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Pillole d'Autore - Febbre a 90': due o tre cose sul calcio che ho imparato da Nick Hornby

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Febbre a 90' è il primo libro di Nick Hornby. Non è un romanzo, ma nemmeno un saggio. Se volessimo a tutti i costi trovargli un'etichetta, potremmo inserirlo tra i Libri Parzialmenti Autobiografici: cioè quei libri che seguono, sì, la storia della vita di chi li scrive, ma solo come pretesto per raccontare un'altra storia. In questo caso, l'altra storia è quella dell'Arsenal, la squadra di calcio londinese di cui Hornby è tifoso sfegatato dall'età di undici anni; ed è una storia così strettamente collegata alla sua, che i periodi della vita di Hornby e i tempi del racconto sono scanditi secondo le date delle partite dell'Arsenal, dall'anno del battesimo del fuoco (1968) fino a quello della composizione del libro (1992).

Ora, un'autobiografia (anche una del tutto particolare come questa) è un genere a cui di solito si arriva alla fine della propria carriera di scrittore, non all'inizio; non bisogna forse accumulare un bel numero di esperienze, perché la propria esistenza abbia qualche possibilità di diventare interessante anche per gli altri? E poi, un'autobiografia "calcistica" non corre il rischio di interessare solo i tifosi o gli appassionati di calcio?

Nel primo caso, la risposta è senz'altro "sì, ma": dove il "ma" apre la strada a tutta una serie di eccezioni alla regola, di cui le più importanti sono forse le vite degli ossessionati. E Hornby è un ossessionato in piena regola, oh sì. È in grado di citare a memoria nomi, date, episodi, momenti significativi, numero di gol, sequenze di azioni di partite giocate 20 anni prima; non si perde una partita in casa, vive dalle parti di Highbury (lo stadio dell'Arsenal), e ha impostato gran parte della propria vita in parallelo con la sua squadra, arrivando a vedere parallelismi e analogie ovunque. La sua ossessione è tale da portarlo a dire di se stesso: "Per buona parte di una giornata qualsiasi, io sono un rimbambito".

Nel secondo caso, invece, la risposta è senz'altro "no": perché il racconto di Hornby ha coinvolto ed entusiasmato persino me, che riesco a nutrire un barlume di fuoco calcistico al massimo quando l'Italia arriva ai rigori in una finale dei Mondiali (quest'anno, infatti, non sono arrivato a vederne nemmeno un minuto). E ci è riuscito proprio perché, da "non credente", mi sono sempre chiesto cosa spinga un vero appassionato di calcio a interessarsi in modo così totalizzante a quegli undici omini microscopici che per 90 minuti corrono dietro un pallone tra le grida e gli insulti di decine di migliaia di spettatori

Il racconto di Hornby si può leggere in molti modi, e i passi che seguono sintetizzano quello in cui l'ho letto io: un'analisi del calcio dal punto di vista del suo consumo, raccontato da qualcuno che lo ama, lo odia e intorno a cui ha fatto girare buona parte della sua vita.


(Edizione di riferimento: Nick Hornby, Febbre a 90', traduzione di Federica Pedrotti e Laura Willis, Parma, Guanda, 2010, pp. 244, € 8,00; i titoli sono miei)


L'intrattenimento come dolore (Arsenal-Stoke City, 14.9.68)


Non ricordo molto della partita di quel primo pomeriggio. [...] Ricordo la travolgente maschiezza del tutto – fumo di sigaro e pipa, linguaggio osceno (parole che avevo già sentito, ma non da adulti, non a quel volume)... e ricordo di aver guardato la folla più che i giocatori. [...] Ciò che più mi colpì fu proprio quanto la maggior parte degli uomini intorno a me odiasse, veramente odiasse, essere là. Per quel che riuscivo a giudicare, nessuno sembrò trarre piacere, nel senso in cui io intendevo la parola, da niente di ciò che accadde in tutto il pomeriggio. A pochi minuti dal calcio d'inizio ci fu vera rabbia («Sei una vergogna, Gould. Una vergogna!», «Cento sterline a settimana? Cento sterline a settimana! Dovrebbero darle a me per guardarti»); man mano che il gioco continuò, la rabbia si trasformò in indignazione, e poi sembrò coagularsi in un torvo, silenzioso disagio. [...] Ero già stato a degli spettacoli, naturalmente; ero stato al cinema e alla pantomima e a vedere mia mamma cantare con il coro del White Horse Inn nella sala municipale. Ma era diverso. I vari tipi di pubblico di cui avevo fatto parte fino a quel momento avevano pagato per divertirsi e, sebbene occasionalmente si potesse scorgere un bambino irrequieto o un adulto che sbadigliava, non avevo mai notato visi contorti dalla rabbia o dalla disperazione o dalla frustrazione. L'intrattenimento come dolore era un'idea che mi giungeva del tutto nuovo, e sembrava essere qualcosa che stavo da tempo aspettando.


I maschi e il calcio (Arsenal-Coventry, 4.11.72)


La mascolinità ha in qualche modo acquisito un significato più specifico, meno astratto della femminilità. Sembra che molte persone considerino la femminilità una qualità; ma per buona parte degli uomini e delle donne la mascolinità è una serie di presupposti e di valori condivisi che gli uomini possono decidere di accettare o rifiutare. Ti piace il calcio? Allora ti piacciono anche il soul, la birra, pestare la gente, palpare le tette alle donne, e i soldi. Sei un tipo da rugby o da cricket? Allora ti piacciono i Dire Straits o Mozart, pizzicare il sedere alle donne, e i soldi. Non ti ritrovi in nessuna delle due categorie? Macho, nein danke? In questo caso vuol dire che sei un vegetariano pacifista, volutamente insensibile al fascino di Michelle Pfeiffer, convinto che le canzoni di Lither Vandross siano solo per cucadores incalliti. Si dimentica facilmente che siamo in grado di scegliere. In teoria è possibile amare il calcio, la musica soul e la birra, per esempio, ma aborrire i palpamenti e i pizzicamenti (o, dobbiamo ammetterlo, viceversa); uno può leggere Muriels Spark e ammirare Bryan Robson. È interessante il fatto che gli uomini sembrino più aperti delle donne ai cocktail: una mia collega femminista si rifiutò letteralmente di credere che io guardavo l'Arsenal, incredulità a quanto pare dovuta al fatto che una volta avevamo parlato di un romanzo femminista. Come potevo aver letto quel libro ed essere stato a Higbury? Di' a una donna intelligente che ti piace il calcio, e ti farai un'idea piuttosto deprimente della concezione che le donne hanno dell'uomo.


Ma di chi è il calcio? (Cambridge United-Darlington, 29.1.77)


Il calcio, com'è noto, è il gioco del popolo, e come tale cade nelle grinfie di tutta quella gente che non è, insomma, il popolo. Ad alcuni piace perché sono dei socialisti sentimentali; ad altri perché hanno frequentato le scuole private, e vorrebbero non averlo fatto; ad altri ancora perché il loro lavoro – di scrittore, giornalista televisivo o pubblicitario – li ha portato molto lontani da quello che considerano il loro luogo di appartenenza, o di provenienza, e il calcio sembra loro un modo veloce e indolore di ritornarci. E pare che siano proprio queste persone ad avere maggior bisogno di dipingere i campi da calcio come il rifugio di un sottoproletariato esasperato e degenere; dopo tutto, non è nel loro interesse dire la verità: che gli "occhi da bulldog" sono ben pochi, e spesso nascosti dietro un paio di occhiali, e che le tribune sono piene di attori e di modelle e di insegnanti e di ragionieri e di dottori e di infermiere, come di semplici lavoratori con il berretto e di teppisti spacconi. Senza la miriade di demonologie sul calcio, come possono dimostrare di capire il mondo d'oggi coloro che se ne sono allontanati?


Dolori pubblici e dolori solitari (Arsenal-Ipswich a Wembley, 6.5.78)


È uno strano paradosso: benché il dolore dei tifosi di calcio (ed è dolore vero) sia privato – ognuno di noi ha un rapporto individuale con il suo club, e penso che siamo segretamente convinti che nessuno degli altri tifosi capisca del tutto perché noi siamo stati feriti più duramente di chiunque altro – siamo tuttavia obbligati a lamentarci in pubblico, circondati da persone che esprimono lo sconforto in forme diverse dalle nostre. Molti tifosi esprimono rabbia contro la loro squadra o contro i supporter della squadra avversaria, un furore vero e volgare che mi sconvolge e mi intristisce. Non ho mai sentito il desiderio di fare così; io voglio starmene da solo a pensare, crogiolarmi un po' nel mio dolore e riprendere le forze necessarie per ritornare e iniziare tutto da capo.


Il calcio è tutto tranne che un divertimento (Arsenal-Stoke City, 13.9.80)

... il calcio è un universo alternativo, serio e stressante quanto il lavoro, con le stesse preoccupazioni e speranze e delusioni e gioie occasionali. Io seguo il calcio per una marea di motivi, ma non vado per divertirmi, e quando mi guardo attorno il sabato e vedo quelle facce accigliate, in preda al panico, mi rendo conto che anche per gli altri è la stessa cosa. Per il tifoso vero, il calcio come divertimento esiste nella stessa maniera in cui in mezzo alla giungla esistono gli alberi che cadono: presumiamo che succeda ma non siamo in grado di poterlo dire.


I migliori momenti della vita (Liverpool-Arsenal, 26.5.89)


Nessuno dei momenti che la gente descrive come i migliori della propria vita mi sembrano analoghi [a una vittoria di Campionato all'ultimo minuto, NdR]. Dare alla luce un bambino dev'essere straordinariamente emozionante, ma di fatto non contiene l'elemento cruciale della sorpresa, e in tutti i casi dura troppo a lungo; la realizzazione di un'ambizione personale – una promozione, un premio, quello che vuoi – non presenta il fattore temporale dell'ultimo minuto, e neppure l'elemento di impotenza che provai quella sera. E cos'altro c'è che potrebbe dare quella subitaneità? Una grande vincita al totocalcio, ma la vincita di grosse somme di denaro va a toccare una parte completamente diversa della psiche, e non ha niente dell'estasi collettiva del calcio. ... Siate tolleranti, quindi, con quelli che descrivono un momento sportivo come il loro miglior momento in assoluto. Non è che manchiamo di immaginazione, e non è nemmeno che abbiamo avuto una vita triste e vuota; è solo che la vita reale è più pallida, più opaca, e offre meno possibilità di frenesie impreviste.