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Valerio Magrelli, "Geologia di un padre"

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Geologia di un padre
di Valerio Magrelli
Torino, Einaudi (Supercoralli), 2013

pp.143
€ 18,00




È da un poeta che è giunto, negli ultimi due anni, uno dei più riusciti tentativi di risolvere il problema del romanzo, di contribuire a questa forma oggi sempre più difficile da tentare. Valerio Magrelli dà alle stampe, nel 2013, per Einaudi, Geologia di un padre, 83 prose, quanti gli anni del protagonista, padre di Magrelli e quattro poesie, corredati, in prefazione, dagli splendidi disegni del padre stesso, Giacinto.
La memoria del poeta – che si è sedimentata, lungo dieci anni, in una lunga teoria di appunti, pensieri, annotazioni – restituisce una figura umana e commovente, un padre e i suoi dolci e irredimibili difetti, le sue manie, le sue passioni, e con essa il mondo intero che attorno a questa figura ruota. Non solo il mondo del figlio – ora padre a sua volta – ma il mondo dei rapporti col padre, mito fondamentale e perenne dell’Occidente e dell’uomo, cardine della storia.

Magrelli non consegna un ritratto generazionale, né un’elegia, non è interessato a fare del proprio padre, e del proprio rapporto con questi, una vicenda universale, che sia di tutti e in tutti: è invece mostrando le unicità di questo padre, le particolarità del rapporto con questi, che si giunge all’universalità, che è però sempre quella del poeta.
Non si è portati – come nelle cattive memorie, nel romanzesco – ad immedesimarsi, a confrontarsi, bensì, esaurita la storia, a ricomporre la propria, che sarà necessariamente un’altra faccenda, un altro paio di maniche.

Geologia di un padre è, come dal titolo, lo studio di ciò su cui stiamo, scontato strato e sostrato che regge la presenza di chi sopra vive. Mentre la memoria del poeta torna all’infanzia, al rapporto col padre (la musica, il tatto, il tabacco, i viaggi), le pagine scorrono tra racconti ironici, descrizioni divertite, il tentativo del figlio di spiegarsi la discendenza dal padre, una genealogia inaspettata, appunto, una geologia.
Il viaggio a Pofi, terra paterna, e altri ricordi, l’incapacità di scendere a patti con la realtà, la malattia che lentamente ne corrode le capacità, quindi la noia feriale, il primo viaggio in aereo, fino alla struggente rievocazione, dialettale, dell’abbraccio (“A ‘butto de papi”), infine le poesie: il libro di Magrelli sembrerebbe quindi, come ci si aspetta da un poeta, una ricognizione del mondo perduto – e degli affetti perduti – compiuta con uno stile impeccabile, ben dosato tra momenti alti e lirici e altri più dimessi e ironici. Perché allora considerarlo – più che libro di memorie o di buona prosa lirica di un poeta – un romanzo? E perché considerarlo, una volta chiamatolo romanzo, un romanzo in grado di contribuire al Romanzo stesso, all’evoluzione di questa forma sulla cui vitalità e sulle cui possibilità instancabilmente ci si interroga dagli anni Sessanta del secolo scorso? 
La risposta è nel nocciolo del problema contemporaneo del romanzo stesso. Affinché scrivere non sia un atto di vanità e nient’altro – e quanti ce ne sono, oggigiorno – è necessario legittimare quest’atto: riscattarlo. Perché ciò sia possibile, negli ultimi anni si è affermata la tendenza all’autofiction, al romanzo che prende le mosse dalla propria vita, da un fatto della propria vita intorno al quale (fatto, reazioni, conseguenze) si è cresciuti o si è conosciuto il mondo da nuove prospettive, nuovi punti di vista. 
Tale tendenza autofittiva prospera in Italia (per pigrizia o per moda: madri di figli difficili, storie di malattie, resoconti di aberrazioni eccetera) e non solo, ma ha alla base una solida ragione: il fatto cioè che la propria esperienza, per il fatto di essere stata difficile, “estrema”, può essere raccontata giacché può diventare luogo di crescita non solo di sé ma anche di chi la legga. Il romanzo torna alla possibilità della conoscenza immergendosi – ed emergendone – nella vita di chi lo scrive, per poterla riscattare e rendere letteratura. Per ciò soltanto, Geologia di un padre si iscriverebbe quasi perfettamente in questo solco, contribuendo in maniera decisiva al romanzo italiano degli anni Duemila.

A renderlo un libro decisivo è però – e qui si entra nel campo del Romanzo, del suo problema e dei più audaci tentativi di una sua soluzione – il fatto di essere sospeso tra autobiografia e racconto, rievocazione e descrizione, apologia e confessione.
È in una condizione sospesa che il romanzo può continuare a vivere: un pizzico in più di “vita” dello scrittore, e l’autofiction diventa autobiografia e autobiografismo; un pizzico in più di rievocazione e si abbraccia il romanzo d’infanzia, la ricerca delle radici; se però avesse più trama e personaggi, il romanzo diverrebbe romanzesco, romanzo a trama; se infine la sua struttura fosse troppo frammentata, o troppo compatta, esso non lascerebbe possibilità all’indecifrabile dell’arte, né respiro al lettore, finendo per essere arte del frammento, o romanzo a tesi, o romanzo forte.
È in tale condizione sospesa che vive il romanzo, oggi: più autobiografia, e Edmund White – che pure, è valido biografo, non a caso – non sarebbe uno scrittore tout-court; più spiegazioni, e i romanzi di Banville non avrebbero la tragica tensione che li contraddistingue; meno equilibrio tra memoria e vicenda, tra sé e il padre, e il romanzo di Magrelli sarebbe stato una malinconica ouverture, un’autobiografia in frammenti, un gioiello di nostalgia e basta. E sia chiaro: non che non sia tutte queste cose.


Ma nella sua prosa, nel suo stile, nell’orchestrare equilibrato racconto e memoria, Geologia di un padre individua una strada altrimenti poco battuta, dagli scrittori italiani, dai nostri romanzieri. Come sempre per il romanzo italiano, sarà difficile che questo vertice – sapiente miscela di ricordo, rimorso, racconto e invenzione, di prosa e poesia – possa farsi tradizione, essere cioè il primo di altri simili di altrettanto valore. Si ricomincerà, come scrive Asor Rosa, da capo anche stavolta. Anzi, con una strada in meno – una soluzione in meno – da percorrere. Ma questo è il bello del romanzo, del suo problema, e dell’incontrare, ogni tanto, una sua ammirevole soluzione: essa ci mostra che l’arte è possibile, e subito ci pone, di nuovo, il problema.

Giovanni Barracco


Si era occupato di Geologia di un padre anche Gabriele Tanda: leggi la sua recensione