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#IlSalotto - Con Jill Santopolo a parlare d'amore

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Da pochi giorni in libreria con "Il giorno che aspettiamo" (che abbiamo recensito qui), Jill Santopolo ci racconta le sue emozioni, come interpreta il romanzo d'amore e le scelte di scrittura che l'hanno accompagnata in ben quattro anni di scrittura. Quattro anni che hanno trasformato il suo romanzo d'esordio in un successo acclamato prima ancora della pubblicazione: ben 30 Paesi hanno acquistato i diritti e presto porteranno in libreria il romanzo, proprio come ha fatto pochi giorni fa Editrice Nord. 
Approfittando del tour di Jill Santopolo in Italia, abbiamo deciso di porle alcune domande... 


Nel suo romanzo, la scintilla tra i suoi protagonisti scatta proprio l’11 settembre 2001. Innamorarsi è a suo parere un attentato all’ordine e alle proprie certezze, come è accaduto al mondo intero quel giorno?
Credo che in qualche modo tutte le emozioni profonde ti colpiscano e ti sconvolgano. Non penso che innamorarsi sia paragonabile all’attacco che è avvenuto l’11 settembre, che ha colpito tutto il mondo. Un evento di questo tipo suscita delle emozioni negative, mentre invece innamorarsi suscita emozioni positive. Tuttavia, entrambi gli eventi causano emozioni molto forti.

La protagonista Lucy racconta il passato e il suo presente a un interlocutore decisamente importante per lei, il suo primo amore, Gabe. Le è venuto in mente fin dall’inizio della stesura del romanzo di avere questo “tu” per interlocutore silenzioso, o è una scelta che ha maturato nel tempo?
L’ho fatto intenzionalmente fin dall’inizio. Penso che scrivere alla seconda persona, quindi rivolgendosi a un “tu”, a qualcuno, crei immediatamente una relazione molto più intima rispetto invece alla narrazione in terza persona. La seconda persona, insomma, permette di approfondire la relazione.

In esergo, scrive di aver lavorato a Il giorno che aspettiamo per quattro anni, dopo la fine di una relazione: ritiene che la scrittura possa essere taumaturgica, o perlomeno catartica?
Sì, assolutamente sì. Questo mi ha permesso di analizzare a fondo le mie emozioni, attraverso anche uno sguardo di sofferenza, non solo mia, ma che in quel momento provava tutto il mondo. Questa sofferenza condivisa mi ha permesso di guardare la mia vita, quello che stavo vivendo in quel momento, in un’ottica diversa e di rendermi conto che l’amore e la perdita sono qualcosa che tutti condividiamo.


Non ha mai temuto che parlare di Il giorno che aspettiamo e, sebbene indirettamente, delle emozioni provate da lei in prima persona nella sua relazione, potesse riaprire ferite a distanza di anni?
Temevo di sì, temevo che accadesse. In realtà non è stato così, perché scrivere questo libro mi ha permesso di trasformare qualcosa di triste in un’esperienza meravigliosa, ha trasformato in qualche modo le mie emozioni.

Cosa ne pensa della vitalità del genere romanzo d’amore in questi ultimi anni?
Non ero consapevole che in Italia ci fosse questa rinascita del romanzo d’amore. Penso che sia fantastico comunque che le persone, in un momento così caotico e incerto come quello attuale, apprezzano di nuovo e riscoprono il romanzo d’amore e la possibilità di trovare anche in una storia triste quella felicità dell’incontro tra due persone. 

Qual è a suo parere la storia d’amore più bella della letteratura?
In realtà la storia d’amore che mi ha colpito di più l’ho letta a dodici anni, quando ho letto il libro Queen of the Summer Stars di Persia Woolley, la storia d’amore tra Re Artù, Ginevra e Lancillotto, dal punto di vista della regina. Credo che mi abbia colpito così tanto che ho deciso di scrivere questa storia in cui una donna ama due uomini.

Lavorando come responsabile di una casa editrice del gruppo Penguin Random House, cosa ha provato nel vedere che i diritti del suo romanzo erano contesi in tutto il mondo e ben 30 Paesi porteranno presto in libreria Il giorno che aspettiamo?

È fantastico il fatto che ci siano così tanti editori che si contendono i tuoi diritti per un libro. È meraviglioso.

a cura di Gloria M. Ghioni