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"Crossroads", il grande romanzo fuori dal tempo di Jonathan Franzen

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Crossroads
di Jonathan Franzen
Einaudi, ottobre 2021

Traduzione di Silvia Pareschi

pp. 600
€ 22 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)


«Jonathan Franzen says no», recitava una celebre striscia di Tom Gauld a proposito dell’odio verso le nuove tecnologie e i social media da parte dello scrittore statunitense. E che coincise con l’occasione mancata di Purity, quello che avrebbe dovuto essere il Grande Romanzo Americano della contemporaneità e che invece deluse buona parte di pubblico e critica per la sua incapacità di osservare e comprendere il mondo in cui era e siamo immersi. Ecco, Crossroads, l’ultimo romanzo di Franzen appena pubblicato da Einaudi nella traduzione di Silvia Pareschi, non corre rischi di questo tipo e dimostra quale sia la dimensione ideale dello scrittore: la contemporaneità è lasciata fuori, la storia affonda le radici nel periodo turbolento tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta e Franzen torna a quelli che sono i perni della sua narrativa, ossia la riflessione sulla crisi del mondo borghese e le piccole, devastanti frustrazioni quotidiane. Lo fa con un romanzo che ha il sapore di un classico, dalla tecnica narrativa impeccabile, denso di spunti e tematiche importanti. 

Primo volume di una trilogia, Crossroads è esattamente ciò che ci si aspetta da Franzen e la frattura tra lui e il mondo contemporaneo si ricompone con un rifiuto: rifiuto del tempo attuale e delle sue complessità e contraddizioni, rifiuto di istanze e sperimentazioni tematiche o formali che attraversano buona parte della letteratura contemporanea da più parti, rifiuto di affrontare le grandi questioni da cui oggi nessuno quasi pare esimersi dal farlo. Perché l’interesse narrativo di Franzen, il suo centro, è il crollo del mito borghese, la crisi personale, le complessità del matrimonio e delle relazioni. Un interesse che fa di lui forse un autore fuori dal tempo, ma se si accetta questo, se ci si addentra nei romanzi di Franzen come lo faremmo in quelli di Yates per esempio, ecco che appare impossibile non restare affascinati dalla capacità dello scrittore di svelare le crepe sulla facciata, gli abissi di solitudine, le distanze. Credo sia questo il punto, chiederci che cosa vogliamo da Franzen, che cosa cerchiamo nei suoi romanzi o almeno è quello su cui ho a lungo pensato io stessa, una volta terminata la lettura di Crossroads con un misto di sentimenti e pensieri ambivalenti. Parlare di Crossroad, un romanzo monumentale che ha richiesto tutto il talento di una traduttrice esperta come Pareschi, significa a mio avviso rinunciare a collocarlo nel discorso letterario contemporaneo ma, eventualmente, connetterlo all’opera del suo autore o alla tradizione letteraria su cui si fonda. E accettarne di buon grado anche una tendenza alla prolissità, alle divagazioni, a qualche momento di debolezza – il sesso resta a mio parere narrativamente imbarazzante nell’opera di Franzen come di tantissimi altri – , perfino a sentirsene un po’ sopraffatti, per la miriade di spunti e tematiche importanti con cui ci chiama a confrontarci, senza sconti. 

Al centro dell’intreccio narrativo è quindi ancora una volta una famiglia, gli Hildebrandt, con il loro carico di segreti, incomprensioni, debolezze, inseriti nella piccola comunità cristiana di New Prospect, Illinois. La crisi del matrimonio fra il reverendo Russ – infatuato di una giovane vedova della sua congregazione – e la moglie Marion è la crepa da cui si dipanano tutte le altre: i conflitti con il figlio Clem che rifiuta il «violento pacifismo» del padre, l’egoismo di Perry e la sua dipendenza dalla droga, la distanza di Becky la figlia bella e popolare. Solo Judson, ancora un bambino, sembra restare fuori dal dramma di famiglia, conservando un’innocenza che agli altri non è concessa, non più, forse mai davvero posseduta. 

Credo che come lettori siamo chiamati a scegliere un punto di osservazione per orientarci in questa storia, che altrimenti rischia di fagocitarci nella densità degli spunti entro cui Franzen si addentra e scava; da parte mia, è la distanza il fil rouge che attraversa Crossroads, una distanza talvolta fisica ma per lo più emotiva, mancanza di parole e vera empatia con cui ognuno degli Hildebrandt possa davvero tentare di comprendersi. Una distanza che affonda le radici nella storia segreta di Marion, in ciò che tanti anni prima aveva scelto di tacere a Russ, che di lì a poco sarebbe diventato suo marito. Un passato oscuro e traumi mai davvero elaborati che si sono tramutati in un radicato senso di colpa che la accompagna a ogni nuova crisi personale e famigliare:
Come mai, ogni volta che un uomo le fa del male, lei reagisce sentendosi in colpa? (p. 298)
Marion per arginare il senso di colpa ha imparato a farsi invisibile, a diventare mite, controllata, ad annullarsi. Veste i panni della brava moglie del reverendo, cura la sua casa e i suoi figli, gli scrive i sermoni, asseconda la vanità di un uomo che solo ai suoi occhi non appare per quello che è: debole, meschino, incapace, frustrato.
[…] era diventata invisibile a suo marito. Invisibile anche ai suoi figli, resa anonima dalla densa, tiepida nube di mammità attraverso cui la percepivano. (p. 141)
Ma invisibili in certa misura lo sono anche gli altri, tutti presi da sé stessi per accorgersi delle crepe che si fanno sempre più profonde, privi di reale empatia. Non si accorgono di quella madre sul punto di crollare, una deflagrazione che li travolgerà tutti. Non si accorgono – pur avendone colto ben più di semplici segnali – di quanto profondo sia il pericolo della crisi matrimoniale. Non si accorgono nemmeno della distanza che c’è tra ognuno di loro, fratelli e sorelle ma praticamente sconosciuti. E quando Perry e Becky si ritrovano entrambi a frequentare Crossroads, l’associazione cristiana giovanile gestita dal rivale del padre, Rick Ambrose, è in uno dei momenti di condivisione e sincerità su cui si basa il gruppo che viene fuori, durissima e reale, tutta l'estraneità tra i fratelli:
Ti conosco troppo poco per provare qualcosa per te. Non credo che qualcuno ti conosca davvero. Quelli che credono di conoscerti si sbagliano. E accidenti se sei bravo a usarli. Hai mai fatto qualcosa per qualcuno che ti sia costato uno sforzo? Io in te ho sempre visto solo egoismo, egocentrismo e ricerca egoistica del piacere. (p. 43)
La distanza tra Perry e Becky è netta, due estranei che condividono la stessa famiglia ma che di sé stessi sembrano conoscere per lo più la maschera che indossano col mondo. È Becky a intravedere quello che c’è dietro la maschera di Perry, l’abisso di dipendenza, egoismo, la malattia.
Una distanza che tra alcuni di loro si cela, per un momento, dietro un rapporto squilibrato, sospeso tra affetto sincero e bisogno, destinato a entrare in crisi e mettere in discussione ogni cosa, come accade ancora a Becky e Clem: per molto tempo legati dai piccoli segreti e gli spazi condivisi, l’affetto dei gesti, l’ammirazione e la fiducia, l’equilibrio si rompe nel momento in cui entrano in gioco nuovi fattori, personaggi esterni e scelte non condivise. O, forse, si rompe nel momento in cui semplicemente entrambi si mostrano per sé stessi e ciò che ognuno di loro vede nell’altro non corrisponde più all’ideale con cui sono cresciuti. È un altro tipo di distanza, perfino più dolorosa, che diventerà fisica, fatta di chilometri e silenzi, lettere ignorate, vita che scorre. Un rapporto complesso, malsano, su cui lo sguardo di Franzen indugia fino a un certo punto, lasciando molto in sospeso, forse per riprenderlo da punti di vista differenti nel seguito di questa lunga narrazione.

Lo scrittore osserva le crepe muoversi lungo la parete, le contraddizioni dell’animo umano, l’egoismo e la debolezza, la frustrazione, il rimpianto: quello che ci restituisce sulla pagina è un romanzo perfettamente calato nel tempo della narrazione eppure a suo modo capace di raccontare l’umanità dolente di ogni altro tempo e luogo con la maestria di un autore consapevole delle proprie capacità. Ecco che il dramma di una famiglia abbraccia un intero momento storico di cui Franzen evoca turbolenze, luoghi, suoni, intrecciando alla narrazione privata i grandi temi sociali dell’epoca e non solo: il Vietnam, il movimento hippy, la crisi della borghesia, la droga, la questione razziale, la povertà, la fede. Lo fa maneggiando con cura un impianto narrativo a lui congeniale ed è doveroso rendersi conto dello sforzo di traduzione di Pareschi, che riesce magistralmente a seguire ogni cambio di tono e punto di vista e un raccontare calato nel tempo senza restarne sopraffatto o farsi scimmiottante. 

Credo Franzen abbia scritto uno dei suoi romanzi migliori, tornando alla sua dimensione più congeniale e in questo non vi è nulla di male, dimostrandoci ancora come certe tematiche – le relazioni, la crisi, l’incapacità di conoscere davvero le persone che abbiamo accanto – non si esauriscano mai del tutto e come certe fratture si ritrovino a più riprese nel tempo.

Di Debora Lambruschini