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#IlSalotto - Esplorare l'inspiegabile: intervista a Silvio Raffo

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Foto ripresa da SempioneNews
Di Silvio Raffo ci sono piaciute le ricorrenze e le variabili; una certa riconoscibilità nello stile, ma anche la disponibilità a spaziare tra i generi. I suoi romanzi hanno portato elementi di novità in una forma dall’eleganza classica, fuori dal tempo. Le vie scelte non sono sempre le più agevoli, nella narrativa come nella saggistica. Tutto, nella sua opera, parla di una personalità spiccata, autonoma, che rifugge alla consuetudine. Ne Il segreto di Marie-Belle (qui la recensione) e nel precedente La voce della pietra  (qui la recensione), la sua prosa tersa ci accompagna ad esplorare le ombre che si annidano nell’animo umano, rivelando gli effetti tragici delle buone intenzioni in coscienze troppo fragili. Le domande suscitate dalle sue storie, soprattutto nelle suggestive connessioni che creano con la sua vita e la sua più ampia produzione critica, non potevano trovare risposte adeguate se non nel confronto col diretto interessato, che si è prestato alla nostra curiosità con immediata e totale disponibilità.

Cominciamo da Il segreto di Marie-Belle, che mi ha detto essere un'opera a cui tiene particolarmente, soprattutto per quanto riguarda il personaggio di Aurelia. Vuole spiegarcene il motivo? 
Aurelia Raimondi era una signorina di sentimenti e modi squisiti, mia vicina di casa nel periodo (1990-2000) in cui vivevo a Brusino Arsizio, un irreale villaggio del Ticino subito dopo la frontiera. Nel corso della sua lunga vita sono certo che sia sempre rimasta fedele al suo credo: il servizio nei confronti dei soggetti bisognosi d'aiuto, fisico e psicologico. 
Con lei ho avuto un rapporto affettivo molto profondo; fra le altre cose mi raccontò della sua pupilla Rose-Marie, figlia di un avvocato svizzero, che aveva allevato lei essendoci dei problemi con la madre separatasi dal marito. Purtroppo Rose-Marie, pur essendosi laureata in medicina ed esercitando la professione con un certo successo, non era mai riuscita a guarire da una forma depressiva che l'aveva fatta precipitare nel tunnel della droga. All'ultima telefonata – poiché si sentivano spesso pur abitando lontane – Aurelia era corsa in suo aiuto, ma arrivando troppo tardi: Rose-Marie si era già tolta la vita. Questo dolore ha segnato il resto della sua esistenza come un marchio indelebile. Ebbene, prima di morire alla Casa di riposo che descrivo nel romanzo, Aurelia mi espresse un desiderio: sarebbe stata felice se io avessi scritto la loro storia. Potevo non esaudirla? 
Naturalmente nella realtà non ci sono stati delitti, solo il suicidio della pupilla. 
Nel romanzo ho fatto diventare Marie-Belle un'attrice, e Aurelia una morbosa persecutrice capace di uccidere chiunque minacciasse di sottrarle la sua "bambina". Ho inventato i personaggi dell'autista e di Max Cherubino, il padre e il fratellastro restano invece più o meno quelli di cui mi parlava Aurelia.

Mi ha fatto cenno a una tendenza a infilare ovunque il funesto. Da dove deriva? Quali sono i suoi modelli letterari? 
Essendo da sempre un lettore appassionato di gialli, della scuola femminile americana (Mignon G. Eberhart e Mary Roberts Rinehart in primis) e inglese (Agatha Christie, Elizabeth Ferrars), difficilmente riesco a liberarmi da quel retaggio. Il mistero e in particolare il delitto esercitano sulla mia fantasia un fascino inestinguibile. Le atmosfere gotiche di quei romanzi (alla Rebecca la prima moglie, per intenderci, o tornando indietro a Jane Eyre, ma anche e soprattutto a Giro di vite di James) hanno sul mio gusto molta presa perché la mia immaginazione si è sempre alimentata del fantastico-visionario. Il cinema ha avuto altrettanta influenza sulla mia formazione: da ragazzino la visione di questo genere di film (Psycho, Che fine ha fatto Baby Jane? e moltissimi altri B-movie in bianco e nero) era, insieme ai libri e a mia madre, la mia unica compagnia. Non sono mai stato un ragazzo “normale”, detestavo i miei coetanei e frequentavo volentieri persone adulte, mai soggetti della mia età.
L'incontro fondamentale della mia adolescenza? Senza dubbio quello con la mia professoressa del ginnasio, una donna di straordinaria intelligenza, ovviamente single, che mi rivelò a me stesso facendomi capire che la mia strada, la mia salvezza, poteva essere solo la letteratura (e l'insegnamento). La Signorina – così bisognava chiamarla – assomigliava molto a Greta Garbo e aveva un modo d'insegnare simile al ben noto prof de L'attimo fuggente. Purtroppo fu allontanata dalla scuola per un sospetto di plagio o liaison poco ortodossa con un allievo (tutto fumo in realtà...); la separazione da lei fu per me un trauma, ma come ho sempre fatto nella mia vita, ho saputo porre rimedio alla perdita, diventando suo amico nel corso degli anni più intimamente di chiunque altro… Era stata trasferita al Berchet di Milano, ma aveva mantenuto la casa a Varese.
Lei era la severa giudice di ciò che scrivevo. Il mio romanzo da lei prediletto era Virginio, le prodigiose avventure di un bambinaio androgino. Ha apprezzato anche La voce della pietra, ma meno. Purtroppo non ha fatto in tempo a leggere Il segreto

Una delle costanti delle sue opere sono le ambiguità all'interno dei rapporti, penso in particolare ai rapporti di accudimento (ne La voce della pietra e Il segreto di Marie-Belle questo è lampante, seppur nelle diverse declinazioni), ma non solo. Anche nella sua edizione delle poesie di Lord Alfred Douglas la sezione introduttiva, secondo me particolarmente interessante, vuole problematizzare e mostrare le ambivalenze (e l'assenza di una verità unica e certamente definibile) nella relazione tra Wilde e Bosie. In che modo il tema la interessa? Cosa le preme mettere in evidenza?
Il tema ricorrente dell'ambiguità nel rapporto di accudimento è probabilmente spiegabile con la forte influenza esercitata dalla Signorina nei miei confronti. Beninteso, non si trattava di tirannide, essendo lei una persona di buona natura e non portata alla sopraffazione (casomai all'illuminazione dell'anima altrui). Ero io a desiderare fortemente il suo interesse, la mia era però non un'infatuazione né una forma di venerazione infantile, piuttosto una strana sorta di riconoscimento, un po' come con Emily Dickinson, che negli stessi anni entrò stabilmente nella mia vita per non lasciarmi mai più. Sì, la triade è stata questa: mia madre, la Signorina, Emily. 
Dopo, non è più successo nulla, sostanzialmente. Chi ha consumato tutta la passione che gli pulsava dentro in anni così fervidi e con persone o personaggi così forti, per il resto della vita difficilmente troverà qualcosa di altrettanto sconvolgente. Tutti gli altri incontri, al confronto di questi tre, sono stati sempre di poco spessore. Ho amato moltissimo alcuni allievi che in un certo senso mi consentivano di rivivere il mio rapporto con la Signorina, ma l'amore vero, quello che si struttura nel quotidiano con un compagno di viaggio per la vita, non l'ho mai conosciuto.
Ciò che mi preme mettere in evidenza nell'analisi del rapporto fra un adolescente/giovane e una persona adulta/matura è la scintilla che unisce due anime al di là del fattore meramente cronologico. Quando la "coppia" è costituita da persone della stessa età per me perde d'interesse. Dev'esserci una distanza, e un riconoscimento dell'adulto nel giovane e viceversa. È qualcosa che non ha nulla a che fare con il sesso, sempre assente nelle mie storie. È qualcosa di molto più arcano, un sentimento nelle sue radici ignoto anche a chi lo prova. In altre parole, non m'interessano i rapporti spiegabili (con l'attrazione sessuale, le affinità spesso fittizie, etc.), m'interessa l'enigma non risolvibile di un legame in cui l'uno si riconosce inestricabilmente congiunto all'altro. Una specie d'incantesimo? Sì, esattamente. Giovevole o funesto? Entrambe le definizioni sono giuste. L'ossimoro è la dimensione più vera.
Anche per Oscar e Bosie è stato così: in Bosie Wilde senz'alcun dubbio rivedeva il suo Dorian, e Bosie in Oscar il suo modello ideale di letterato e dandy, ma c'era qualcosa di più sottilmente misterioso a legarli, un'aspirazione al tormento viva in entrambi più dell'edonismo che sembrava regolare i loro costumi. Molto rivelatrice a questo proposito la poesia “The Travelling Companion”, nel verso ricorrente “But Sorrow came and led me back to thee” (“Venne il Dolore e mi condusse a te”).

Protagoniste dei romanzi, ma anche delle sue monografie letterarie, sono spesso donne dalla spiccata intelligenza, dalla sensibilità marcata, forti e fragili al tempo stesso, per la cui complessità lei sembra nutrire grande ammirazione. Mi sbaglio? Esiste realmente una predilezione letteraria per le poetesse? A cosa è dovuta? 
Sì, le donne sono più interessanti psicologicamente, hanno una marcia in più nel rilievo delle sfumature. Ho sempre prediletto scrittrici e poetesse. Certi autori anagraficamente maschi (Proust, Pascoli, James) sono psicologicamente parlando femminili, sanno penetrare nei meandri della psiche con sottile maestria. Alle donne questo viene per così dire naturale. Anche nella perfidia le donne sono imbattibili. Basti pensare, nella narrativa, a figure come Carson McCullers o a Flannery O'Connor.

C'è qualche progetto letterario a cui tiene particolarmente e di cui ci vuole parlare?
Sto lavorando a un nuovo romanzo, di cui non parlo per scaramanzia. Per quanto riguarda la traduzione, mi sto occupando di Dante Gabriel Rossetti. La poesia non mi abbandona mai. Il mio ultimo libro di poesie è La ferita celeste, che con Corpo segreto va per così dire a braccetto: anche in poesia sono un outsider: endecasillabi, rime, e un lessico assolutamente lontano dalla prosaica rudezza e dallo squallido realismo della maggior parte dei miei contemporanei.


Intervista a cura di Carolina Pernigo