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Persone che potresti conoscere: Sfar ci spiega perché uno schermo (non) "brilla più del mondo"

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Persone che potresti conoscere
di Joann Sfar
Edizioni Clichy, 2019

Traduzione di Tommaso Gurrieri

pp. 269
€ 17 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)


Cliccare sul «Persone che potresti conoscere» di Facebook mentre mi mostra la foto di Lili è proiettarsi in una relazione d’amore che gli esseri reali non possono offrire, semplicemente perché non ha ancora avuto luogo ed è il nostro desiderio che ne colma i vuoti. (…) se quindi l’immagine ricevuta ha più importanza dell’immagine vissuta e provata, ci convinceremo che le nostre vite non sono niente. (p. 77)
Joann Sfar è un celebre fumettista francese prestato da qualche anno al romanzo. Persone che potresti conoscere racconta di Joann e di una donna misteriosa, Lili, conosciuta solo tramite Facebook, con la quale intreccia una relazione virtuale soffocante e burrascosa in un momento della sua vita segnato dalla perdita di un’altra donna (“il gingillo”), che lo ha mollato dopo anni di vane promesse di lasciare il marito.

Mi sono apprestata a leggere quest’opera con la mente volutamente sgombra da qualsiasi possibile condizionamento: non conosco i precedenti lavori di Sfar, non ho letto il suo primo romanzo (Lui era mio padre), non ho voluto nemmeno cercarlo (appunto) su Facebook, vedere la sua faccia sullo schermo del mio smartphone, dentro il contorno rotondo di una foto profilo sul social network più popolare dell'ultimo decennio.
Non volevo andare a cercare, dentro il libro, rimandi forzati ad altre opere, né inserirlo in un solco professionale definito.
Persone che potresti conoscere si presenta come una storia leggera, dissacrante, a tratti davvero spassosa e a tratti confusa (per volontà dell’autore): dietro questa apparenza di semplicità, si nasconde un romanzo che ha un animo duale. In primo luogo, il dualismo è “fisico”, concreto: per quasi tutta la prima metà del libro, la storia non comincia. L’autore tentenna, si abbandona a digressioni, tergiversa; il lettore, nel frattempo, si agita, comincia a sentire un po’ d’ansia, d’impazienza: c’è questa misteriosa Lili che ha combinato qualcosa di grosso, e si aspetta che la storia inizi davvero, che l’autore racconti. Ma non lo fa. Per oltre ottanta pagina, Sfar ci parla di cani, di rimpianti, di lutti familiari, di figlie sagge e poi di nuovo di cani (un leit motiv della narrazione). Allora, pian piano, il lettore getta la spugna, abbandona l’attesa, si mette comodo… ed è a quel punto, un po’ come accade nella vita quando si smette di aspettare qualcosa, che la storia comincia davvero.
Il dualismo è poi rappresentato dalla capacità di Sfar di portare avanti una narrazione leggera, condita di un umorismo irresistibile e un gergo spartano che avvicina lettore e narratore, ponendoli idealmente l’uno di fronte all’altro al tavolino di un grazioso bar parigino, e contemporaneamente una riflessione sensata, lucida ed equilibrata su un ampio spettro di argomenti che spazia dall’attuale deriva del rapporto tra uomo e tecnologia:
Mio figlio ha tredici anni e quando gioca davanti al suo schermo parla soltanto con gente che ha una trentina d’anni. (…) Partecipa alle loro conversazioni da grandi e li consiglia sulla loro vita (…) Sì, è formidabile. A parte il fatto che quando mio figlio deve tornare nella realtà non sa più bene che discussioni avere con i giovani della sua età. Non sa più abitare il mondo vero. (…) Non sono stato capace di trovare una soluzione a questa cesura perché lo schermo brilla più del mondo (…) (p. 191)
…alla funzione catartica dell’arte e della letteratura:

Perché il reale fa troppo male, e quindi si ha urgente bisogno non di dargli una bellezza, chi se ne frega della bellezza, ma di circoscriverlo in una forma. (…) Il quadro disegnato o dipinto o filmato, oppure la struttura di un libro, danno un’architettura al dramma. (p. 68)
Si tornava alla propria vita con la diffusa sensazione che quella menzogna, perché il teatro non è nient’altro che questo, avesse almeno in parte risolto i nostri problemi segreti. A teatro o in un romanzo o in un film, non c’era nemmeno bisogno di nominare i nostri problemi (…) gli eroi impersonavano figure talmente essenziali da diventare potenti veicoli nei nostri miseri percorsi verso la verità del mondo. (pp. 81-82)
Sempre due sono, inoltre, i “ritornelli narrativi” che dominano il romanzo: dapprima, il rapporto di Joann con i cani, come chiave di lettura dell’elaborazione (o, meglio, della non elaborazione) da parte del protagonista del lutto per la morte della madre. Joann vive la continua ricerca di un cane da amare; ma i due tentativi di adozione che mette in atto terminano entrambi in un insuccesso: Snoopy, il cane che prende per i suoi figli, viene in seguito lasciato ai genitori della ex moglie (che “hanno il giardino”); Marvin, il bull terrier che adotta per sé, torna dall’allevatrice dopo cinque mesi di inutili tentativi di addestramento per evitare che uccida i gatti di casa.
I cani sono per Sfar il simbolo dell’irrisolto, dell’incompiuto, di quello spazio interno in cui indugiamo per crogiolarci tra i rimpianti:
Ogni serie di fumetti non finita, ogni film non finanziato, ogni promessa di «Sì, andremo alla settimana bianca» quando so benissimo che dirò: «Lasciatemi in pace, devo disegnare», ognuno di quei momenti in cui mi rifugio nei miei sogni, sento un cane abbandonato che mi guarda con ansia. (p. 65)
 Vi hanno mai dato questa spiegazione per rifiutarvi un animale? «Non bisogna prendere un cane perché poi si sarà troppo tristi quando morirà». Detto in una famiglia in cui la mamma è appena morta, questa sentenza acquisisce un sapore particolare. (p. 55)
Ecco allora che, volendo spingersi un po’ oltre nell’applicazione di una psicologia forse un tantino approssimativa, il rapporto irrisolto con i suoi cani replica nel protagonista quella relazione interrotta bruscamente con una madre morta giovanissima e troppo presto perché egli possa ricordarla.

Il secondo Leitmotiv della narrazione è rappresentato dalla frase: “Mi piace. Ma mi sento in colpa”. Questa esperienza dicotomica di piacere e colpa assume a volte contorni grotteschi ed esilaranti, ma è in generale l’espressione di un perpetuo conflitto interiore, che risulta essere sempre più comune in un mondo come il nostro, dominato dalle contraddizioni: prima fra tutte, quella rappresentata dalla virtualità e dalle sue disastrose conseguenze (non chiare, non prevedibili, ma assolutamente reali) sulla vita degli individui.
Il soggetto non è soltanto il cane Marvin o non soltanto Lili. Il soggetto è Facebook e la promessa che le immagini offrono. Il cagnolino di Facebook, la bella ragazza di Facebook, e per finire il massacro di Facebook saranno sempre più attraenti dei drammi vissuti e provati nelle nostre minuscole vite. Perché dietro a quelle immagini, nella gioia e nell’orrore, si celano promesse più grandi di noi. (p. 77)


Barbara Merendoni