, cronachistica. Lo stile è paratattico, a volte scivola nell’accumulo delle frasi nominali. Tutto appare scandito, mira a una oggettività forse impossibile da trovare. Difficile fare altrimenti, in effetti, se si vuole intercettare una tematica così spinosa, una questione ancora aperta e che coagula intorno a sé l’emotività dell’opinione pubblica. In questa asciuttezza, le epigrafi che si inframezzano ai capitoli fungono da indizio e filo conduttore. Si soffermano sul ruolo del testimone quale garante dell’atto, sullo statuto a tratti ambiguo della verità. La riflessione, in tal senso, non coinvolge solo i fatti processuali, ma anche tutti i personaggi coinvolti nella vicenda, subito o a distanza di anni, testimoni non dell’evento, ma del circo mediatico che gli si è costruito attorno, così come l’autrice stessa, nel suo accesso a personaggi e documenti, e il lettore, testimone sempre per interposta persona, recettore di una narrazione necessariamente rimasticata

La grande sfida proposta a quest’ultimo dal volume è allora forse proprio questa: sospendere il giudizio, o il pregiudizio, in attesa di capire dove l’opera voglia arrivare. La riflessione di Carati, infatti, al di là del tema della colpevolezza o dell’innocenza degli inquisiti, indaga il funzionamento del sistema investigativo e di quello giudiziario, che prevede l’imputato innocente fino alla dimostrazione del contrario, ma che in alcuni casi rischia di essere condizionato dalla narrazione che viene confezionata fuori dall’aula, nelle piazze, fisiche o mediatiche che siano. Così gli avvocati possono ricevere minacce o subire atti vandalici, il libro e la docufiction sulla strage di Erba possono precedere la conclusione dell’iter processuale, e la sentenza in qualche modo è già scritta, almeno per l’opinione pubblica:

Dentro e fuori il tribunale, c’è un clima feroce […] come se la scelta di difendere i coniugi fosse di per sé immorale. Chiunque si avvicini a loro […] è persona depravata. […] Sono stati dipinti da giornali e televisioni come assassini, folli; un racconto pervasivo e capillare, che ha occluso ogni vaso dell’opinione pubblica. (pp. 66-67)

La narrazione è condotta al presente: ci riporta lì, in ogni momento, tra l’inchiesta e il processo, durante i colloqui in carcere, o nell’aula di tribunale. L’adozione di una focalizzazione variabile consente di mettere a fuoco il sentire anche dei comprimari: il prete che riceve la professione d’innocenza, la psicologa, gli avvocati (a questi sono dedicati alcuni passi davvero efficaci).

Nonostante la brevità e lo stile volutamente asciutto, tutto è faticoso in questo romanzo. Ciò sembra il frutto di una precisa strategia narrativa: ogni asserzione viene contraddetta, ogni dato acquisito rimesso in discussione. Tutto viene decostruito ma, volutamente, manca un momento di ricostruzione, così come – fino a ben oltre la metà del volume – una parte esplicitamente valutativa. L’obiettivo è seminare il dubbio, lo stesso che sembra cogliere diverse delle figure professionali che hanno avuto modo di conoscere Olindo e Rosa, minare l’idea di una verità ovvia e accessibile.

È solo nell’ultima - e molto ridotta - parte dell’opera che, improvvisamente, appare la scrittrice, si disvela la sua presenza e si risente la sua voce, si riconosce la sua penna. È lì che si inizia a intravedere una chiave di lettura possibile, quella che ci porta nella zona grigia, fumosa, tra il processo e l’“ordalia”.

Quando Carati entra in scena, ci entra tutta, e improvvisamente il campo si restringe su lei e Rosa, sugli incontri che per mesi, frastornanti, si susseguono tra le mura del carcere. Da un lato la donna, con la sua fragilità cognitiva ed emotiva, la sua intuitività viscerale rispetto alle reazioni dell’altro, che a tutti i costi vuole compiacere («Non capisce, ma sente. È tutta istinto. Come un bambino. […] O un gattino», p. 130), dall’altro la scrittrice, che si trova divisa tra il proprio sentire personale, contraddittorio («Stavo dall’altro lato della barricata e mi sentivo superiore, anzi, in salvo, perché scampata al suo destino, […] l’ignoranza, la povertà, la solitudine», p. 133) e la difficoltà di restituire lei attraverso la parola senza sovrastarla, sovrascriverla:

Mentre racconta, correggo e organizzo: operazioni istintive con cui tento di imprimere un ordine al discorso e un livello minimo di comprensibilità, ma che cancellano le sue tracce. Perciò i miei appunti sono un tradimento. Non restituiscono la veridicità della sua voce. Eppure c’è una parte di lei che resiste agli aggiustamenti – me ne accorgo rileggendo – che rivela buchi, sovrapposizioni di eventi, inesattezze. (p. 128)

Ci si rende conto, improvvisamente, che Rosy non è soltanto un’inchiesta true crime, ma un’opera sull’autrice stessa, sul processo della scrittura, sulla difficoltà a scendere al cuore di una materia riluttante, continuamente fuggevole: 

Rosa non è conforme. […] La sua figura è un disturbo che resiste sullo sfondo. Mi costringe […] al suo caos. Per starle dietro, sono obbligata a rinunciare alla chiarezza della logica, a consegnarmi a una realtà che si compone di scarti. (p. 146) 

Solo nell’ultima parte dell’opera la voce di Rosa si leva diretta, e con la sua quella di Alessandra Carati, che si espone con le sue incertezze, la sua parzialità, i moti del suo animo («devo lottare con un’antipatia, tenere a bada un fastidio», p. 134), i giudizi – ora sì – a volte nettissimi, mentre prende posizione («Rosa si offre allo sguardo e scambia la propria minorità con una strage, la sola dimensione tragica possibile alla sua vita», p. 148).

Sempre in bilico tra impotenza e compassione, Carati si fa implicare, vacilla nella sua condizione instabile, nello spazio indistinto dove si colloca chi non è cronista e non vuole essere davvero confidente. Lo stesso senso del volume viene sondato, negato («Il libro è impossibile. Per scriverlo, la dovrei tradire e mi manca il coraggio», p. 154), e, anche se il fatto di averlo in mano ci dice del superamento di questa resistenza, fino in fondo si percepisce, a tratti angosciata a tratti pacificata, la ricerca di significato che vi viene condotta.

Rosy è un libro che ho trovato difficile per tanti motivi (e non mi sento di concludere in modo diverso che in prima persona), che solleva più interrogativi di quanti ne risolva, molti dei quali – paradossalmente – risultano sganciati dalla vicenda affrontata, dal crimine e dalle sue sorti giudiziarie e penali. Si può certamente dire che non si tratti di un’opera voyeuristica, che non ci siano dentro letture semplicistiche di un tragico fatto di cronaca: ci si può vedere più la volontà di aprire questioni, che di chiuderle. Resta però, nel concludere la lettura, un’impressione di sospensione che disturba, la percezione di uno squilibrio tra le parti, che non toglie comunque nulla alla lucida capacità di scrittura di Alessandra Carati.

Carolina Pernigo