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#paginedigrazia - Il senso della maternità e l'espiazione universale della colpa d'amare

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La madre
di Grazia Deledda
Ilisso, Nuoro, 2005

Prefazione di Andrea Cannas
pp. 135
cartaceo: 11 euro
e-book: 4,99 euro

Nel paese di Aar si assiste a un rovesciamento della dimensione reale delle cose: l’universo capovolto de La madre è il progressivo disvelamento di un io che mette a nudo tutti i suoi turbamenti interiori per pagare il fio di una colpa sconosciuta e dare all’anima la tanta agognata requie. Grazie Deledda non mette mai bocca in questa dimensione interiore e la narrazione è un flusso di pensieri continuo, dove la scrittrice irrompe solo per muovere la bacchetta e dirigere un’orchestra di pensieri, senza mai dire la sua e risucchiando il lettore in un vortice di riflessioni talmente serrato da disorientarlo e non fargli rendere conto come sia riuscito a giungere alla conclusione del dramma di Paulo e Agnese. È solo leggendone l'intrenseca specularità che La madre assume una sua organicità: lo specchio davanti al quale «passò e si guardò, si vide grigio in viso con le labbra violacee e gli occhi infossati» non è solo uno strumento con cui leggere empiricamente le pieghe della propria anima, ma diventa la chiave stessa della struttura de racconto.

All’inizio, infatti, il fulcro è Maria Maddalena, ritratta mentre rimane nascosta a spiare il figlio Paulo, il prete del paese di Aar, che ogni notte visita la giovane vedova Agnese, scappando furtivamente dalla casa materna e rientrando prima che il sole illumini le rocce increspate del paesaggio montano. Alla fine della storia, dopo il tormento dell’uomo se seguire la ragione del cuore o la ragione della mente e della morale (e di conseguenza smettere l’abito talare per abbandonarsi alle braccia della donna che «se avesse smesso di amarlo ne avrebbe causato la vera morte»), il dramma si richiude e focalizza su Agnese (mai fino a quel momento apparsa in scena) e Paulo, mentre la madre viene tenuta in disparte e in lei si consuma la dimensione catartica della storia.

La terminologia teatrale non è causale: lo steso Andrea Cannas afferma nella prefazione al romanzo nell’edizione 2005 edita da Ilisso che La madre può essere assimilata a una tragedia alfieriana tipica, con pochi personaggi che si giocano tra loro le sorti della propria esistenza. Personaggi contraddittori «dove le ragioni del bene e la necessità del male […] si intersecano» e che si muovono in una dimensione fittamente ricca di metafore e rimandi, certamente non volontari, ma che dimostrano «rilevanti interferenze con le scritture sacre, in una vicenda dal sapore biblico e dall’improbabile architettura medievale: si scomoda il diavolo e la minaccia riguarda l’universo della cristianità». 

Un quarto personaggio, onnipresenza costante in ogni pagina de La madre, tuttavia, ha suggerito a una lettrice colpevolmente digiuna di scritti deleddiani come me un altro riferimento, sotteso ma evidente, principale pietra angolare di tutto il romanzo. Il vento che «accompagnava i suoi ricordi più lontani e più vaghi», in cui «immerse la sua testa: e gli parve di essere una delle mille foglie del ciglione protese nel vuoto» e che «sembrava avesse qualcosa di vivo, di ambiguo» non è solo l’elemento della natura in grado di partecipare con solidarietà ai tormenti interiori del protagonista; diventa la metafora di un processo di redenzione universale che avrà il suo compimento al culmine della vicenda e che già un illustre precedente aveva enucleato nel suo poema, settecento anni prima del romanzo deleddiano: il vento è il protagonista naturale del girone dei lussuriosi nel Quinto Canto dell’Inferno di Dante Alighieri, dove le anime dannate sono condannate in un luogo
che mugghia come fa mar per tempesta,/ se da contrari venti è combattuto./ La bufera infernal, che mai non resta, (vv. 29-31)

quel fiato li spiriti mali/ di qua, di là, di giù, di sù li mena; (vv. 42-43)
proprio così come il vento deleddiano «non troppo forte ma incessante e monotono». Nelle sue terzine irte di vocalismi “aerei” Dante ha una grande pietà per tutti quelli che la ragion sommettono al talento (v. 39): lo stesso dualismo interiore che lacera l’animo del nostro Paulo. Un nome, questo, ancora una volta non causale: gli amanti più famosi di tutto il canto sono proprio Paolo (Paulo) e Francesca (Agnese) che vengono puniti per il loro amore emblema della lotta tra la morale e la passione, l’irrazionalità e la ragion di stato. Se i dannati danteschi, tuttavia, vengono uccisi dal tradito Gianciotto e condannati all’eternità infernale, Grazia Deledda ha trasferito sulla terra la vita infernale e ha condensato nella madre Maria Maddalena il senso stesso della colpa e della redenzione. Con la modernità che caratterizza una scrittrice sensibile e anticipatrice dei tempi, il rito pagano e cristiano dell’espiazione si è compiuto non con la morte dei colpevoli ma con la morte della madre, appunto, che sceglie di prendere su di sé le sorti spirituali non solo del figlio ma di tutta l’umanità: il dolore lo aveva cullato in grembo Maria Maddalena e s’era fatta carico dei peccati come Cristo sulla croce, afferma Cannas. Il senso profondo della maternità, della vocazione alla liberazione dai dolori del prossimo per farli propri, diventa universale nella misura in cui ne La madre e nel suo universo, appunto, capovolto di inferno in terra, il proprio dolore diventa anche il dolore altrui e il vero senso della spiritualità pura è fare pace con la propria interiorità, non votare la propria vita alla castità:
Perché Signore, Paulo non poteva amare una donna? Tutti possono amare, anche i servi e i mandriani, anche i ciechi e i condannati al carcere; perché il suo Paulo, la sua creatura, lui solo non poteva amare? (p. 97)

Federica Privitera