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#CriticARTE – Con Orlando, fine dei giochi.

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Giocando con Orlando. Assolo 
con Stefano Accorsi
regia di Marco Baliani

Teatro Nuovo (Verona)
16-21 gennaio 2018

Attenzione: segue pezzo di natura fortemente autobiografica. Credo di essere stata una delle poche persone in Italia ad essere davvero felice del mancato compimento del nuovo spettacolo dell'insuperabile duetto Baliani/Accorsi. 
Come tutti, mi ero procurata per tempo i biglietti per Favola del principe che non sapeva amare, ispirata a Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile. Come si poteva fare altrimenti, del resto? Sono cresciuta in adorazione di Stefano Accorsi. Mi piaceva giovane e ribelle in Radiofreccia, l'ho amato più serio e tormentato in uno dei film che tuttora staziona in vetta alla mia personalissima classifica, Le fate ignoranti. Non potevo perdere l'occasione di vederlo da vicino, dal vivo, almeno una volta. Sarei andata, detto tra noi, anche se avesse interpretato Cappuccetto Rosso (tragica storia di decadenza giovanile con morale conclusiva). 
Quando è stato comunicato, a quattro giorni dalla prima, che lo spettacolo tratto da Basile non sarebbe andato in scena, c'è stato un momento di sconcerto generale. Non erano riusciti a prepararlo in tempo, dicevano, non volevano fare un torto agli spettatori proponendo una rappresentazione assemblata frettolosamente, a scapito della qualità. Avrebbero quindi proposto, in alternativa, un testo già noto, Giocando con Orlando. Assolo. 
Nel leggere l'articolo, mi sono fermata a "Giocando", perché il seguito lo conoscevo. Sono anni che riguardo, entusiasta, Accorsi e Baliani che giocolano con il testo dell'Ariosto nella versione riproposta e immortalata da Rai5. Sono anni che li porto con me in classe, perché mi aiutino a trasmettere ai ragazzi di terza superiore un'idea di quale siano la forza e l'attualità del poema ariostesco. La coppia è straordinaria, anche penalizzata dal filtro dello schermo televisivo: l'intensità poliedrica di Accorsi, pronto a reinventarsi di minuto in minuto in ruoli diversi e spesso opposti; lo sguardo sornione di Marco Baliani, regista e interprete ugualmente brillante. Con verve e intelligenza i due si immergevano nell'Orlando Furioso, manipolandone funambolicamente i versi, facendone rivivere lo spirito e il gusto per la narrazione, riportando alle labbra quel sorriso avvinto che doveva, anche nelle intenzioni dell'autore, accompagnare lo svolgimento della storia, o meglio, delle storie. 
Ero quindi emozionata come una bambina alla prospettiva di vederlo dal vero, su un palcoscenico e senza mediazioni, con buona pace del Basile. Avrei dovuto leggere meglio (la solita, vecchia storia delle postille scritte in piccolo). Mi ero fermata, si diceva, a "Giocando", avevo indovinato "Con Orlando", non avevo minimamente sospettato l'"Assolo". Ci ho messo circa tre minuti a capire, dall'inizio della declamazione. Ne ho persi altri due a preoccuparmi per i miei compagni di ventura, quei poveri ignari, estranei alle gioie della letteratura, che avevo trascinato con me promettendo dialoghi vivaci e risate a profusione. Poi, finalmente, mi sono immersa nell'esibizione, ripromettendomi di risolvere in seguito il fattaccio del millantato credito. 
E la verità, dura da ammettere, è che al di là di ogni pregiudizio (altrui) Stefano Accorsi è stato meraviglioso anche da solo. Con incredibile naturalezza si faceva domande che avrebbe dovuto porgli Baliani, con uguale serenità si dava le risposte. Con uno sforzo doppio (quello di recitare due ruoli, quello di occupare da solo il doppio dello spazio sul palco) per più di un'ora ha ammaliato il suo pubblico, dando prova di resistenza fisica e grande abilità tecnica. Lasciato a se stesso, si è offerto alla platea con generosità esemplare, senza ritrosie né stanchezza evidente, accompagnato dalla sola presenza dei colossali cavalli di Mimmo Paladino. Con la forza della voce e la gestualità sempre eloquente, ma mai eccessiva, ha evocato in scena "le donne, i cavalieri, le armi, gli amori". Abbiamo ritrovato Sacripante, con il suo desiderio grottesco e irrefrenabile; la valorosa Bradamante e il suo Ruggiero (con la parte un po' caricaturale che a tratti gli tocca anche nel poema); e ancora Astolfo, Atlante e Alcina, il nano Brunello, il giovane Medoro... abbiamo intravisto Angelica, troppo veloce nella sua fuga per poter essere davvero inquadrata, e abbiamo riconosciuto un Orlando prima illuso, poi disperato, poi spaventoso in una follia tinta di rosso, con un volto reso maschera sanguinaria dall'uso delle luci e dall'espressività violenta dell'attore. L'abbiamo visto disgregarsi sotto i nostri occhi e siamo rimasti protesi in avanti, con il fiato sospeso, fino allo scioglimento della tensione. Accorsi è il mattatore che, con il fluire sicuro della parola, riesce a dipanare i fili complessi del narrare ariostesco, rendendolo accessibile anche a un pubblico non esperto, riportandolo a un presente in cui la vita dell'individuo è ancora, in sostanza, un vagare disordinato, in una selva, alla ricerca di qualcosa che non si può avere. Per qualcosa che si perde rispetto al passo a due con Baliani (una maggiore comicità, una maggiore interazione con il testo), qualcosa si guadagna: una prestazione attoriale di livello, se possibile, ancora superiore e la densità di una rappresentazione che non fa sconti e punta dritta alla sua meta, senza diversioni. Sarebbe valsa forse la pena allora di cambiare il titolo, perché qui non si gioca quasi più. Rimane sulla scena la serietà con cui un uomo dà voce ad altri uomini, con cui restituisce loro la dignità che li contraddistingueva già nel poema di Ariosto. Con cui rende omaggio alla grande letteratura nell'unico modo possibile. 

Carolina Pernigo