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#CriticaNera - Un "Tempo da elfi" senza tempo e senza elfi

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Tempo da elfi
Francesco Guccini e Loriano Macchiavelli
Giunti, 2017

301 pp.
€ 18,00



Questo libro ha una copertina fantastica: questo è il primo pensiero che ho avuto stringendo fra le mani il volume di Guccini & Macchiavelli. Pur sapendo che si trattava di un giallo sul modello "caccia all'assassino", non potevo non farmi coinvolgere dalle sensazioni che una copertina così evocativa sapeva richiamare, legandole soprattutto alle atmosfere fantasy a cui strizza gli occhi.
E in effetti realtà e fantasy si mescolano in questo romanzo perché gli elfi che abitano il paesino di Casedisopra, dispero fra i boschi e le montagne dell'Appennino, prendono il proprio nome dall'inarrivabile mondo tolkeniano, immaginario da cui hanno tratto uno stile di vita basato sulla fruizione dei prodotti della natura, sullo scambio equo di oggetti e sul non utilizzo della tecnologia. Le piccole comunità di elfi convivono con quelle dei montanari, e su questo fragile equilibrio si gioca buona parte dell'indagine e delle tematiche del libro. È un mondo, quello (ri)creato dalla coppia G&M, lontanissimo dagli ambienti urbani, un mondo che quasi sembra essere scomparso e che a sua volta vuole dimenticare i ritmi frenetici, l'inquinamento e le problematiche che avvolgono da tempo le città. Citando la bandella, «le stagioni si avvicendano sempre uguali a Casedisopra», e questa è di fatto la sensazione dominante: un luogo senza tempo, fermo a un periodo quasi-storico sospeso in qualche punto del novecento precedente alla grande industrializzazione. I boschi e le montagne dominano, insomma, lo sguardo del lettore, che può percepire il profumo dei funghi e lo scorrere dei ruscelli emergere dalle pagine.
Ma se copertina e ambientazione sono i punti di forza di Tempo da elfi, lo stesso non si può dire degli altri elementi del libro. Partiamo dalla trama e dai personaggi: considerando che un giallo senza troppe pretese ricade dentro uno schema piuttosto standard (assassinio, investigazione, false piste, colpo di scena, individuazione del "cattivo", risoluzione), il vero momento su cui far perno spesso sono la caccia all'assassino, il tipo di delitto o la contrapposizione investigatore/criminale. Ebbene, qui tutti gli elementi descritti non riescono a trapassare la carta stampata e sembrano anzi restare sullo sfondo di quelle montagne e di quei boschi che – come sto facendo io in questa recensione – continuamente ritornano. Complice anche un mancato approfondimento dei personaggi, quasi tutti appena abbozzati (ma qui ci torno a breve), il tutto sembra non decollare. Le peregrinazioni di Marco Gherardini, alias l'ispettore Poiana della Forestale di Casedisopra, non riescono ad affascinare: la sua non è una personalità travolgente ma, al contempo, la sua semplicità non sembra neanche ricercata, desiderata. È un ragazzo comune, che agisce per un non precisato senso del dovere (non precisato nemmeno a lui, cosa che emerge alla fine quando, interrogato sul perché si sia sbattuto tanto per risolvere un caso che non lo coinvolgeva più, risponde: «Non lo so»); ma questo senso di inadeguatezza non viene alla luce con la forza giusta, se non quando si parla (e accade spesso) dello smantellamento della Forestale. Ecco allora che diversi personaggi acquistano un vigore temporaneo, che si spegne appena si torna alla caccia, verso la quale sono spinti più per una morbosa curiosità che per un interesse attivo nel trovare chi ha ucciso il povero elfo Ramingo. Quando si arriva alla risoluzione finale si è sì contenti di aver risolto l'enigma, ma non si può certo usare la parola "soddisfatti".
Idem per i personaggi, si è detto. Sono tanti, forse troppi, e nessuno memorabile. Sicuramente l'obiettivo di G&M è stato quello di raccontare la tranquilla vita di una comunità montana, tuttavia l'effetto finale è la sensazione di neutralità verso il tutto. Neanche la storia d'amore o gli screzi dovuti alla tensione della caccia, né tantomeno lo scontro col nemico o l'ombra dell'intrigo internazionale (anch'esso appena abbozzato) riescono a lasciare traccia. L'impressione è appunto quella di sketch sul foglio, figure bidimensionali ancora non colorate e lasciate lì in attesa che qualcuno torni a completare l'opera.
Un ultimo punto interessante da affrontare è il discorso sul linguaggio. Non mi soffermo qui sulle molte ripetizioni di parole e di informazioni (volontarie forse, ma forse no, soprattutto quando a distanza di poche righe o pagine; lascio al lettore decidere su periodi come questo: «Per questo gli servivano vecchi giornali e riviste, un po' di stracci e un paio di barattoli di colla vinilica. I giornali non erano un problema. Ne aveva già trovati in tabaccheria dove vendevano anche i giornali»), le seconde soprattutto appoggiate come se si volesse sovrabbondare; mi soffermo piuttosto sulla scelta a mio avviso poco felice di usare dei titoli per i capitoli che quasi sempre anticipano ciò che sta per avvenire. Penso a "Morto il 12 giugno", "Si cerca un fucile e si trova un lupo" e, soprattutto, a "Joseph che non è Joseph" e "Una vacanza obbligata". Perché, mi son chiesto, una decisione del genere? Perché usare l'anticipazione a questo modo a) dove non necessaria come nei titoli e b) in un giallo che della suspense dovrebbe fare elemento narrativo?
La domanda che ci si deve porre, da lettori e da critici, ma soprattutto da persone che aspirano all'onestà intellettuale è: se sulla copertina non fossero comparsi i nomi di Francesco Guccini e Loriano Macchiavelli bensì quelli di Tizio A Caso e Autore Esordiente, un libro così confezionato avrebbe visto le stampe?

David Valentini