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Il Salotto: Silvia Pareschi, su traduzione, short story e sogni americani

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Foto gentilmente concessa da Silvia Pareschi
Tra Italia e San Francisco, raggiungiamo Silvia Pareschi in occasione della pubblicazione del suo primo libro I jeans di Bruce Springsteen per un'intervista a tutto tondo su letteratura, traduzione, esordi e nuovi progetti. Il ruolo del traduttore, il confronto con romanzi e short story, gli autori amati e la ricerca di una voce propria per scrivere una storia tra fiction e racconto autobiografico: in questa lunga intervista Pareschi apre le porte sul proprio mondo, su un lavoro amatissimo e l'esordio alla narrativa, polifonico come la realtà che racconta tra invenzione e reportage.

Fino ad oggi il tuo nome era legato soprattutto al ruolo di traduttrice: hai lavorato – tra gli altri – su Franzen, De Lillo, McCarthy, Zadie Smith, Englander, riuscendo a cogliere la voce personale e distinta di ognuno di loro, senza lasciare che la tua scrittura la influenzasse. Come è stato, questa volta, usare la tua di voce per un intero libro, personale e dalle differenti sfumature di tono, stile, argomenti? Questa non è la tua prima prova come autrice, avevi già pubblicato racconti (alcuni di questi poi rielaborati proprio in questo libro) su diverse riviste, ma non ti eri mai dedicata ad un’opera di questo genere, è corretto?

Quando si traduce è fondamentale mettere a tacere la propria voce per ascoltare attentamente quella dell’autore. Tradurre è scrivere, ma è scrivere nella propria lingua con la voce di un altro, e di quella voce altrui è necessario saper rendere al meglio i toni, le sfumature, le espressioni, le intenzioni palesi e anche quelle nascoste. Quando ho cominciato a scrivere un libro mio – non più solo racconti e reportage isolati, come avevo fatto fino a quel momento, ma un libro che necessitava di un progetto, di una coesione interna – mi sono capitati degli strani momenti in cui andavo a cercare la voce dell’altro e mi accorgevo che non c’era, che questa volta la voce da ascoltare e mettere sulla pagina era la mia. Mi mancava il sostegno immediato, la spalla dell’autore a cui appoggiarmi. Eppure in realtà di spalle a cui appoggiarmi ne avevo tante, quelle robuste degli autori che, affidandomi la loro voce, mi avevano aiutata a trovare la mia.

Del lavoro di traduzione e della tua vita divisa tra San Francisco ed Italia abbiamo, nel tempo, potuto conoscere molti aspetti, anche grazie al tuo blog ninehoursofseparation.com, molto seguito ed apprezzato. Un mestiere bellissimo e fondamentale, che tuttavia non sempre viene adeguatamente riconosciuto, ma spesso minimizzato, criticato (solitamente proprio da chi non lo conosce) sei d’accordo?

È una questione annosa, quella dello scarso riconoscimento dei traduttori. Se ci penso adesso, da scrittrice, mi rendo conto ancora di più di cosa significhi per un autore affidare completamente il proprio lavoro a qualcuno che lo riscriverà in un’altra lingua, e di quanto sia importante che questo qualcuno sappia bene cosa sta facendo. Il problema è che se, per citare Calvino, una traduzione si deve leggere come fosse stata pensata e scritta direttamente in italiano, ne consegue che una bella traduzione spesso rimane invisibile, viene data per scontata, mentre quella che si nota, che salta all’occhio, è la traduzione difettosa, quella che crea inciampi alla lettura, che lascia intravedere in filigrana la sintassi dell’altra lingua. Paradossalmente, quindi, il nostro è un lavoro che spesso rimane invisibile quando è ben fatto e diventa visibile quando ha delle pecche. Per questo non sempre è facile saper apprezzare una bella traduzione, perché ci vuole una particolare sensibilità per rendersi conto di tutto il lavoro che c’è dietro qualcosa di apparentemente semplice e immediato. Comunque ultimamente ho l’impressione che ci sia un po’ più di attenzione al lavoro dei traduttori da parte di giornalisti e lettori: forse piano piano le cose stanno cambiando.


Quale rapporto si instaura fra traduttore letterario ed autore e quanto il confronto/scambio può arricchire il lavoro di traduzione o, perché no, limitarlo e complicarlo? In veste di traduttrice hai  una forma che senti a te più congeniale, tra romanzo e racconto?

Rispondo prima alla seconda domanda. No, amo tradurre sia racconti sia romanzi, non faccio distinzioni.
Quanto al rapporto con gli scrittori che traduco, ci tengo sempre a instaurarlo, quando è possibile. Spesso alla fine della prima stesura della traduzione ho pronta una lista di domande da sottoporre all’autore, il quale, a seconda della sua personalità, potrà rispondere in tono professionale, con curiosità, a volte persino con entusiasmo. Può capitare, infatti, che grazie alle domande del traduttore lo scrittore riesca a vedere il suo testo da una prospettiva differente, scoprendoci dentro delle sfumature nuove, perché certe cose che per lui sono naturali vengono ricreate dalla traduzione attraverso una riflessione sulla lingua diversa da quella che inizialmente aveva compiuto lui. Certo, a volte questo rapporto può diventare complicato, come per esempio quando l’autore conosce – o crede di conoscere – la lingua in cui viene tradotta la sua opera e, pur agendo in buona fede, finisce per interferire in modo poco costruttivo con il lavoro del traduttore. Ecco perché, se mai il mio libro dovesse essere tradotto in inglese, non vorrei essere nei panni di chi mi tradurrà!
  
Ancora una domanda sulla traduzione: quanto è importante secondo te adeguare un testo ai cambiamenti della lingua, attualizzarlo, “svecchiarlo” per così dire? Penso per esempio alla recente traduzione de Il giovane Holden ad opera di Matteo Colombo, di cui si è a lungo discusso (non sempre in modo costruttivo) e della necessità o meno di ritradurre un testo iconico, o alla recentissima pubblicazione sempre per Einaudi di Anna Karenina tradotta da Claudia Zonghetti.

L’originale non invecchia, ma la traduzione sì: invecchia perché il suo compito è anche quello di adattare il testo alla cultura che lo riceve, cultura che con il passare degli anni si modifica, insieme alla lingua che la esprime. Inoltre oggi internet permette di svolgere rapidamente ricerche che un tempo erano difficoltose o impossibili, riducendo di molto il rischio di commettere errori e rendendo le traduzioni contemporanee più accurate di quelle dell’epoca pre-internet. Per questo è importante ritradurre, oltre che tradurre. Non vedo l’ora di rileggere Anna Karenina nella traduzione di Claudia Zonghetti: è un libro che ho letto venticinque anni fa, e sono sicura che questa ritraduzione gli avrà conferito un nuovo splendore.


Foto di Silvia Pareschi
Ma veniamo  al tuo libro e partiamo proprio dalla forma: come mai hai scelto di strutturarlo in questo modo, tra memoir, fiction, reportage? Personalmente ho trovato molto interessante la forma ibrida, non rigidamente etichettabile, di questo libro, dove il confine tra fiction e memoir è spesso sfumato, difficile da cogliere. Quali sono le ragioni che ti hanno spinta a scegliere questo tipo di narrazione, ad affidare al racconto alcuni temi ed altri invece al reportage?

Per definire il mio libro si è parlato di “autofiction”, cioè quel genere a metà strada tra l’autobiografia e la fiction che gli americani praticano più spesso degli italiani. È il genere che ho trovato più congeniale per descrivere cose che in parte avevo vissuto in prima persona, in parte avevo sentito raccontare e in parte avevo letto e studiato. Ho voluto raccontare una realtà che conosco con lo stile del reportage, ma nello stesso tempo l’ho usata come sfondo per delle storie in cui si mescolano autobiografia e finzione.


Un altro aspetto che ho apprezzato in modo particolare è la capacità di alternare ironia e leggerezza, intensità e disincanto; un testo in cui, una pagina dopo l’altra, sorridere e divertirsi per poi, subito dopo magari, commuoversi ed indignarsi. Quali i motivi di tale polifonia stilistica e tematica?

Il mio obiettivo principale, scrivendo questo libro, era quello di raccontare aspetti poco noti di un mondo che tutti crediamo di conoscere, e di farlo divertendo. Ho sempre avuto una grande ammirazione per gli scrittori che riescono a divertirmi, perché trovo che sia una dote piuttosto rara nel mondo della letteratura. Poi un giorno una lettrice mi ha detto: “credo che per riuscire a far ridere occorra conoscere bene la tristezza”. Forse è proprio così, sono una persona malinconica che per difendersi ha coltivato il senso dell’umorismo, e questo si vede nella mia scrittura. Amo la leggerezza, detesto la retorica e la pomposità, ma conservo la capacità di arrabbiarmi davanti a quello che considero ingiusto. E poi osservo la realtà, e la realtà è polifonica, ricca di sfumature, di possibili interpretazioni, di possibili storie e di possibili stili per raccontarle.

 Interessante, inoltre, la scelta di raccontare pezzi d’America e di vita senza cedere a facili sentimentalismi né alla critica sterile, senza cadere nello stereotipo dell’italiana all’estero che tutto ama o tutto odio del Paese d’adozione in un continuo confronto/scontro. Da queste pagine traspare invece un punto di vista personale e necessariamente soggettivo, ma vero, sincero, capace di raccontare con pari intensità la bellezza e le contraddizioni di quel mondo, che sembri riuscire ad osservare con il dovuto distacco (che non vuol dire necessariamente cinismo) e che sulla pagina si è trasformato in un gioco di luci ed ombre, ironia e riflessione. Puoi parlarci di questo aspetto?  

Ho cercato innanzitutto di demolire un po’ il mito, durissimo a morire per gli italiani, degli Stati Uniti come luogo ideale dove vivere. È troppo facile idealizzare un posto che non si conosce, dove si è stati solo in vacanza, e usarlo come specchio deformante attraverso cui guardare la nostra realtà. Vivendo negli Usa ho imparato prima di tutto a rivalutare moltissimo l’Italia, che con tutti i suoi difetti è un posto dove (per adesso) certi paracadute sociali funzionano ancora. E poi il luogo ideale non esiste, se non come sogno per fuggire dalla propria realtà e immaginare che altrove si stia meglio. Eppure di quel mito sono inevitabilmente intrisa anch’io, come tutti, per via del cinema, della musica, e poi della letteratura che è il mio lavoro. Così, quando mi sono ritrovata a osservare dall’interno un paese comunque affascinante e pieno di contraddizioni (e affascinante proprio perché contraddittorio), ho fuso il mio mito personale con la disillusione, il fascino della scoperta di cose nuove con la rabbia per la scoperta di grandi ingiustizie, e ne ho ricavato un ritratto che si sforza di staccarsi dai cliché per cercare di offrire un punto di vista diverso dal solito. 

Il racconto è una forma che conosci molto da vicino, sia in veste di traduttrice che di autrice. Un genere che, almeno in Italia, non sembra avere in questi anni lo spazio che meriterebbe, ma che rimane ancora in parte subordinato al romanzo. Scarso l’interesse generale della critica (se non, naturalmente di una parte specifica di essa che fortunatamente se ne occupa), altalenante quello dei lettori che per lo più tendono a privilegiare altre forme narrative. Eppure, la short story è probabilmente il mezzo più adatto a raccontare complessità, contraddizioni, mutamenti del mondo contemporaneo, a coglierne il carattere frammentario, spingendosi dove il romanzo non riesce ad arrivare, per stile e tematiche. Cosa ne pensi, sei d’accordo? E dal tuo punto di vista come ti sembra in questo momento la situazione nel panorama editoriale statunitense?

 Quella dello scarso interesse del pubblico italiano per la forma-racconto è un’altra questione annosa, sulla quale si riflette da tempo. In un articolo uscito di recente su «Vice», Perché in Italia abbiamo paura dei racconti, Vanni Santoni cita Paolo Repetti, fondatore di Stile Libero, il quale afferma che è storicamente un dato di fatto che i racconti vendano meno dei romanzi. Secondo lui il problema è che “il racconto viene percepito come un'esperienza più letteraria che esistenziale, quasi un'abitudine più sofisticata rispetto al romanzo del quale non ha il 'fattore immersivo'”. Questo corrisponde a ciò che mi sento rispondere quando chiedo a qualcuno se preferisce racconto o romanzo: a parte qualche eccezione, la maggioranza del mio campione ridotto preferisce il romanzo perché “il racconto finisce subito”, perché “il romanzo crea un mondo un cui posso immergermi completamente”. In effetti si tratta di due esperienze di lettura del tutto differenti, e il pubblico italiano a quanto pare privilegia la seconda. Negli Stati Uniti la situazione è un po’ diversa: c’è sempre una predilezione per il romanzo rispetto al racconto – tanto che spesso gli autori di racconti, per poter pubblicare con un editore, devono firmare un contratto in cui si impegnano a consegnare anche un romanzo – ma i racconti sono decisamente più amati che in Italia. E infatti a me capita abbastanza spesso di tradurre raccolte di racconti: dal bellissimo Fine missione di Phil Klay, che nel 2014 ha vinto il National Book Award, ai racconti di Junot Díaz, Amy Hempel, Nathan Englander, David Means, Annie Proulx e altri ancora. Anche Il libro dell’ignoto, di mio marito Jonathon Keats, che ho tradotto per Giuntina, è una raccolta di racconti.

Ancora a proposito di short story: quali sono, a tuo parere, gli autori contemporanei – italiani e statunitensi – che dovremmo tenere d’occhio?

Amo molto i racconti, e fra quelli che amo di più ci sono quelli di alcune scrittrici: Alice Munro, Margaret Atwood, Grace Paley, Edna O’Brien, Lorrie Moore. Fra gli italiani contemporanei forse sopra tutti Michele Mari. Molto bello anche I racconti di Daniele del Giudice, pubblicato di recente da Einaudi. Fra le raccolte uscite di recente negli Usa mi è piaciuto molto The Visiting Privilege di Joy Williams, una scrittrice pressoché sconosciuta in Italia che secondo me meriterebbe di essere tradotta.

Oltre al tour promozionale del libro, che so riprenderà in autunno, hai in progetto di continuare a lavorare come autrice? Puoi rivelarci qualche dettaglio dei tuoi programmi futuri?

Al momento non ho nessun programma preciso, se non quello di dedicarmi alla traduzione di tre libri bellissimi che mi stanno aspettando. Per quanto riguarda la scrittura, quest’estate farò un breve viaggio alla ricerca di materiale per un progetto che mi gira in testa da un po’, ma non ho ancora la minima idea di cosa potrà saltarne fuori.

Intervista a cura di Debora Lambruschini