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Salvarsi dallo scacco matto: Lo sbaglio di Flavia Piccinni

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Lo sbaglio
di Flavia Piccinni
Rizzoli, collana La Scala, 2011
pp. 312, 
€ 18,50
Se pensa di farmi pena, si sbaglia. In fondo, anche Franklin lo diceva. La vita stessa è una specie di partita a scacchi. E lei, lei avrebbe dovuto stare più attenta.


La partita: è questo il titolo con cui si apre il secondo romanzo di Flavia Piccinni, già Premio Campiello Giovani 2005 con "Adesso Tienimi" ed è proprio con una partita a scacchi che la protagonista Caterina si presenta al lettore senza insicurezze, spietata e consapevole di fronte alle 64 caselle bicolore e al suo avversario.
Ma l'amato modo di giocare di Morphyla sua capacità di muovere i pezzi e di orchestrare combinazioni mortali, il coraggio di sacrificare e di lottare anche in condizioni disperate, Caterina non è sempre stata capace di osarlo.
Gioca a scacchi da undici anni, ma la scacchista professionista che ha sempre sognato di diventare ha dovuto soccombere alla Caterina che gli altri volevano che fosse: studia con sottomissione Farmacia, perché sarà lei domani a gestire la farmacia di famiglia al posto di mamma Tina, nata a Taranto, che ha conosciuto il padre di Caterina nei corridoi dell’Università di Pisa, al primo semestre, e non l’ha più lasciato e che prima di arrivare in Toscana, alla civiltà, non aveva mai assaggiato il caviale né bevuto lo champagne, conosceva solo le cozze e i cannolicchi al limone, soltanto la birra Raffo.
Quando la protagonista considera la sua vita senza il suo fidanzato Riccardo con occhi da zingaro e capelli ricci e neri, figlio di un’industriale della carta, la immagina uguale, ma è un buon partito e poco conta se lo tradisce e forse non lo ama: dopotutto le donne non devono pensare all'amore.       
                                                                                                                       
La verità è che ho troppa paura di rischiare. È più facile affidarsi alle mosse degli altri, che scommettere sulle proprie.
Quando mamma Tina,  viene ricoverata in ospedale a seguito di un malore, tutti gli equilibri della famiglia Pagliai vacillano: Caterina deve gestire la farmacia, occuparsi degli affari di casa, del padre e del fratello, sostenere l'esame di patologia, ma soprattutto gestire l'arrivo dell'"ingombrante" nonna pugliese salita sul primo aereo da Bari per correre in soccorso della figlia, che ha vissuto la guerra e crede che essere magri sia peggio di una malattia e che non potrà arrivare mai a capire, neppure a sforzarsi, che la nipote sceglie di essere magra, sceglie di non mangiare.

L'istituzione della famiglia dell'alta borghesia per eccellenza, dove l'apparenza e le tradizioni regnano sovrane in una casa che trabocca di cose vecchie, dorate, di putti dalle espressioni gioiose fermate attraverso i secoli, di fotografie in bianco e nero, reliquie di Santi e dipinti di crocifissioni, del letto di nonna Caterina e nonno Ferruccio, si sgretola a ogni pagina, rivelandoci una realtà in cui nessuno è quello che sembra.


La bicolorità di ogni personaggio, come su una scacchiera, richiama l'antitesi cromatica bianco-nero della Gertrude manzoniana: Caterina scoprirà che tutto ciò a cui non riesce a ribellarsi forse non è mai esistito, che persino coloro che teme di deludere e di tradire non riescono a rinunciare a essere, se non in apparenza, quello che sono.

Quando gli eventi precipiteranno anche per Caterina e il suo sbaglio le chiederà il conto, la protagonista si troverà di fronte al bivio di rispettare il proprio volere o quello di mamma, nonna e zio Mario ancora preoccupati, mentre tutto sta crollando, di salvare il nome della famiglia.
Le debolezze e le incoerenze degli altri daranno la forza a Caterina per decidere chi essere: gli scacchi, che con i loro personaggi austeri sovrastano e impregnano l'intero intreccio narrativo e la mente della protagonista, rappresenteranno per lei la possibilità di riscattarsi, di spezzare per sempre una continuità generazionale fatta di apparenza e sottomissione e liberarsi dal destino di diventare come sua madre, o di essere già peggio di lei, come la accusa di essere il fratello Carlo, un adolescente ribelle ma fragile.
«È impossibile spiegarvi perché le persone decidono di dipingere invece di lavorare in banca. Suonare in un gruppo musicale piuttosto che studiare economia» si ferma. «Per voi o è bianco o è nero. Ma le persone non sono tutte uguali, ed è questo che non capite.»
Bianco o nero, esattamente come su una scacchiera. Sospiro. È proprio un adolescente. Anche io pensavo queste cose quando avevo la sua età. Poi sono arrivati gli obblighi e il dovere di accontentare anche gli altri, di non essere più egoista. La consapevolezza che è inutile resistere.
Una Lucca fredda e insolitamente nevosa fa da cornice alle vicende dal sapore gattopardesco di questa famiglia,  divenendone uno dei personaggi principali, spettatore tacito e spietato, figura allegorica della famiglia vista attraverso gli occhi di Caterina: una prigione conosciuta, perfetta nelle sue storiche mura e nei suoi impeccabili giardini, ma pur sempre simbolo di negazione di ogni libera espressione.
Sono stanca. Non voglio incontrare nessuno che conosco. Voglio essere lasciata sola con i miei pensieri anche se a Lucca è impossibile. Ovunque, compagni d’asilo o delle elementari, ragazze con cui ho frequentato le medie o le superiori.
E poi vicini di casa, compagni di circolo, bambini con cui ho fatto il catechismo. Da tutte le parti, amici di mamma e papà, ficcanaso che sanno chi sei e fanno finta di niente. Ovunque, pezzi del mosaico della mia infanzia, della mia adolescenza, della mia vita. L’unico modo per scappare da quello che sono, e non ho mai voluto essere, sarebbe andare via, prendere un treno e non tornare più. Qui tutto è una prigione. Le mura medievali con i tigli e le querce, i baluardi dalle altalene colorate, i fiori gialli che crescono vicino alle panchine e le panchine che affacciano solo, sempre, esclusivamente sulla città. Lucca è una finestra su un meraviglioso cortile in cui non succede niente. Le stagioni passano, gli alberi si spogliano e proiettano la loro ombra sulle strade vecchie, ma tutto è immobile e fermo come se neanche il vento arrivasse più.  


La neve cade anche su ogni parola, precisa e trasparente, e un vento gelido investe chi legge: i personaggi, compresa Caterina, come paralizzati e anestetizzati, agiscono con freddezza, seppur scossi a tratti da scatti passionali descritti con poca enfasi; nelle loro azioni ciò che manca è l'amore: nessuno sembra agire mosso da questo sentimento, se non da quello verso sé stesso.

Quello che tuttavia è riuscita a fare la scrittrice, attraverso periodi brevi, semplici e puliti e una narrazione al presente in prima persona, è suscitare emozioni e scatenare riflessioni  nel lettore: un'ardua impresa in mezzo a ghiaccio, delusioni e disincanto che annientano qualsiasi speranza di lieto fine.
 
Flavia Piccinni, nata a Taranto nel 1986 e cresciuta a Lucca, scrive in questa anti-favola di ciò che conosce bene: giocatrice professionista di scacchi ne converge le regole e le dinamiche in un romanzo che narra di una generazione che per prima ha il coraggio di non credere a niente piuttosto che perseguire con apparenza valori perduti forse troppe generazioni fa, per non essere più una pedina, ma un giocatore, artefice del proprio destino anche nella sconfitta.

Elisa Pardi