in

#PagineCritiche - Lo sguardo impudico. Una nuova traduzione per "Sul guardare" di John Berger

- -
Sul guardare
di John Berger
Il Saggiatore, 2017

nuova traduzione a cura di Maria Nadotti

pp. 274
€ 19,00 



A domanda, è lecito rispondere: e a uno sguardo? Un sopracciglio interrogativo pretende soddisfazione. Rispondere, si risponde “per cortesia”. Ammiccamento per ammiccamento, si baratta un’intera conversazione per un gioco di sguardi. I futuri amanti che si scorgono come per caso, tra i corridoi, si gettano un colpo d’occhio pronti timidamente a ritrarsi quando lo sguardo pare esser diventato di troppo, sanno quando hanno “guardato abbastanza” come zittendosi per non annoiarsi a vicenda. Hanno valicato il limite del comunicare: si sono detti tutto, dicendosi niente. Protagonista l’occhio: il bulbo che in una giovanile “Storia” del filosofo Georges Bataille diviene l’idolo inafferrabile di un’esistenza erotica, attraversato da una continua e attraente pulsione di morte. <<– Vedi l'occhio? – E allora? – È un uovo, disse, con semplicità>> (la traduzione è del poeta Dario Bellezza). L’occhio quale esistenza fattiva d’un arto anatomico e interlocutore fastidioso verso la ragione del mondo.

Ciò contro cui lo sguardo deve destreggiarsi è certo la verità degli avvenimenti: di essa si è testimoni, per essa martiri. A una veglia funebre, un uomo osserva un corpo senza vita, lo riscopre adesso in quella discendente parabola verso la decomposizione, avverte, o crede d’avvertire, “nel cuore”, la stessa morte da cui ora è rapito. Un capogiro gli annebbia la vista per qualche minuto. Edipo è a ragione relegato al ruolo di “guerriero del quindi”: figlio quindi cieco, accecato quindi vedente. Abbagliato dalla verità, allo stesso modo degli ammorbati dal mal bianco di Josè Saramago, oppure Saulo che rischia una brutta frattura a causa del lume del misticismo.

Guardiamo, quindi. Chi? Cosa? Uomini, oggetti, animali. Tale l’esordio della celebre raccolta di scritti del poliedrico John Berger, le cui indagini d’antropologia ed estetica si ravvivano per merito di una nuova traduzione curata da Maria Nadotti per Il Saggiatore. Si potrebbe scrivere come l’antropologia appaia quale materia che più si appropria della vista, se lo stesso non si potesse affermare della psicoanalisi, del giornalismo, dell’informazione, dell’erotica; di ogni facoltà, insomma, di cui si conformi la totalità del vissuto. Tale relazione tra lo sguardo e la realtà, che pure potrebbe lasciar pensare a una manifestazione di verità, sebbene apparente (non “illusoria” o “allucinogena”, bensì semplicemente confinata nello spazio della mera presenza) permette un legame che tenga insieme, senza alcuna dialettica, il guardante e il guardato. Così, il soggetto umano diviene spettatore dell’altro, pur relegandolo alla categoria dell’animalità.

In virtù della sua allusività, l’opera d’arte diviene la più esaustiva descrizione dell’oggetto di uno sguardo. Le “Scene della vita privata e pubblica degli animali” che Grandeville prepara in fasciscoli tra il 1840 e il 1842 non si prestano <<a spiegare le persone, nulla viene smascherato; al contrario. Essi sono ormai prigionieri di una situazione umana/sociale nella quale sono stati costretti a forza. L’avvoltoio è più spaventosamente rapace come padrone che come uccello>>. Se in Sartre si necessitava di ricercare l’identità, intellegibile, dentro un “istante fatale” conformato  nella parola d’altri (l’epiteto di “ladro”), per Berger pare che lo sguardo stesso più eloquente di ogni grido. Lo sguardo umano, che non ricerca ma edifica il proprio dialogo, veste gli animali dei propri abiti, ne astrae gli attributi per farne la stoffa con cui presentarsi in società.

Lo zoo è dunque il luogo dove esercitare uno sguardo panottico, dove produrre un’elaborazione artistica della presenza animale. <<Ogni gabbia>>, precisa Berger <<è una cornice che inquadra l’animale che vi è rinchiuso>>. Proprio lo spazio della cornice che immortala il guardato è il luogo dove si consuma il delitto della duplicità. Il fotografo avvicina l’occhio alla macchina: scatta. La foto, sia essa di un nobile infiocchettato o un indigeno dell’America Latina, relega le parti a una prigionia continua. Tre, le direttrici. Il già citato zoo, dove gli animali sono liberi che <<dentro certi limiti>>; le fotografie d’agonia, le quali abitano una dialettica di attrazione e repulsione; le opere d’arte, le quali, lungi dall’afferrare una <<verità assoluta>>, si legge nell’articolo sull’opera di Coubert, particolarizzano i propri soggetti, <<costringendo in questo modo due linguaggi (visivo e bervale) a elidersi a vicenda>>, come invece analizza quello su Magritte.

È allora incessante l’opera che vela e dis-vela la verità, in uno scherzo dove i merletti si fanno via via più impudichi. Non sono forse gli abiti ciò che trasmettono <<lo stesso messaggio dei volti e dei corpi che rivestono>>?



Antonio Iannone