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«I sordi hanno qualcosa da dire»: benvenuti a “Repubblica sorda” di Ilya Kaminsky, il luogo dove la resistenza si fa col silenzio

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Repubblica sorda
di Ilya Kaminsky
La nave di Teseo, luglio 2021

Traduzione di Giorgia Sensi

pp. 176
€ 17 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)





La letteratura è il luogo per eccellenza in cui esplorare come i cattivi semi che piantiamo oggi si possano trasformare nei “fiori del male” di domani, e tutti i più grandi romanzi distopici ce l’hanno dimostrato. In 1984 di Orwell, il Partito governa secondo i principi del Socing, un socialismo estremo capeggiato dal Grande Fratello, mentre la società in cui vive Guy Montag – in Fahrenheit 451 di Ray Bradbury – è rigidamente controllata dalle Milizie del fuoco affinché i cittadini non si avvicinino a quel pericoloso oggetto chiamato “libro”. Ci sono poi le società distopiche di La notte della svastica (Katharine Burdekin) e di Il nuovo mondo (Aldous Huxley), in cui il controllo dittatoriale della riproduzione umana riduce le donne a macchine procreatrici e distrugge ogni tipo di legame affettivo tra gli individui. Margaret Atwood e Suzanne Collins, invece, danno rispettivamente vita alla Repubblica di Gilead e alla nazione di Panem, realtà autoritarie dove nessuno può sfuggire al controllo centrale e alle sue imposizioni. Importantissimi romanzi, questi, perché hanno creato un immaginario radicale, favorendo lo sviluppo di un pensiero critico riguardo le ansie storiche collettive per un presente incerto e per un futuro sempre più oscuro che sembra essere prossimo a bussare alle nostre porte. Per la sua portata ideologica e per l’innovazione tematica, Repubblica sorda di Ilya Kaminsky (uscito nel 2019 negli Stati Uniti e ora pubblicato in traduzione italiana da La nave di Teseo) merita a pieno titolo di essere accostato a questi libri eterni.

Repubblica sorda è di difficile categorizzazione; strutturato come un dramma in due atti, il libro è al contempo una raccolta poetica e un romanzo in versi. Ci troviamo a Vasenka, una città immaginaria che nasce dalla fusione di due mondi solo apparentemente antitetici, ovvero l’ex Unione Sovietica e gli Stati Uniti d’America. In un tempo e in uno spazio di difficile collocazione, il paese viene improvvisamente occupato da un esercito che prende autoritariamente il controllo della vita dei cittadini. Durante una protesta di paese, i soldati intervengono e uccidono un ragazzo sordo, Petya. Lo sparo è l’ultimo suono che la popolazione di Vasenka sentirà. Sprofondati in una sordità collettiva, i personaggi cercheranno di sopravvivere agli abusi di potere di cui sono vittime attraverso un linguaggio dei segni da loro inventato. La violenza pubblica si intreccia con le vicende personali dei protagonisti. I novelli sposi Sonya e Alfonso oscillano tra i ricordi della loro storia d’amore prima della guerra e il presente in cui ogni giorno i soldati arrestano gli abitanti ribelli al nuovo regime instaurato. Presto Vasenka si trasforma in una città semideserta, con burattini fatti a mano appesi alle finestre delle case di chi è stato portato via dai soldati. Nonostante la violenza che li circonda, Sonya e Alfonso aspettano una figlia. Alla storia della loro vita coniugale si affianca quella di Momma Galya, la proprietaria del teatro di burattini della città che istiga l’insurrezione popolare insieme alle sue burattinaie, giovani ragazze che insegnano ai cittadini la lingua dei segni dei ribelli e che di notte attirano i soldati dietro alle quinte per sedurli, e successivamente ucciderli.

Kaminsky, il quale ha perso l’udito all’età di quattro anni, lascia l’ex Unione Sovietica da adolescente e riceve asilo politico negli Stati Uniti. La “Repubblica” che l’autore porta in scena unisce le ansie politiche accumulate negli anni provenienti da entrambi questi mondi, e che si materializzano in un distopico paese immaginario «in cui un ragazzo ucciso dalla polizia resta sul marciapiede / per ore» (p. 155). Repubblica sorda parla di violenza impunita e gratuita, perpetuata da uno stato che si sente legittimato a possedere i suoi abitanti come fossero semplici pezzi di carne da macello. Ed è proprio attraverso la violenza di stato che «vediamo nella sua bocca aperta / la nudità / dell’intera nazione» (p. 155); mettere a nudo la nazione davanti ai propri cittadini (e ai propri lettori) significa per Kaminsky riflettere sui concetti di responsabilità e di colpa, chiamando in causa la coscienza collettiva contemporanea per rispondere alla seguente domanda: quanto ci possiamo ancora considerare "umani"?

A differenza di Cecità di Saramago, non è di natura epidemica la sordità dei cittadini di Vasenka, bensì di natura traumatica. È il trauma della violenza che fa sprofondare la città in una sordità senza precedenti. È il trauma dell’ingiustizia sociale a fare sparire per sempre i suoni dai loro padiglioni auricolari. Ma come può un poeta rendere visibile il silenzio, trasformandolo da piaga a tecnica di resistenza? Ilya Kaminsky reinterpreta la disabilità, trasformandola in potere di comunità da utilizzare contro il nemico. Inventando un linguaggio dei segni sconosciuto alle autorità, i cittadini di Vasenka trasformano il danno subito nella loro arma più forte per resistere all’oppressione dispotica del potere centrale.

Repubblica sorda è un compendio letterario che deriva da un’antica tradizione di drammi sacri, storie di martiri, poemi allegorici, fiabe folkloristiche, racconti di guerra, distopie e romanzi d’amore, il tutto volto a creare un’allegoria politica che funga da epica contemporanea per comprendere il nostro presente e riflettere su un futuro che potrebbe essere più vicino di quel che si pensa. Grazie ad un dark humor intriso di responsabilità politica, il libro accosta la censura, la tortura e la violenza ad un umorismo dissacrante («La sordità non è una malattia! È una posizione sessuale!» p. 105) al gusto di panini al pomodoro e cetriolini. E persino nei passaggi più bui del libro, una flebile luce risplende nell’oscurità: i ricordi di un matrimonio felice, la nascita di una bambina, la risposta alla domanda «Cos’è il silenzio? Qualcosa del cielo in noi» (p. 97).

Nicola Biasio