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Donne invisibili sul palcoscenico dell’ingiustizia maschile: lo spettacolo alienante ne “Il ballo delle pazze” di Victoria Mas

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Il ballo delle pazze
Victoria Mas
Edizioni e/o, febbraio 2021

pp. 192

€ 16,50 (cartaceo)
€ 11,99 (e-book)


Da quanto tempo sentiamo parlare della questione femminile? Da quando le donne sono piene di rabbia e rivendicano giustizia? E quanto ancora ci vorrà perché la parità di genere esista in maniera naturale? Intendo: senza doverla sempre sottolineare, la parità tra donne e uomini dovrebbe esistere e basta, dovrebbe essere una condizione accettata unanimemente e tanto naturale da non doverne più parlare se non per ricordare le dolorose lotte che hanno portato alla sua affermazione. È forse un’utopia?

A volte pensiamo che la lotta delle donne riguardi solo il nostro tempo, o al massimo il secolo passato, ma così non è. Sono invece secoli e secoli che le donne sono schiacciate da una società patriarcale che le opprime, relegandole a una condizione di oscuro silenzio. Un silenzio dapprima arreso, che si è trasformato poi in un grido corale. Una flebile voce che si è alzata sempre di più, fino a trasformarsi in un urlo di vibrante protesta, come direbbe De Andrè, ormai impossibile da fermare.

Il ballo delle pazze, esordio letterario della sceneggiatrice francese Victoria Mas, ci riporta col cuore e la mente in un’epoca in cui quel grido era soffocato, una bocca aperta, pronta ad esplodere di rabbia, ma ancora muta, o forse non del tutto. Ci troviamo a Parigi, nel 1885. Una Parigi spaccata in due: la Parigi bene da un lato, con i suoi cilindri prepotenti, l’ipocrisia e il tintinnio costante di tazze di porcellana, una Parigi con i guanti di velluto, racchiusa in una bolla di cristallo. Ricorda un po’ quei souvenir, quelle piccole palle di neve che contengono il dettaglio di una città, e se le capovolgi inizia a nevicare. Dall’altra una Parigi marginale, povera, fatta di prostitute, lavandaie, criminali, donne e uomini che faticano a sopravvivere, oppressi dalla morale borghese che non tollera opinioni o valori diversi dai propri. Potremmo poi dire che esiste una terza e ultima Parigi, quella dell’ospedale della Salpêtrière, alienata e bianca, sospesa in un respiro a mezz’aria. Ed è proprio in questa struttura che è ambientato il romanzo, in mezzo agli occhi vigili delle infermiere e dei medici incravattati; ma le vere protagoniste sono le alienate, le pazze. Bambine, ragazze, donne e anziane che condividono la stessa sorte, lo stesso retaggio maschilista che le ha condotte in quell’ospedale. Louise è una ragazza adolescente, con un’infanzia rubata alle spalle, violentata da bambina dallo zio: ripone la speranza nelle mani di un infermiere che dice di amarla, ma imparerà troppo presto e a sue spese che “i sogni sono pericolosi” (p.40). Thérèse è la più anziana, vive alla Salpêtrière da più di vent’anni, sembra quasi non essere vissuta, prima di allora, e invece una vita in precedenza l’ha avuta eccome, e lei non ha alcuna voglia di tornare a passeggiare all’aria fresca lungo la Senna. Eugénie è la nuova arrivata, figlia di una ricca famiglia borghese, con la passione per la cultura e la voglia di emancipazione; l’unica sua colpa è il dono non richiesto di essere un tramite terrestre degli spiriti dei defunti, che sfruttano la sua energia vitale per mandare messaggi ai loro cari in vita. Apparentemente donne normali, senza colpe, se non quella di aver offeso la mentalità imperante. Non si capisce bene se gli attacchi isterici che si impossessano di queste pazze, come le chiama la Parigi bene, siano dovuti all’internamento e alle torture subite dai medici, o siano invece sintomo evidente di una disfunzione neurologica. Le alienate condividono un passato simile, in cui la presenza costante degli uomini le ha fatte uscire di senno e le ha rinchiuse in quel gelido ospedale, forse più che altro per timore del manifestarsi di una loro opinione: "La Salpêtrière è un deposito per tutte quelle che disturbano l’ordine costituito, un manicomio per tutte quelle la cui sensibilità non corrisponde alle aspettative, una prigione per donne colpevoli di avere un’opinione." (p. 29)

In questo ospedale, in cui vivono principalmente donne, il potere e l’autorità è incarnata da un uomo che incute timore, un’autorità talmente riconosciuta e affermata che nessuno osa guardarlo negli occhi, il dottor Charcot, maestro di Freud. Ha il compito di dare lezioni pubbliche ai giovani futuri medici che aspirano un giorno a diventare come lui, dimostrando il progresso della scienza e dell’ipnosi come cura efficace degli episodi isterici delle internate. Le donne, costrette a un’umiliazione pubblica, come se dovessero intrattenere il pubblico, prestano il loro malessere e la loro sofferenza agli occhi degli uomini, che ancora una volta le osservano con occhio clinico o con morbosa curiosità, senza mai vederle realmente. Sembra quasi di assistere a un concerto, eseguito da un’orchestra macabra in cui le pazze rappresentano i primi violini, mentre Charcot e gli altri medici dirigono la musica.

Geneviève, capoinfermiera sempre impassibile e rigida, mette in discussione tutto ciò in cui credeva dal momento in cui Eugénie varca le porte della Salpêtrière. La giovane riesce infatti a vedere la sorella defunta di Geneviève, Blandine, che tramite Eugénie fornisce una prova concreta del suo costante vegliare sulla sorella, avvertendola di pericoli e confortandola con la sua presenza. Lo sguardo di Geneviève si addolcisce quando capisce che la giovane borghese non è pazza, e ciò che prima credeva impossibile in nome della scienza si rivela essere vero: lo spirito della sua sorellina non ha mai smesso di seguirla con dolcezza. Per ringraziare la giovane alienata di questa preziosa illuminazione, Geneviève farà di tutto per fare fuggire la presunta pazza tradita dalla sua famiglia e da quel mondo cui non ha alcuna ragione di appartenere.

Il romanzo si chiude con il famoso ballo di mezza quaresima, l’evento più importante dell’anno, dove la Parigi bene, che lo chiama il “ballo delle pazze”, viene invitata alla Salpêtrière per osservare da vicino le pazienti, come se fossero animali chiusi in gabbia: “Poco a poco mormorii e risate riprendono, la gente si spinge per vedere più da vicino quegli animali esotici, perché è come essere in una gabbia del giardino zoologico, in contatto diretto con le bestie strane”. (p. 165). Una spettacolarizzazione delle sofferenze femminili e dell’oppressione maschile. Il lettore si trova davanti a un enorme paradosso: durante il ballo non si capisce più chi sia effettivamente pazzo: 

Mentre le alienate vanno sulla pista da ballo o si siedono sui divanetti gli invitati si rilassano, scoppiano a ridere, gorgogliano, gridano quando sfiorano la manica di una pazza, tanto che se qualcuno entrasse nella sala senza conoscerne il contesto prenderebbe per pazzi ed eccentrici tutti quelli che si suppone non lo siano. (p. 165)

Un paradosso che culmina nella condizione della severa capoinfermiera, che per aver fatto scappare Eugénie durante il ballo, verrà considerata una malata di mente, e poserà il grembiule bianco da infermiera per indossare gli stessi vestiti indossati dalle altre alienate. Infermiere o alienate, poco importa, sono donne e hanno un’opinione, e tanto basta per considerarle pazze.

Un romanzo che protesta a gran voce la necessità di riconoscere pieni diritti alle donne, in un mondo in cui l’unica aspirazione concessa loro era quella di essere la moglie di qualcuno. Una scrittura pungente e delicata allo stesso tempo, in cui la rabbia si mischia al desiderio di un futuro migliore, lo stesso che ancora oggi noi donne desideriamo, perché nonostante i diritti ottenuti, frutto di infinite lotte collettive, quel bisogno di essere viste ci accompagna ancora oggi.


Lidia Tecchiati