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In sunlight or in shadow: c'erano un pittore e tredici scrittori americani...

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Ombre.
Racconti ispirati ai dipinti di Edward Hopper
AA. VV.
(Megan Abbott, Jill D. Block, Lawrence Block, Robert O. Butler, Lee Child, Nicholas Christopher, Michael Connelly, Jeffrey Deaver, Joe R. Lansdale, Stephen King, Kris Nelscott, Joyce C. Oates, Jonathan Santlofer)

Traduzione di Luca Briasco, Fabio Deotto e Letizia Sacchini

Einaudi, 2017
pp. 300
euro 18,50

Un enorme appartamento, anzi direttamente un open space di lusso in pieno centro progettato da una rinomata archi-star e interamente arredato con pezzi di design: è questo uno dei primi paragoni che potrebbero venire in mente a proposito di Ombre, la raccolta di tredici Racconti ispirati ai dipinti di Edward Hopper a firma di alcuni tra i più rinomati scrittori americani contemporanei. Praticamente un loft che finisce col diventare un ring, in cui i singoli oggetti, nel chiasso reciproco di forme, linee e colori che è sempre l’ovvia conseguenza dell’eccesso, sono destinati ad annullarsi a vicenda. E invece… no. Nessuna cacofonia visiva. Più la si legge, e più questa bella e ambiziosa antologia di prose brevi fa pensare a una di quelle collezioni private il cui saggio proprietario abbia deciso di collocare un solo esemplare per stanza (anche se sì, ce n’è uno persino in bagno, laddove avremmo preferito trovare un semplice specchio). E se al privato si preferisce il pubblico, Ombre somiglia benissimo anche a un piccolo museo o a una grande galleria in cui per equilibrare il valore delle singole opere venga adottato il principio espositivo vincente del less is more: una per sala. Non resta che entrare, prendersi del tempo, misurare la giusta distanza d’osservazione e contemplare a piacere.

I tredici dipinti prescelti dagli autori coprono un ampio arco temporale della produzione di Hopper (che morì nel 1967, a ottantacinque anni), ma tutti risultano egualmente accomunati dalla caratteristica atmosfera sospesa, carica di misteri e presentimenti, che è la cifra distintiva del pittore nonché la migliore incubatrice per ogni spettatore dotato di un minimo di immaginazione, e che in questo progetto editoriale dà vita a narrazioni eterogenee. Se nelle Stanze sul mare di Nicholas Christopher (da Rooms by the Sea, del 1951) si avvertono le suggestioni oniriche e sovrannaturali tipiche del realismo magico, La sala della musica concepita da Stephen King a partire da Room in New York (Stanza a New York) del 1932 è il teatro in miniatura di un perfetto meccanismo orrorifico, la classica botola che, se aperta, svela come il vero abominio sia quello domestico e come il vero mostro sia il vicino di casa. L’enigma dei legami esistenti tra i personaggi hopperiani, specialmente quelli ritratti nelle sue scene più affollate, così come il mistero delle solitudini di quelli che se ne stanno in disparte nei non-luoghi emblematici della socialità di massa, sono esplorati al meglio nel disturbante Soir Bleu di Robert O. Butler, ispirato all’omonimo dipinto del 1914, e nel tragicomico Autunno, tavola calda di Lawrence Block, che prende spunto da Automat (Tavola calda) del 1927: fidarsi delle apparenze, e dunque del proprio istinto, per svelare l’identità altrui può avere esiti sconvolgenti o grotteschi, massimamente se si ha la ventura di incontrare un vecchio mimo al proprio tavolo o se una certa dama dall’aspetto dimesso ma signorile ha la curiosa abitudine di pasteggiare per i bistrot della città portandosi le posate da casa… Che dire poi del racconto basato sul dipinto prescelto per la copertina del volume, New York Movie (Cinema a New York) del 1939? Il proiezionista di Joe R. Lansdale è la summa perfetta di tutto ciò che negli scenari hopperiani fa rima con desolazione: il suo protagonista sembra avere tutte le caratteristiche dello sconfitto sociale, dell’eroe inutile, dell’uomo mite che ha occasione di compensare un vissuto di violenza con una clamorosa (ma non bastevole) prova di forza, ma che alla fine, per puro paradosso, è condannato a trovare l’habitat più clemente proprio nel cinema in cui lavora, laddove buona parte del sogno (non solo) americano ha avuto inizio, con tutto il suo corollario di desiderio, frustrazione e assenza di lieto fine.

Una menzione a parte meritano poi i racconti in cui i riferimenti alla pittura si fanno più espliciti o più simbolici, sia perché funzionali alla narrazione sia perché ammiccanti rispetto alla produzione dello specifico autore. Quest’ultimo, per esempio, è il caso del racconto a firma di Michael Connelly, ispirato al celeberrimo Nightawks (I nottambuli) del 1942, dipinto che già compare alla fine del primo volume della sua nota saga del detective Harry Bosch (pare che lo scrittore lo inserì perché lo vide per la prima volta all’Art Institute di Chicago proprio mentre era intento alla stesura del romanzo). Ma più interessante ancora è ciò che succede nel racconto di apertura, Lo spogliarello di Megan Abbot, ispirato a The Girlie Show del 1941, nel quale l’esplorazione del topos classico circa il rapporto tra l’artista e la modella si fonde con l’analisi dei rapporti di forza in una coppia problematica. Ancora, l’insistenza sullo sguardo – che è alla base della pittura intesa anche solo come attività “retinica”, secondo la sprezzante definizione duchampiana –, e dunque sulla violenza sottesa all’atto del guardare quando questo anticipa o implica il desiderio di possesso, di sottomissione e di morte, è al centro dei racconti La donna alla finestra di Joyce C. Oates (ispirato a Eleven A. M. (Le undici di mattina) del 1926) e Finestre di notte di Jonathan Santlofer (dall’omonimo Night Windows del 1928). Per questi sofisticati parallelismi tra i meccanismi pittorici e quelli narrativi, questi racconti sono forse i più riusciti, più rispondenti a quello che – nell’opinione di chi scrive questo commento – dovrebbe essere il senso di un dialogo non scontato tra letteratura e arte visiva, che vada oltre la mera referenzialità o l’invenzione di una storia interessante a partire dallo spunto offerto da un’immagine. A questo proposito c’è un brano significativo, nella breve premessa del curatore Lawrence Block, che vale la pena citare per intero anche per comprendere al meglio il senso dell’intero progetto editoriale:
«Hopper guardava con fastidio ai critici che liquidavano i suoi dipinti come semplici illustrazioni. In linea con l’espressionismo astratto, s’interessava soprattutto alle forme, al colore e alla luce, non al significato o al valore narrativo di un’immagine. Hopper non era un illustratore né un narratore. I suoi quadri non raccontano storie. Ma hanno la capacità di evocare in modo potente e irresistibile quelle racchiuse al loro interno in attesa di essere raccontare. Hopper sa fermare sulla tela un momento sospeso nel tempo – un istante con un passato e un futuro che lo spettatore è chiamato a rintracciare».
Il fatto che Block sottolinei l’attenzione tipicamente modernista posta dal pittore sulla specificità del proprio mezzo artistico assume dunque un’importanza cruciale. Perché se la cura di Hopper per i cosiddetti contenuti era, di fatto, secondaria rispetto a ciò che si potrebbe comunemente pensare, i racconti di Ombre, e alcuni più e meglio di altri, instaurano un rapporto “vincente” con i relativi dipinti soprattutto per la varietà degli stili e dei linguaggi, a prescindere dall’eventuale originalità delle trame e degli intrecci. Un po’ come accade con le trasposizioni cinematografiche o televisive, se è vero (come è vero) che le più riuscite non si limitano a replicare pedissequamente le vicende al centro del romanzo o del racconto al quale sono ispirate, ma a loro modo, sfruttando al meglio le specificità espressive del proprio mezzo (in questo caso immagini, inquadrature, montaggio, raccordi…), riescono a instaurare con la letteratura di riferimento una relazione “parodistica” nell’accezione tutta etimologica e nobile di “canto parallelo”, del tutto priva di intenti satirici o caricaturali. In questo senso, Ombre è un’eccellente “parodia” della pittura hopperiana: al silenzio delle tele ha giustapposto i sussurri e le grida di tredici voci della letteratura americana di oggi, ciascuna con i propri bassi e i propri acuti. Fino al prossimo vuoto sonoro, ancora tutto da riempire, da fantasticare, da cantare, e dunque da scrivere.

Cecilia Mariani