#CritiCOMICS - grazie a Leo Ortolani questa volta sulla Luna siamo tornati davvero!

Luna 2069
di Leo Ortolani
Feltrinelli Comics, 2019

pp. 239
€ 20,00 (cartonato)
€ 8,99 (ebook)


Quanto le avventure del topo mascherato più famoso dei fumetti si sono concluse con il numero 122, non mi vergogno ad ammettere di aver provato un profondissimo senso di vuoto. Le storie disegnate da Leo Ortolani mi avevano accompagnato per circa dieci anni, da quel Lucca Comics & Games del 2009 in cui mi ero ritrovata per caso a una conferenza sull’intraducibilità dei fumetti umoristici e in cui era relatore, appunto, Leo Ortolani, che ebbi l’occasione di conoscere per la prima volta. Da quel momento non sono più riuscita a staccarmi dalle sue strisce e alla vigilia della conclusione di una serie di cui recuperai avidamente tutti i numeri usciti fino a quel momento, non sapevo davvero come avrei potuto colmarne l’assenza. Invece il geologo più divertente del suolo italico ha fatto in modo di riempire il panorama letterario di opere così sagaci, geniali e profonde da permettermi di guardare indietro alla serialità del suo figlio più famoso con tenerezza, ma mai con nostalgia. C’è riuscito più di tutti con Cinzia, ma anche aver letto dell’avventura dell’adozione in Due figlie e altri animali feroci non è stato da meno. Ci sono state, poi, le raccolte dedicate alle recensioni cinematografiche e il primo volume scritto in collaborazione con A.S.I. (Agenzia Spaziale Italiana) e E.S.A. (European Space Agency) e uscito nel 2017 per la Panini Comics, C’è spazio per tutti. Con Luna 2069 il ciclo continua a ripetersi e ancora una volta riesco ad avere tra le mani l’opera a fumetti che i lettori del XXI secolo meritano.

#SpecialeMeridiani – Quando la letteratura da regionale si fa universale: la prosa poetica di Goffredo Parise

Nato a Vicenza nel 1929 e morto a Treviso nel 1986, Goffredo Parise viene troppo spesso etichettato alla luce della sua appartenenza regionale, e pertanto tenuto ai margini del canone della letteratura italiana: i libri di testo scolastici lo relegano in un angolo, spesso solo tra i contenuti digitali integrativi – non degno forse di occupare tre pagine in un volume che ne contiene centinaia. La scoperta di questo autore è dunque dell’età adulta, che del resto è quella più atta a comprenderne e apprezzarne le sfumature, la complessità. 
L’ho conosciuto durante un corso universitario monografico, a lui dedicato da un docente appassionato e sapiente, ed è stato per me la folgorazione, il grande amore. Ho comprato il primo volume dei Meridiani all’alba del mio terzo anno accademico e l’ho custodito come un reperto prezioso, il cui valore era accresciuto dalla bella introduzione di Andrea Zanzotto, che di Goffredo fu buon amico e che lo celebra, senza ritrosie, come “una delle figure più singolari e geniali del Novecento italiano”. Il secondo volume è arrivato in dono per la mia laurea. Ad oggi, rimangono i libri a cui sono più affezionata, quelli che porterei con me se dovessi salvarne solo due. A distanza di tempo, torno a chiedermi cosa abbia dato questo autore alla me di allora, giovane, studentessa di lettere che si affacciava al mondo. Mi ha dato, sicuramente, la gioia di una prosa straordinaria, che sapeva essere pungente, precisa, ma anche impastata di poesia – già dal suo esordio con l’incredibile, visionario, Il ragazzo morto e le comete, e fino al suo ritorno tardivo alla meraviglia con i racconti brevi dei Sillabari. Alcune delle intuizioni, degli sprazzi creativi di queste opere, seppure in forma diversa, rimangono insuperati, non solo nei testi da me letti fino ad allora, ma anche in tutti quelli che ho potuto avvicinare in seguito: penso al ragazzo di quindici anni, con i suoi “occhi neri, lunghi e pieni di antichità”, che non può prendere congedo dal mondo e che i suoi amici più cari, Fiore e Antoine, continuano a cercare dopo la sua morte nei luoghi da lui amati; oppure ancora al senso della vita, che la voce “Famiglia” del primo Sillabario ci rivela nascosto in un goccio di latte materno che riesce a dare speranza a un uomo (solo e anonimo come tanti uomini) e, nei momenti più cupi e vuoti della sua esistenza, gli fa ricordare solo “latte, miele, fiori o erba e linfa umana”.

Chi è Pinar Selek, la sua storia e perché non può tornare a casa


Lontano da casa
di Pinar Selek
Fandango Libri, 20 giugno 2019 

Traduzione a cura di Manuela Maddamma e di Viviana Tomassetti 

pp. 72
€ 10,00 (cartaceo)
€ 5,99 (ebook)

C'è una differenza significativa tra questo tipo di cambiamento e lo strappo brutale. 
I miei fiori non sono stati più annaffiati, e c'erano degli uccelli ai quali offrivo il pane ogni mattina, e i vecchi amici a cui portavo il cibo, l'ulivo che avevo piantato nel mio giardino... Il romanzo che avevo cominciato a leggere e l'articolo che stavo scrivendo sono rimasti sul tavolo. E le foto di mia madre, i regali degli amici, le lettere che spesso rileggevo, la campagna politica che avevamo appena lanciato e il discorso che dovevo pronunciare durante la manifestazione... I miei amici mi aspettavano all'angolo della strada... 
Il mio “a casa”, la mia casa erano loro. Non avevo finito di costruire la mia casa. Stavo continuando... Perché proprio adesso? Capita. La vita non è fatta unicamente del nostro mondo. (p. 20)
Immaginate di dover lasciare all'improvviso la vostra casa. Immaginate vostro padre che vi esorta a prendere nel più breve tempo possibile quanto di più caro possedete e a doverlo mettere in una valigia. 
Soprattutto, immaginate di doverlo fare quando, da innocenti, sulla vostra testa oscilla l'atroce spada di Damocle di un ergastolo. Aggiungete, nel vostro immaginario, che questa spada continui a seguirvi ovunque per vent'anni. 
E a dondolare, dondolare, dondolare ovunque vi troviate, anche se lontani da casa vostra. 

#CritiCOMICS - «Da adolescente ero un po’ come Alice, la mia protagonista, magari non avevo i superpoteri, ma senz'altro ero il classico nerd appassionato di fumetti»: intervista a Giulio Macaione

"Nato" da un'esperienza di vita vissuta, o per meglio dire, di "città abitata", "Alice di sogno in sogno", il nuovo albo di Giulio Macaione ci ha conquistato per il suo modo, molto particolare, di mischiare realtà con finzione, assieme al sogno. Ecco perché a Lucca Comics è stato un piacere intervistarlo in merito al suo nuovo libro Bao.

Quando abbiamo terminato di leggere “Alice di sogno in sogno” non abbiamo potuto che innamorarci di Alice, la protagonista del tuo libro. Come hai fatto a costruire un personaggio così sfaccettato e ricco di sfumature, nonostante la giovane età? Hai trovato spunto da qualche protagonista della cultura pop oppure hai fatto affidamento su persone reali. O magari nessuna delle due? 
Direi che Alice - da pronunciare all’inglese mi raccomando! - è il risultato della mia immaginazione. È un personaggio che ho creato tanti anni fa e solo di recente ho sviluppato la sua storia. Da adolescente ero un po’ come lei, magari non avevo i superpoteri, ma senz'altro ero il classico nerd appassionato di fumetti, proprio come Alice che ne legge in continuazione! Per fortuna, al contrario suo, non sono mai stato vittima di bullismo per questo. 

#CriticaLibera - Rileggere "Piccole donne" a trent'anni. Il modello letterario e umano di Louisa May Alcott

Piccole donne, di Greta Gwig, 2019 (con Emma Watson, Florence Ough, Saoirse Ronan, Eliza Scanlen e Meryl Streep)
Oggi è il compleanno di Louisa May Alcott. Il 29 novembre del 1832 nasce infatti una delle poche autrici che posso definire fondamentali nel mio percorso di lettrice e di donna e sono sicura che vale lo stesso per molte altre ragazze (e, spero, ragazzi) nel mondo. Così quest’anno, il trentesimo della mia vita, ho deciso di rileggere il capolavoro della scrittrice americana e ho provato a guardare alla bambina di allora con gli occhi dell’adulta di oggi e ricordare di cosa era composta quella magia chiamata Piccole donne.

#ScrittoriInAscolto - la solitudine del critico letterario secondo il professor Giulio Ferroni

Giorgio Patrizi, Raffaele Manica, Giulio Ferroni e Stefano Gallerani
La presentazione dell’ultimo saggio di Giulio Ferroni edito da Salerno Editrice (e di cui vi abbiamo parlato qui), La solitudine del critico. Leggere, riflettere, resistere, non poteva avvenire se non a Villa Altieri, una delle più prestigiose dimore storiche seicentesche di Roma, luogo che ospita la Biblioteca della Città Metropolitana, il Centro di Studi per la ricerca letteraria, linguistica e filologica “Pio Rajna”, la Biblioteca Storica Dantesca e una collezione archeologica allestita in un percorso espositivo multimediale ed interattivo. In una cornice che respira storia e cultura si è infatti tenuta quella che definirei più una tavola rotonda che la presentazione di un libro. Accanto al prof. Ferroni, storico della letteratura e nome conosciuto da migliaia di studenti in tutta Italia, sedevano infatti Stefano Gallerani, Raffaele Manica e Giorgio Patrizi, tutti corenti nell’obiettivo di presentare un volume, ma al tempo stesso di proporre l'interiorizzazione di ciò che quel volume ha suscitato loro, certi che in sole 78 pagine sia concentrato un efficacissimo distillato di sapere che aprirà a molte riflessioni sul futuro della critica letteraria in Italia.

#CriticARTe - Sulla via dei "nuovi mondi" di Photolux 2019


Photolux 2019
Mondi. New Worlds

Lucca, 16 novembre - 8 dicembre;
biglietto intero   22,00; 
ridotto € 19,00.





©Abbas/Magnum Photo
La spedizione a Photolux, Biennale Internazionale di Fotografia ospitata dalla bella città di Lucca, è sempre un avvenimento atteso, e sempre una garanzia. Quattro anni e tre rassegne, iniziate sempre con il World Press Photo, una raccolta degli scatti vincitori del concorso annuale (attualmente il 62°), divisi per sezioni tematiche (dall’ambiente allo sport, dai ritratti all’attualità). Una mostra, questa, che risulta particolarmente adatta come esordio per l'edizione del 2019, dedicata proprio ai Mondi. New Worlds. La forza delle immagini, valorizzata dall’ambientazione ariosa ma imponente della Chiesa di San Cristoforo, apre infatti innumerevoli finestre sul reale, grazie a un eccellente apparato didascalico e alla forte cifra di narratività che aiuta l’immersione del pubblico. Per me, che mi presento ogni volta con tutto l’entusiasmo della neofita, è rassicurante ritrovare forme consuete, concretizzate in foto di altissimo livello che mi preparano a quella che sarà l’esperienza diffusa dei due giorni che mi attendono. Il tema prescelto per quest’anno (dopo i precedenti Sacro e profano qui la recensione – e Mediterraneo ­qui la recensione) mi trovava però sospettosa: troppo ampio e variamente declinabile, poteva rivelarsi un boomerang, o un calderone in cui lasciar spazio all’entropia. 

Istantanee dalla fine del mondo. "Il Mostro e altre storie" di Agota Kristof




Il Mostro e altre storie
di Agota Kristof
Edizioni Casagrande, 2019

Traduzione e introduzione di Marco Lodoli

pp. 136
€ 18,00


Agota Kristof è una scrittrice che ci obbliga a guardare negli occhi il dolore.
La sua stessa vita è stata una narrazione dolorosa: la nascita in Ungheria, poi la fuga prima del drammatico 1956, il rifugio in Svizzera e l'adozione del francese come lingua della scrittura, "lingua nemica" adottata da una profuga che deve ricostruire un'identità.
Per questo, ma non solo, perché oltre alle ragioni biografiche ci deve essere stato un nucleo di ispirazione molto resistente, le sue opere nascono dall'esigenza di dire il male, raccontarlo senza retorica e divagazioni, andando dritto al punto come una freccia su un arco in tensione. Molti lettori conoscono Agota Kristof per quello che viene considerato il suo capolavoro, Trilogia della Città di K., un'oscura fiaba contemporanea che racconta la storia di due bambini, Lucas e Claus, soli nella realtà della guerra, dove tutto è il contrario di ciò che sembra e non ci sono aiutanti né maghe buone a salvarli. 
Ma in realtà l'autrice ci ha regalato tanti altri preziosi testi letterari, alcuni dei quali da scoprire proprio nel catalogo di Edizioni Casagrande, come Dove sei Mathias? e la raccolta poetica Chiodi.
Con Il Mostro e altre storie vengono adesso alla luce delle pièce teatrali scritte tra il 1970 e il 1980 in Svizzera.
Quattro commedie nere - inedite in Italia - che, come scrive Marco Lodoli nell'introduzione, "hanno la forza concentrata dei proverbi, dei salmi, dei sogni." 
Così in effetti si sente il lettore, come se camminasse sul filo invisibile di un sogno inquieto, mentre tenta di raggiungere la salvezza scappando da qualcosa. 

La scrittura come catarsi e rivelazione: il laboratorio di Gruppo Incontro, il libro di SassiScritti


L’isola che c’è
di autori vari
a cura di Luca Buonaguidi e Francesca Gori
SassiScritti associazione culturale, 2019

pp. 132
Senza prezzo

Premessa: questo libro è stato realizzato in collaborazione con la Cooperativa Gruppo Incontro e raccoglie gli scritti dei partecipanti al laboratorio di scrittura autobiografica tenutosi per gli utenti della comunità di Uzzo, sulla montagna pistoiese.
Questo libro non intende porsi come un’opera letteraria o di narrativa, né tantomeno essere un saggio che analizzi la vita in comunità. Assolve piuttosto a una duplice funzione: da un lato terapeutica e catartica per i partecipanti al laboratorio che, ritrovandosi a scrivere di se stessi all’interno di un contesto guidato da esercizi ben specifici – la rievocazione di flashback, lo scatto di foto in ambienti naturalistici o urbani, la scrittura di una lettera a un destinatario assente –, hanno modo di scandagliare il proprio passato, rivivendolo attraverso il percorso in comunità, e al contempo di visualizzare un’ipotesi di futuro, elemento temporale che spesso viene visto in modo oscuro e confuso, quando non percepito come irrimediabilmente compromesso a causa dell’abuso di sostanze; dall’altro conoscitiva per chi, leggendo, ha modo di entrare in contatto con un’umanità il più delle volte denigrata e posta ai margini attraverso quella che viene definita come una «estetizzazione diseducativa», volta a un giudizio immediato e superficiale.

"La solitudine del critico": leggere, riflettere e resistere secondo Giulio Ferroni


La solitudine del critico. Leggere, riflettere e resistere
di Giulio Ferroni
Salerno Editrice, 2019

pp. 80

€ 8,90


Giulio Ferroni, storico della letteratura, critico e scrittore, è uno studioso che da sempre discute il ruolo della critica. 

Può sembrare scontato che le due cose vadano di pari passo ma non lo è.
Perché ci sono critici più inclini a rivolgere lo sguardo all'esterno, al panorama culturale, ai testi e alla storia letteraria, e critici che agli studi hanno affiancato nel tempo un programmatico esame del proprio stesso ruolo, raffrontandolo costantemente con le strutture di un mondo in cambiamento. 

E se il mondo cambia, va da sé muti anche il ruolo della critica che, da sua etimologia greca, non è tanto (o meglio solo) l'arte del giudicare, ma più quella del saper separare e cernere

È una sorta di censimento del pensiero che chiama a raccolta tutti gli elementi e poi li filtra per poter arrivare a un giudizio sulle cose.

Giulio Ferroni, autore di una poderosa Storia della letteratura in 4 volumi e di interventi illuminanti come quelli sulle teorie del "comico" nel Novecento, ci ha già proposto una riflessione sul proprio ruolo ne La passion predominante, un libro del 2009 che parte dalla rievocazione delle proprie letture giovanili per arrivare a un ritratto del sé maturo e che parallelamente offre un'appassionata riflessione sullo stato di pericolo in cui versa la letteratura nel mondo di oggi.

Anche in questo nuovo volume, La solitudine del critico (edito da Salerno Editrice), torna lo sguardo al contemporaneo con un attento ragionamento sullo stato della critica.
Non a caso il libro esce in una collana, Astrolabio, che dichiara di voler "fare il punto" su grandi temi, figure, momenti, aspetti della nostra cultura e della nostra storia.

"Nessuno è come qualcun altro": l'enigmatica arte di raccontare per Amy Hempel

Nessuno è come qualcun altro. Storie americane
di Amy Hempel
SEM, 21 novembre 2019

Traduzione di Silvia Pareschi

pp. 156
€ 17 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


Eh sì, qualche volta giri pagina e scopri che Amy Hempel ha chiuso così il racconto, lasciandoti pieno di punti di domanda, e allora torni indietro e ripercorri i passaggi salienti del testo, confermi che quel finale, davvero, non te lo aspettavi. D'altra parte non c'è da stupirsi: Amy Hempel è un'allieva di Gordon Lish, editor passato alla storia per il suo lavoro con Carver. E qualcosa di quel minimalismo, inutile dirlo, si avverte in queste storie americane, che vivono di squarci improvvisi - rivelando spesso anche realtà scomode - che poi si richiudono altrettanto inaspettatamente. Eppure, anche a pagina chiusa e a nuovo racconto iniziato, qualcosa del precedente risuona, torna nei ricordi, si incista. 
Ci sono inizi fulminanti, come quello di Un rifugio con tutti i servizi: «Mi conoscevano come quella che puliva le gabbie dalle cacche puzzolenti con la canna dell'acqua - e lo faceva con piacere» (p. 15). Non è che l'inizio di una prosa ritmata dal "mi conoscevano" / "ci conoscevano", che marcia dritta e senza interruzioni verso passi difficili, su animali che stanno per essere soppressi, e altri più lievi, dedicati a quelli che fortunatamente si salvano. 

#CriticARTE – Se a Van Gogh si nega il colore: "L'odore assordante del bianco"


L’odore assordante del bianco
di Stefano Massini
regia di Alessandro Maggi

con Alessandro Preziosi

 Teatro Nuovo (Verona)
19-24 novembre 2019





Che cosa ne è di Van Gogh, se gli si toglie il colore? Rimane solo il bianco, soffocante, stordente come una prigione, come la stanza asettica dell'ospedale psichiatrico di Saint Paul in cui il pittore venne ricoverato nel 1889 e in cui ogni sfumatura sembra risucchiata via dalla ricerca di una totale sterilità, degli ambienti come dei sentimenti. Una stanza, quella in cui è ambientata la rappresentazione, in cui anche i petali dei fiori sono candidi, e che contrasta penosamente con le tonalità calde di un'altra stanza, la stanza gialla, emblema di tutte le speranze deluse di Vincent. Intorno al vuoto di colore, al vuoto di calore, ruota la pièce, diretta con grande intelligenza da Alessandro Maggi. Il bianco, di cui l'efficace sinestesia del titolo ci dice l'"odore assordante", sembra un concetto univoco, ma diventa variegato nelle infinite realizzazioni sceniche, che muovono uno spazio altrimenti statico con accurati cambi di intensità e toni (a tratti la luce è abbacinante, freddissima, a tratti invece più tenue, opaca; in taluni casi invece intima, lieve). All'inizio dell'opera, mentre un Van Gogh trentaseienne rotola e si contorce sul pavimento preda dei suoi fantasmi, una voce bambina ci dice della sua reclusione, del suo delirio.

L'Italia del "caso Montesi": un Paese votato al mistero, ieri come oggi


Non mi piacciono i film di Anna Magnani.
Il caso Wilma Montesi

di Mario Pacelli
Graphofeel Edizioni, 2019

pp. 168
€ 15,00 (cartaceo)
€ 7,00 (ebook)



Il cigno nero, il musico, il poliziotto, l’investigatore, il giudice, l’avvocato, il marchese, il giornalista, l’attrice, l’avellinese, il ministro, il presidente, il questore, il capo della polizia, il notabile. Sembrerebbero le dramatis personae di una pièce teatrale o di un lungometraggio, e invece questi appellativi corrispondono alle professioni dei principali personaggi di un fatto di cronaca nera che quasi settant’anni fa scosse la coscienza sociale, culturale e politica italiana. Un caso, peraltro, a cui l’ambiente dello spettacolo non risultava del tutto estraneo, dal momento che la sua “protagonista” Wilma Montesi – nel ruolo infausto della vittima – aveva ambizioni attoriali, frequentava Cinecittà e dimostrava una certa indipendenza quanto a modelli di recitazione, se è vero che la gloria nazionale Anna Magnani non era la sua diva di riferimento. Chissà: forse, se l’avesse apprezzata almeno un po’, quel 9 aprile del 1953 sarebbe andata al cinema a vedere La carrozza d’oro, in cui recitava diretta dal maestro Jean Renoir, mancando l’appuntamento con il destino ben più tragico che un paio di giorni dopo ne avrebbe fatto ritrovare il cadavere sulla spiaggia di Torvajanica. Certo è che con la sua morte la ventunenne romana ha consegnato all’Italia il suo ennesimo e non svelato mistero, che da allora non ha smesso di alimentare il fuoco profano della carta stampata, dell’editoria e della stessa settima arte (ben cinquantadue soggetti cinematografici sul caso Montesi vennero depositati mentre le indagini sul decesso erano ancora in corso). Un libro di Mario Pacelli, appena pubblicato da Graphofeel, aiuta a orientarsi tra le poche luci e le molte ombre di una vicenda che vale la pena conoscere e ricordare, specchio perfetto di un Paese che non ha smarrito la sua vocazione al mistero.

#LectorInFabula - Di come l'arte salva la vita. "L'usignolo" di Hans C. Andersen

L’usignolo
di Hans C. Andersen
Elliot, 2019

Illustrato da Mary J. Newill

pp. 45
€ 5,00

Titolo originale: Nattergalen 
Traduzione di Ilaria Tesei


Pubblicato da Elliot nella inedita versione illustrata di Mary J. Newill, risalente al 1898, L'usignolo di Hans C. Andersen ha il nitore ineludibile delle fiabe e, grazie ad esso, riesce a parlare al presente, incoraggiando collegamenti impensati. Quando l'Imperatore della Cina scopre che, di tutte le sue meraviglie, la più rinomata è il canto di un usignolo che si nasconde tra le fronde del suo immenso giardino, desidera immediatamente averlo per sé. Manda allora a cercarlo i suoi sudditi più devoti: nessuno di loro, però, né il Cavaliere, né il Cappellano, né i paggi reali sono in grado di individuarlo.

Il viaggio di Marco Magnone in Europa: ponti da costruire e muri da abbattere

L’Europa in viaggio
di Marco Magnone
add editore, 2019

pp. 203

€ 12,00 (cartaceo)
€ 5,99 (ebook)

Non esistono muri artificiali tanto alti e spessi da contenere i ponti che naturalmente ci uniscono gli uni agli altri. (p. 171)
Oltre alla citazione qui sopra, in quarta di copertina di questo bel libriccino possiamo leggere: «E chissà che, nel corso del viaggio in quest’Europa ammaccata di oggi, non finiremo per scoprire che il meglio della sua storia deve ancora venire. E che spetta a noi scriverla». La quarta di copertina, si sa, insieme alla copertina vera e propria è una sorta di biglietto di benvenuto, o meglio una dichiarazione d’intenti.
Mettiamo insieme la citazione a p. 171 e la frase in quarta e avremo, in breve, lo scopo di questo libro: non un romanzo (ché questo editore, a parti casi eccezionali, è specializzato in saggistica) ma neanche un saggio vero e proprio. Io lo definirei più un diario di viaggio; d’altronde sono le prime parole a confermarci che «questo libro è nato in autostrada» (p. 11).

Trent'anni di Prada (e di Miuccia) in un libro dalla copertina opportunamente cerulea: l'omaggio monumentale a una griffe amata anche da chi non ama la moda

Prada. Sfilate
di Susannah Frankel
traduzione dall’inglese di Maura Parolini e Matteo Curtoni
L’ippocampo, 2019

pp. 632
€ 49,90



Un noto film tratto da un noto libro ne ha fatto il marchio deputato a vestire addirittura “il diavolo”, c’est à dire la luciferina direttrice della rivista di moda che fa dannare donne disposte a tutto pur di essere à la page. Stiamo ovviamente parlando del romanzo di Lauren Weisberger Il diavolo veste Prada (2003) e dell’omonima trasposizione cinematografica con la regia di David Frankel (2006), in cui una Meryl Streep in stato di grazia nel ruolo di Miranda Priestly – alfa e omega di “Runaway”, versione di “Vogue America” per il grande schermo – detta legge in fatto di moda e stile di vita. Eppure proprio non ci va di mandare Prada all’inferno. Perché quella che nasce a Milano nel 1913 come azienda di pelletteria, e che nel 1979 viene ereditata da colei che tutti ormai chiamano “la signora Miuccia”, è molto più che una griffe di lusso, così come la sua domina è molto più che una stilista. Per averne la prova basta sfogliare il volume appena pubblicato in Italia dalla casa editrice L’ippocampo, che racconta il marchio e la sua filosofia aziendale ripercorrendo tutte le collezioni prèt-à-porter P/E e A/I dal 1988 a oggi: le oltre 1300 fotografie scattate durante le sfilate e i sapienti testi di Susannah Frankel danno vita a un lavoro monumentale di immagini e parole che è soprattutto un omaggio al genio di una donna e alla sua capacità di innestare sull’albero di famiglia le gemme della filosofia, della letteratura, dell’arte e dell’architettura, in un processo di ricerca e contaminazione che contempla all’occorrenza anche il cosiddetto “brutto”.

#CriticaNera - Il gioco del silenzio che funziona come un ingranaggio


Il gioco del silenzio
di Rob Keller
DeA Planeta, settembre 2019

pp. 329
€ 16 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)


Un thriller ben congegnato per un esordiente di sessant’anni, con un passato da orologiaio e un vissuto di oltre 40 anni in Italia. L’autore è Rob Keller, che ha fatto il suo esordio su Dea Planeta a fine settembre con un romanzo dal titolo Il gioco del silenzio, ambientato in Italia, a Como, in una splendida e inquietante villa degli orologi, dove si consumano morti sospette, presunti suicidi e leggende che sembrano più reali del previsto per la protagonista Cristina. Lo scrittore, che ora vive in Quebec da molti anni, ha voluto ricordare le sue origini italiane, raccontando anche della sua passione di una vita: gli orologi. 
La giovane protagonista è una mamma, con un passato da brillante criminologa alle spalle, lasciato misteriosamente da parte, mentre malvolentieri è costretta a tornare nel paesino in seguito alla morte dello zio. La vita sul lago non le piaceva e ne era scappata per dimenticare la morte della madre, l’indifferenza del padre e un amore non corrisposto con il rampollo della famiglia più in vista del Lago, i Radlach. 

La diffidenza di Sciascia verso i filologi: a Bookcity il dialogo tra Paolo Squillacioti e Salvatore Silvano Nigro

Quando iniziava a scrivere un libro e si crucciava su come risolvere alcune questioni poste dal testo, racconta Salvatore Silvano Nigro, Leonardo Sciascia rileggeva I promessi sposi; dunque assistere all’incontro a lui dedicato proprio a Casa Manzoni, in occasione di Bookcity, è stato emozionante. A dialogare dell’opera, dell’attività editoriale e letteraria di Sciascia c’erano il professor Nigro, autore del libro Leonardo Sciascia scrittore editore ovvero La felicità di far libri (Sellerio) e Paolo Squillacioti, curatore delle Opere di Leonardo Sciascia pubblicate da Adelphi; pochi anni prima della morte, infatti, l’autore aveva scelto di affidare a questa casa editrice tutti i suoi scritti: gli piaceva perché era una piccola realtà che pubblicava testi di grande qualità e aveva un contatto diretto con Foa e Calasso, così che fosse possibile per lui veder nascere un libro tra amici

Si è parlato molto di filologia, durante l’incontro: Nigro ha infatti ricordato l’ossessione di Sciascia per i filologi, temeva che qualcuno decidesse di fare un’edizione critica delle sue opere perché avrebbe potuto essere troppo neutro e dunque poco adatto alla sua scrittura; da qui la resistenza nel fornire le sue carte e, si racconta, la tendenza a farle sparire.

#SpecialeMERIDIANI - Dentro l'apparente facilità dei versi di Umberto Saba

Ci sono poeti che ci sconvolgono per la loro complessa capacità di poetare, per lo stile alto dei versi o per la forte ripresa dei classici. Ci sono poeti, come Umberto Saba, che sono invece in grado di colpirci per la loro semplicità apparente, che rende le poesie leggibili a più livelli (non a caso il poeta triestino è tra i più presenti nelle antologie scolastiche). L'ambizione di fare una "poesia onesta", priva di manierismi o di arzigogoli retorici, porta a leggere i suoi testi senza pregiudizi di sorta, con spontaneità: più si travalica il significato letterale e si guarda oltre, e più si prova un'estatica ammirazione per le libertà stilistiche e metriche e per la trasparenza lessicale. In fondo, in ogni componimento risuonano le parole di Saba in apertura della sezione Quasi un racconto del Canzoniere

AL LETTORE
Se leggi questi versi e se in profondo
senti che belli non sono, son v e r i,
ci trovi un canarino e TUTTO IL MONDO. 

#CriticaLibera: gli anelli si "avvincono" o si "incatenano"? La nuova traduzione de "Il signore degli anelli"

Il signore degli anelli - La compagnia dell'anello
di J.R.R. Tolkien
Bompiani, 2019

Traduzione di Ottavio Fatica

pp. 704
€ 24,00 (cartaceo)
€ 14,99 (ebook)



Il 30 ottobre è uscita per Bompiani una ritraduzione de Il signore degli anelli, opera fantasy dello scrittore inglese J.R.R. Tolkien. La traduzione appena uscita è stata realizzata da Ottavio Fatica ed è la prima dalla storica fatta da Vicky Alliata di Villafranca e Quirino Principe nel 1967 (poi rivista nel 1970 e nel 2003).
L'incipit così puntuale e asettico è necessario per tutti quelli che non vivono nella bolla social che tocca gli argomenti traduzione-fantasy-editoria. Perché chi vive in questa bolla ha assistito, da un anno a questa parte, a una lotta senza quartiere tra addetti ai lavori e pubblico perché mai traduzione fu più avversata di questa. È stata tirata in ballo la politica, la tradizione, persino l'avallo personale di Tolkien alla precedente traduzione. Perdendo di vista, purtroppo, la sola cosa importante: se si tratti o meno di una buona traduzione, fa sì che anche le nuove generazioni possano fruire di questo immenso capolavoro della letteratura mondiale.

#SpecialeMERIDIANI - Carver, modello di scrittura antieroica

Se pensiamo ai personaggi dei racconti di Carver è come se pensassimo alla vita di noi lettori, fotografati nell'attimo in cui stiamo per leggere un racconto di Carver. Tutto quello che c’è nella scrittura di Raymond Carver è tutto quello che non c’è nella scrittura degli altri. Ovvero la vita, non sempre mirabolante e degna di nota, spesso assolutamente anonima e non rilevante.

La descrizione dell’attesa, in queste periferie americane senza personalità, è anche la descrizione di noi stessi che guardiamo agire il nostro essere antieroici nella vita quotidiana di tutti giorni. Questo modo di essere "normali", di metterci dall'altra parte, alla finestra a guardare la vita, rappresenta al meglio quello che Carver ha dipinto all’interno dei suoi racconti. 

Per queste stesse ragioni da sempre lo scrittore americano è un esempio di scrittura, anche Murakami lo definisce tale e non esistono aspiranti scrittori che non guardino ai suoi racconti con ferocia e con ammirazione. Carver riesce a raccontarci di queste vite senza un obiettivo, di questi uomini e donne persi nell'anonimato americano, proprio perché anch’egli viene da questo mondo. Lo stesso spazio domestico diventa parte della narrazione, e a sua volta lo spazio è il limite della storia, il limite entro cui quella storia può esistere ed essere raccontata. Raccontando dei loro fallimenti i personaggi si autodefiniscono, si prendono il loro spazio o esistono in uno nuovo, colonizzandolo, come succede ad esempio nel racconto Vicini (Vuoi star zitta, per favore? 1976):

#CriticARTe - "Quello che vorrei dipingere è la luce del sole sulla parete di una casa": una graphic biography su Edward Hopper, il pittore del silenzio

Edward Hopper.
Pittore del silenzio

illustrazioni di Giovanni Scarduelli
testi di Sergio Rossi
Centauria, 2019

pp. 128
€ 19,90 (cartaceo)



Non si considerava un pittore americano, e tantomeno un realista. Era talmente indipendente e sicuro del fatto suo che liquidava le avanguardie storiche del primo Novecento come movimenti sterili e fini a se stessi. Durante i soggiorni di formazione nella vecchia Europa la sua attenzione era per gli artisti meno alla moda: osservava con ammirazione i quadri di Marquet, Vallotton, Sickert e Courbet, ma anche le fotografie di Eugène Atget. Amava dipingere all’aria aperta, eppure le sue scene d’interni, quelle che poi lo avrebbero reso famoso in tutto il mondo, erano frutto di rielaborazioni di immagini fissate nel ricordo e ricreate in mesi e mesi di prove, avendo come modelli solo se stesso e sua moglie Jo. Nemmeno si curava, d’altra parte, di dare troppe spiegazioni su opere e metodo di lavoro, e parimenti ignorava le interpretazioni da parte della critica; la stessa che tante e tante parole ebbe a scrivere sulla sua capacità di ritrarre una nazione e un’epoca pur nella resa perfetta di un’inconfondibile sospensione spazio-temporale, che rendeva enigmatiche le situazioni e misteriose le figure in scena. Si fa fatica a credere che questo sia l’identikit di Edward Hopper (1882-1967), soprattutto se se si pensa a quanto un certo immaginario statunitense – quello urbano, con il suo contrappasso di disagio e alienazione – sia legato ai suoi dipinti. Eppure è proprio così. Oltre gli stereotipi che ne hanno ridotto la maniera a poche formule di facile memorizzazione, e sebbene sia tra i più famosi e rappresentativi artisti del Novecento a stelle e a strisce, Hopper ha ancora molto da rivelare, e una bella biografia illustrata appena pubblicata da Centauria – Pittore del silenzio, esito della collaborazione di Sergio Rossi e Giovanni Scarduelli – è il libro giusto per comprenderne il perché.

Elizabeth Gaskell. Saggi su una scrittrice vittoriana controcorrente: percorsi critici tra opere meno note e spunti sulla narrativa gaskelliana

Elizabeth Gaskell. Saggi su una scrittrice vittoriana controcorrente 
A cura di Francesco Marroni
edizioni Croce, maggio 2019

pp. 220
€ 21,90


A quanto pare in questi giorni ho un po’ di nostalgia per gli anni dell’università, e, nello specifico, per i corsi di letteratura inglese e angloamericana. Lo Speciale Meridiani proposto in occasione dei 50 anni di queste bellissime edizioni mi ha dato modo di ricordare il mio volume preferito della collezione, che mi era stato regalato proprio per festeggiare il buon esito del primo esame all’università di Genova. Ed eccomi che a distanza di pochi giorni mi trovo nuovamente a riandare a quegli anni di studio, scoperta, fatica e appunti, questa volta per via di Mrs Gaskell, una delle voci più interessanti – e solo di recente nota anche al grande pubblico fuori dalle aule accademiche – dell’epoca vittoriana. Avevo scoperto l’autrice proprio durante un corso di Letteratura Inglese e, il caso vuole, nello stesso periodo mi era stata inviata dalla casa editrice Jo March il romanzo di Gaskell “Nord e Sud”, che avevano appena pubblicato. Mi ero immersa con molto piacere, all’epoca, nelle atmosfere e nella realtà culturale di Gaskell, proseguendo negli anni letture e approfondimenti critici, che hanno coinciso con un sempre maggior interesse anche da parte del pubblico non specialistico, grazie soprattutto al lavoro della casa editrice umbra cui si diceva poc’anzi e alla distribuzione italiana di una miniserie dedicata appunto a North and South, tra i romanzi più celebri di Gaskell. Nel percorso di scoperta e studio mi sono imbattuta quindi in un buon numero di traduzioni italiane dei testi di Gaskell (qui, gli approfondimenti sulle varie opere), tra romanzi, racconti, novelle, editi da Jo March ed edizioni Croce per lo più, attenti anche ad offrire ai lettori italiani un adeguato apparato critico e bibliografico utile per inquadrare meglio l’epoca e la scrittrice. Tutto questo per sottolineare, oltre al piacere della scoperta tipico degli anni universitari, come il nome di Gaskell sia diventato in tempi recenti sempre più noto anche al pubblico italiano.

Il cupo scintillio della crociera di "Lady killer" di Elisabeth Sanxay Holding

Lady killer
di Elisabeth Sanxay Holding
Elliot, 2019

Traduzione di Roberta Arrigoni


pp. 172
€ 16,50 (cartaceo)


Le persone in linea di principio non erano malvagie, non erano senza cuore; semplicemente non credevano che certe cose potessero succedere. Uno sparo nella notte era il ritorno di fiamma di un'automobile; un grido d'aiuto era lo schiamazzo di un festaiolo. Mrs Condy stesa a terra con il viso ricoperto di cenere era Mrs Condy che smaltiva una sbronza. (p. 102)
Honey, bella ragazza dall'andatura sinuosa, sta per partire per la sua prima crociera con il marito, Weaver Stapleton. Certo, è innegabile che lui disponga di notevoli mezzi finanziari e il visone che lei indossa e fa risaltare così bene la sua figura ne è la prova. Però, dietro questo timido calcolo, c'era davvero la speranza che tra di loro potesse crearsi un matrimonio fatto di stima e reciproco affetto. Invece lui non perde occasione per darle addosso e ricordarle quanto scarsa sia la sua istruzione e quanto le sue maniere si debbano ancora affinare. Nulla di strano se, durante un viaggio così disastroso, Honey cerchi di svagarsi stringendo amicizia con un'altra coppia in viaggio di nozze. Se poi quella coppia sembra essere avvolta da un'aura di sfortuna e tutto sembri indicare che la povera novella sposina sia in pericolo di vita, la curiosità è ancora più giustificata. Perché su questa crociera dal cupo lusso e dalle relazioni poco limpide c'è un gran gioco di maschere: tutti vorrebbero essere qualcosa o qualcuno che purtroppo non potranno mai diventare.

La perfezione della commedia cosmica: "Il ciarlatano" di Isaac Bashevis Singer


Il ciarlatano
di Isaac Bashevis Singer
Adelphi, 2019

Traduzione di Elena Loewenthal
A cura di Elisabetta Zevi 

pp. 269
€ 20 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


Da tempo non sospetti noi di CriticaLetteraria siamo dei grandi amanti di Isaac Bashevis Singer (come bene possiamo testimoniare qui). Tuttavia per il caso del libro di cui tratteremo, ovvero Il ciarlatano il rischio vero è quello di passare da amanti ad "adepti" dello scrittore pubblicato da Adelphi. Già, perché il romanzo in questione, tradotto magistralmente da Elena Loewenthal, è un vero e proprio piccolo/grande capolavoro che ci consegna non soltanto un narratore brillante e perfettamente a proprio agio con "la trama e l'ordito della grande commedia su carta", ma anche in grado di dispensare anche sublimi riflessioni su Dio, l'universo e il senso stesso della vita, magari in un passaggio rapido o in periodo che, peregrino, "precipita" tra una pagina e l'altra. Singer ne Il ciarlatano si presenta al lettore come "il gran demiurgo della storia" e noi non possiamo che rimanerne affascinati, incantati e, un poco, ossessionati.

#SpecialeSciascia - Il rapporto con la stampa e l’impegno giornalistico

Sciascia iniziò prestissimo la sua collaborazione giornalistica con numerosi giornali locali prima e nazionali poi (l’8 novembre del 1944 su Vita Siciliana appare una nota dedicata a Quasimodo); per un periodo fu anche iscritto all’Ordine dei Giornalisti, ma poi preferì restare un semplice “collaboratore”. I termini di questo rapporto con la scrittura in genere, e con la stampa in particolare, devono essere ricondotti tutti all’esigenza di dimostrare verità nascoste sotto un velo, a volte travestito da sudario.  E si può addirittura datare la sua parabola di scrittore a partire proprio dalla collaborazione alle pagine di alcuni fogli siciliani, se è vero che queste anticipano almeno di sei anni l’esordio letterario del 1950 con le Favole della dittatura.
Forse per tali ragioni, per le quali non è possibile delineare gli aspetti di questo rapporto senza capire le motivazioni intrinseche che lo portano a scrivere è utile indicare i parametri con cui si misura lo scrittore avvicinandosi al ruolo di giornalista.  In lui scrittura letteraria e scrittura giornalistica si mescolano e si contaminano vicendevolmente, beneficiando poi ognuna a suo modo della chiarezza e dello stile che rende analitica e problematica la prima, aperta a impreviste soluzioni e bruschi scarti analogici la seconda (come suggerisce Antonio Di Grado in un saggio del 1986, Leonardo Sciascia, la figura e l’opera, Pungitopo Editrice).

#CritiCOMICS - «Senza sangue» di Baricco diventa una graphic novel di alta qualità


Senza sangue
di Alessandro Baricco
sceneggiatura di Tito Faraci
disegni di Francesco Ripoli
colori di Manuela Nerolini
Lettering di Luca Bertele
Feltrinelli, 2019

pp. 96
€ 16,00 (cartaceo)

Senza sangue è un romanzo breve di Baricco, uscito per la prima volta nel 2002: è un romanzo di vendetta, un tema fondamentale in letteratura, che tuttavia viene trattato con una buona dose di delicatezza. In questo testo – il quinto di Baricco – troviamo molte delle caratteristiche dello scrittore torinese: luoghi che sembrano essere non luoghi (come in Oceano mare), una scrittura leggera ed evanescente con un tocco di surrealtà (come la troviamo anche in Seta), personaggi dai tratti indefiniti descritti con brevi pennellate (come in Castelli di rabbia). È un romanzo che in pochissime pagine riesce a dire molto, in cui a primeggiare è il non detto, o meglio: un enorme background che emerge senza mai essere realmente trattato.

Del mestiere di far libri: Leonardo Sciascia scrittore editore

Leonardo Sciascia scrittore editore 
ovvero La felicità di far libri
a cura di Salvatore Silvano Nigro
Sellerio, aprile 2019 (I ed. 2003)

pp. 334
€ 16 (copertina flessibile)
€ 9,99 (ebook)




Non è un mistero che la storia dell’editoria possa nascondere piacevoli sorprese. È una disciplina, se vogliamo, ibrida, che interessa lettori e studiosi animati da diverse passioni: la storia e la filologia, prima di tutto. Non è un mistero, dicevo, ma spesso ce ne dimentichiamo. Ci dimentichiamo che non solo i libri sono custodi di un’epoca, ma anche le collane, i cataloghi, i premi letterari e le case editrici che li hanno pubblicati lo sono. Le scelte editoriali sono figlie del loro tempo: il modo in cui si facevano i libri cinquant’anni fa era diverso da come si fanno oggi. Diversi i canoni estetici, le competenze, gli stili; diverso il mercato, perché diversi erano i lettori, cioè tutti noi. Quindi, studiare la storia dell’editoria può essere anche un modo di ripercorrere o fotografare un’epoca attraverso una lente originale, non comune, eppure rivelatrice.
Leonardo Sciascia scrittore editore ovvero La felicità di fare libri, pubblicato per la prima volta nel 2003 e riproposto questo 2019 da Sellerio, va ben oltre il nobile e sentimentale intento commemorativo: dei 50 anni della casa editrice palermitana e dei 30 anni dalla scomparsa del suo creatore spirituale, Leonardo Sciascia. Questo bel libro è a tutti gli effetti la fotografia di un momento storico preciso, che copre grosso modo gli anni '70 e '80 del secolo scorso. Esso raccoglie i segnalibri, i risvolti di copertina, le note dell’editore, le avvertenze, insomma una buona parte del lavoro di redazione realizzato da Sciascia per le collane «La civiltà perfezionata», «La memoria», «Quaderni della Biblioteca siciliana di storia e letteratura», «La diagonale», il «Fuori collana» e i due progetti «La noia e l’offesa» e «Delle cose di Sicilia».

Oltre la saga norrena c'è la vicenda di un uomo: "Il vichingo nero" di Bergsveinn Birgisson

Il vichingo nero
di Bergsveinn Birgisson
Iperborea, 2019

Traduzione di Silvia Cosimini

pp. 448
€ 20,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook) 


Se avete amato Vikings (come avete fatto, dico io), forse questo libro non fa per voi. Il vichingo nero è infatti quella ventata di aria fresca che aspettavamo per aggiungere ai molti titoli dedicati alle saghe norrene un testo ben strutturato, dalla forte attendibilità storica, con fonti, mappe e citazioni da altre saghe. Non propriamente un romanzo quindi, ma non per questo meno avvincente delle molte epopee fantastiche dedicate ai vichinghi. Interessante anche il formato scelto dalla casa editrice, diverso da quello con cui Iperborea si è imposta e resa riconoscibile nel panorama editoriale italiano, per permettere una consultazione più agevole degli apparati presenti nel testo.

"Bianco": Ellis tra polemiche, spunti di discussione ed ego

Bianco
di Bret Easton Ellis
Einaudi, 2019

Traduzione di Giuseppe Culicchia

pp. 289
€ 19 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)



Ho amato e odiato questo libro in egual misura. Un po’ come amo e odio Bret Easton Ellis stesso, tra romanzi e tweet. Ma ringrazio il cielo che ci siano personaggi come lui, che non conoscono il finto buonismo, ci forniscono buone ragioni per avviare il dibattito e hanno ancora il coraggio di esprimere le proprie opinioni, anche – e soprattutto – quando sono consapevoli potrebbero essere impopolari. “Opinioni”: potrebbe essere proprio questa la parola chiave per interpretare “Bianco”, che non è un memoir, non è del tutto un saggio, di sicuro è un testo molto personale, non privo di contraddizioni e debolezze, parziale, ovviamente, per sua natura. È un distillato dell’Ellis pensiero, è un viaggio nei ricordi, nel suo mondo tra privato e pubblico, sono frammenti della sua vita e carriera – ma ben lungi dall’essere strutturati in forma di biografia ragionata – è il suo sguardo sulla società a partire da una sensazione di fastidio su dinamiche e stereotipi tra realtà e web.
Non sempre mi sono trovata d’accordo con le opinioni di Ellis, ma sempre in ogni caso ne apprezzo l’onestà nell'esprimere senza filtri ciò che pensa, qualità in cui non è tanto facile oggi imbattersi, specie quando hai un ruolo – e, di conseguenza, un’immagine – pubblica da difendere. Le reazioni a questo libro sono arrivate presto, da una parte all'altra dell'oceano e, neanche a dirlo, sono diametralmente opposte: si dividono in sostanza tra chi celebra la libertà di espressione dimostrata da Ellis e chi lo accusa di essere un narcisista, lagnoso e autoreferenziale. La verità probabilmente sta in mezzo, anche in questo caso, perché è vero che a tratti il libro è un po' troppo autoreferenziale, il tono si fa talvolta troppo lamentevole e nostalgico, le argomentazioni non sempre sufficienti e il campo di osservazione (gli Stati Uniti, in linea di massima) troppo circoscritto, ma d'altra parte la prima cosa che mi ha colpita è, ancora una volta, l'onestà con cui l'autore esprime le proprie opinioni, appunto, a partire dal presupposto che sono assolutamente soggettive, parziali. Per contro, non c'è praticamente nulla di Ellis scrittore come lo conosciamo, né mi sentirei di definirlo un intellettuale nel senso canonico del termine, proprio per la visione troppo ego riferita e le argomentazioni a sostegno delle sue idee a tratti un po' troppo scarne, specie su certi argomenti.

Infinità provvisorie nel canzoniere di Franco Arminio: "L'infinito senza farci caso"

L’infinito senza farci caso. 
Poesie d’amore
di Franco Arminio
Bompiani, 2019

pp. 127
€ 14,00 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)


Ho conosciuto Franco Arminio per Cedi la strada agli alberi e Resteranno i canti, per l'incisività di parole che levavano un potente inno alla vita, che celebravano la forza della poesia e ci richiamavano alla responsabilità del nostro stare al mondo. La nuova raccolta, recentemente edita da Bompiani, riprende in parte queste tematiche, ma le declina in termini differenti. L'obiettivo è quello di farci riflettere su un aspetto suggerito già dal titolo: la nostra esperienza dell'infinito, che però sempre presenta un limite, nella nostra incertezza, nella distrazione, nella volatilità dei nostri sentimenti. I nostri sono infiniti sfiorati "senza farci caso", sempre provvisori, come provvisorie sono le intimità rappresentate nei testi. Non c'è infatti un unico amore, un unico modo per rapportarsi con l'alterità: "l'amore è una dimensione [...] locale, si svolge sempre in un luogo ed è sempre inedito ogni suo gesto" (p. 122). Ecco perché la raccolta ne mostra le sfaccettature, che sono tante quante sono gli incontri, le notti, i corpi toccati, gli sguardi con cui si è affrontato l'altro. Le mostra in una poesia i cui frammenti vengono ricomposti in un mosaico coerente, in un gioco di riflessi di un ideale comune. L'invito mosso al lettore è quello di aspirare all'eccesso – di vita, di cuore – perché in amore non è data mediocrità, perché solo un atteggiamento che ambisce al superamento degli ostacoli, che ricerca l'infinità, garantisce l'accesso alla pienezza. 
La poesia, cioè l'arte di cantare la bellezza e il terrore di essere al mondo, parteggia per la ricerca di nuovi modi di percepire noi stessi e gli altri. L'amore per essere nuovamente vivo deve portare dentro l'infimo e l'immenso, non può stazionare nelle righe dell'uomo intermedio. (p. 121)

La violenza degli agiati: l'esordio di Patrizio Bati con «Noi felici pochi»

Noi felici pochi
di Patrizio Bati
Mondadori, 2019

pp. 168
€ 17,00 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)

Non lo capiva quel coglione che sarei stato un incosciente a far nascere un bambino prima di potergli garantire tutto quello che avevamo avuto noi? (p. 97)
Noi felici pochi è un romanzo strano, se diamo credito alle recensioni che si trovano online (fra tutte spiccano quella di D’Orricosul Corriere e quella di Insolia su L’Indiependente). Ciò che colpisce è il fatto che Patrizio Bati è uno pseudonimo volto a ricalcare il nome del protagonista di American Psycho che consacrò a suo tempo la penna di Bret Easton Ellis, così come che, come si legge a p. 6, «tutte le persone di cui si parla sono state realmente aggredite e malmenate». In effetti le due cose – anonimato e veridicità degli eventi – sembrano connesse: il fatto che i pestaggi e le aggressioni narrate nelle 170 pagine siano realmente accadute sembra giustificare in qualche modo la necessità dell’anonimato. Ma se ciò fosse vero, sorge spontaneo chiedersi, sarebbe il caso di pubblicare un libro del genere? Perché così messa la cosa risulta una specie di confessione, senza tuttavia la necessità della riservatezza dovuta al segreto professionale di uno psicologo o di un prete.
Diamo dunque per scontato che ciò che stiamo leggendo sia un artificio narrativo, un espediente volto a creare un alone di mistero intorno al fantomatico Bati (il quale ha anche un profilo Facebook a dir poco inquietante), e non un romanzo-verità, ché altrimenti sarebbe forse il caso di agire in ben altra direzione.