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Pillole d'autore - L'"adversa e dispietata stella" di Isabella di Morra

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Il parco letterario Isabella Morra a Valsinni (MT)
Isabella di Morra è stata una poetessa italiana del Cinquecento. Quel Morra, non indica la provenienza sua, ma della sua famiglia, originaria di un paese dell’Irpinia che nel Novecento ha mutato il nome in Morra De Sanctis, in onore di un altro suo illustre personaggio, il celebre critico Francesco. Isabella, invece, nacque nell’odierna Valsinni, in Basilicata, intorno al 1520. E lì morì, soltanto venticinque anni dopo. 

Trascorre la sua breve esistenza a scrivere poesie rinchiusa nel castello di famiglia. Il padre – che lei ama e ammira molto – è un barone politicamente legato ai francesi. Quando il regno di Napoli viene conquistato da Carlo V lascia la casa e la famiglia per trasferirsi a Parigi alla corte di Francesco I di Francia, portando con sé il figlio Scipione, a cui Isabella è molto legata. Un trasferimento non particolarmente doloroso per il barone, che presto si dimentica della figlia. Le sorti della vita di Isabella passano così ad essere di competenza degli altri suoi fratelli che la relegano nel castello, di fatto impedendole ogni rapporto col mondo esterno. Isabella ha solo due legami: col suo precettore – che le fa leggere Dante e Petrarca – e, per corrispondenza, con Diego Sandoval de Castro, un nobile di origine spagnola nonché poeta. Isabella non poteva certamente spedire lettere a un uomo, e infatti le indirizza alla moglie del poeta, Antonia Caracciolo. Che il rapporto tra i due fosse di tipo amoroso non è mai stato dimostrato, e anzi è fortemente improbabile. Plausibilmente Isabella vede in Diego una preziosa finestra verso il mondo esterno, un intellettuale – l’unico – con cui discorrere. Ma in ogni caso la storia da qui è tristemente intuibile: i fratelli scoprono le lettere, credono in una relazione amorosa – e con uno spagnolo per di più – e compiono una carneficina, uccidendo prima il precettore, reo di essere il messaggero di quella relazione, poi Isabella – pugnalata –, e infine Diego.
L’assassinio fa scalpore, non tanto quello di Isabella e del precettore, quanto quello di Diego, che era pur sempre un nobile spagnolo ucciso da dei filo-francesi. Ma le colpe degli assassini vengono annacquate grazie all’influenza di cui gode in Francia il loro padre, che – probabilmente più insofferente per il disagio di ritrovarsi dei villani come figli che addolorato per la morte di Isabella – fa loro una ramanzina e li chiama con sé a Parigi. 

I soli scritti rimastici di Isabella di Morra sono tre canzoni e dieci sonetti. E bastano per poterla annoverare tra le grandi scrittrici italiane del Cinquecento. Le sue rime sono pubblicate per la prima volta nel 1552 da Ludovico Dolce, ma diventano oggetto di studio nel Novecento: il primo a occuparsene è Benedetto Croce. Oltre a vari studi critici, a Isabella di Morra sono oggi dedicati film e premi letterari.  Il suo canzoniere è stato perfino tradotto in inglese, in una versione bilingue edita nel 1998 da Bordighera Press, a cura di Irene Musillo Mitchell. 

Il castello di Isabella
Le poesie di Isabella parlano di pene d’amore – un topos letterario, nel suo caso, più che la trasposizione in rima di un’esperienza vissuta – dell’odiata casa/tomba, della speranza nel ritorno dell’amato padre. La critica l’ha definita una poetessa petrarchista, ma si sa che le etichette stanno sempre molto strette alla letteratura, e infatti il petrarchismo non è l’unica possibile lente di analisi della poesia di Isabella, che anticipa temi che saranno di Tasso e poi di Leopardi. Quello che è straordinario è che l’opera di Isabella brilla per una sensibilità e uno stile sorprendenti considerando che entrambi sono maturati nella clausura di un castello. 

Non si conosce l’ordine in cui la poetessa ha disposto le sue rime. Ripropongo qui quella che nella sistematizzazione ad opera di Benedetto Croce viene indicata come terza. 
Nello spazio di un sonetto emergono netti i temi ricorrenti della poesia di Isabella: la speranza che il padre torni a salvarla da quella condizione di infelicità e l’odio per il “denigrato sito”. Il trauma per l’abbandono paterno ricorda gli abbandoni più celebri del mito, quelli di Arianna e di Penelope: anche loro odiavano il mare e – come lei – piangevano per una vela che non appariva mai all’orizzonte. 


Edizione di riferimento:
Benedetto Croce,
Isabella di Morra e Diego Sandoval de Castro
Sellerio, 1983
D’un alto monte onde si scorge il mare 
miro sovente io, tua figlia Isabella, 
s’alcun legno spalmato in quello appare, 
che di te, padre, a me doni novella. 
Ma la mia adversa e dispietata stella 
non vuol ch’alcun conforto possa entrare 
nel tristo cor, ma, di pietà rubella, 
la calda speme in pianto fa mutare. 
Ch’io non veggo nel mar remo né vela 
(così deserto è lo infelice lito) 
che l’onde fenda o che la gonfi il vento. 
Contra Fortuna alor spargo querela 
ed ho in odio il denigrato sito, 
come sola cagion del mio tormento. 





Serena Alessi
@serealessi