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"Finché c'è prosecco c'è speranza": ciò che si annida dietro un calice di vino

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Finché c'è prosecco c'è speranza
 di Fulvio Ervas
Marcos y Marcos, 2010

pp. 304
€ 16,50


Stucky provò l’impulso di abbracciarlo, non fosse per la ferrea regola che non si deve mai abbracciare il proprio oste di fiducia, nemmeno quando piange.

Di ritorno da un Ferragosto tra stelle e calici, l’ispettore Stucky, un cortese incrocio veneziano-persiano, si trova di fronte alla notizia della morte del conte Ancilotto, nobile produttore di uno dei migliori prosecchi della marca trevigiana. Sembrerebbe trattarsi di un suicidio molto scenografico, non fosse che un amante della vita come conte di motivi per suicidarsi ne aveva ben pochi, per non dire nessuno. 

Poche notti dopo durante un temporale, anche l’ingegnere Speggiorin direttore del cementificio locale, viene freddato da alcuni colpi di Bernardelli 69 del ’76. Per il paese di Cison di Valmarino, queste due morti e l’arrivo della battagliera erede del conte che minaccia di estirpare tutte le viti e piantare banane, sono bocconi troppo grossi da mandare giù con un goto di vino. Anche l'ispettore Stucky fatica a deglutire e dovrà muoversi con circospezione tra quelle colline ricche di grappoli, attento a non calpestare interessi che vanno molto al di là del semplice imbottigliamento di un vino frizzante da aperitivo.

All'ultima mostra del cinema di Venezia è stata data la notizia di una prossima produzione italo- americana tratta dai romanzi di Fulvio Ervas; ho dovuto riconoscere di non conoscere nemmeno di vista questo ispettore Stucky che andava ad aggiungersi alla ricca e onorata specie di investigatori/ poliziotti/ispettori che popolano la letteratura. La vergogna è stata tanta, in quanto veneta di adozione, e ho deciso di rimediare partendo da questo volume, il quarto dedicato alle avventure del nostro protagonista. Niente paura: anche se non si sono letti gli altri e vengono a mancare alcuni dati sul background dell’ispettore, si viene immediatamente immersi nella realtà veneta e si sente affinità con l’ispettore gentiluomo che vanta una discendenza mezzo persiana e mezzo veneziana.

- Brut?
- Un vino che non ha superato un concorso di bellezza.
- Cosa dice?! E il brut nature allora?
- Uno scarafone biologico o biodinamico.
- Lei è completamente impazzito! Extra dry?
- Vino prodotto nelle oasi per il ristoro dei tuareg. Demi sec? Un vino dopo una lunga dieta.

Stucky, di cui non abbiamo la grazia di conoscere il nome di battesimo ma che nel cognome esplica in pieno la sua discendenza veneziana, ha un’aura di pacata, ma arguta ironia e di malinconia sognante che ricorda un po’ il Corto Maltese di Favola di Venezia. Un po’ trasformista, sempre in grado di adattarsi ad ogni interlocutore, non pare seguire un metodo investigativo vero e proprio. Non sembra quasi raccogliere indizi in maniera sistematica o fare collegamenti seguendo un razionale pensiero di "sherlockholmsiana" memoria: pare raccogliere storie, come se stesse componendo le sue mille e una notte personale. Eppure riesce ad andare sotto la superficie e a cogliere una verità che è, letteralmente, nell’aria, ma che nessuno pare avere il coraggio di proclamare a voce alta. D'altronde, non pare esserci modo migliore per conoscere una terra che ha una vena favolistica annidata dietro la concretezza e la dedizione al lavoro. 

Per chi ci è nato o chi da un po’ ci vive, la piaga della campagna veneta è sotto gli occhi di tutti. Basta passare in macchina da un paese e ascoltare qualche brano di gruppi locali come i Do’Storieski per accorgersi che lo splendido venetorum angulus è stato sconvolto da un’industrializzazione selvaggia a partire dagli anni ’60. In nome della ripresa economica si sono cementificate vastissime aree, snaturati terreni e le ville palladiane sono costrette a condividere i loro parchi con silos e blocchi di cemento. Tutto questo si paga, in qualità della vita, aria pulita e, anche, vite umane. 

In questa terra a metà tra favola donchisciottesca e preludio di distopia, si muove, con una presenza che non si attribuirebbe mai ad un morto, il conte Ancillotto. Questo mago del vino, a cui basta aggiungere una “L” per avere il prototipo del cavaliere della Tavola Rotonda, è fermo sostenitore della produzione di vino con qualità e sentimento, senza troppi solfiti e diavolerie moderne . Dietro a questa ferma convinzione di solitario cavaliere errante c’è di più: perché se si intossica il vino che scorre nelle vene degli abitanti del Veneto, vuol dire che c’è qualcosa di molto più marcio a monte: qualcosa che viaggia nell’aria e che termina nelle innumerevoli pietre tombali che costellano il cimitero di Cison, grattate con solerzia e devozione dal matto del paese, voce di intervallo tra i capitoli che rende vivo il paese presentandoci i suoi abitanti.

«Questi luoghi non saranno più il villaggio diffuso e misterioso che solleticava le nostre menti, non cresceremo più imparando a distinguere le ombre dei fossi (…) nessuno incontrerà più la linea delle nebbie, dove perdersi in fantasticherie», proclama il conte dalla tomba per voce della sua erede, Celinda Salvatierra (forse unico personaggio un po’ deludente che prometteva molta più rottura scenica di quanto non ha offerto). Stucky raccoglie tutte questi frammenti, le storie che si annidano tra i grappoli e capisce; capisce non solo il bandolo della matassa, ma capisce cosa ci sta dietro, le motivazioni e i pensieri e, con tutta la sua cortesia persiana e con un assaggio di Maigret, non se la sente nemmeno di condannare.

Resta quindi da aspettare l’interpretazione che ne fornirà Giuseppe Battiston con la regia di Alessandro Padovan. Intanto c'è tutto il tempo per recuperare anche gli altri capitoli delle avventure ambientate nella marca trevigiana.

Giulia Pretta