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Justine 2.0 - Il cuore è soltanto un muscolo

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Justine 2.0. Il cuore è soltanto un muscolo
di Elena Bibolotti

Ink Edizioni, 2013


14,00 €



Justine 2.0 - Il cuore è soltanto un muscolo non mancherà di sorprendere chi suole identificare la letteratura erotica con i volumi dalle copertine ammiccanti che invadono la sezione “best seller” di ogni libreria. La sua giovane autrice si tiene lontana dalle pseudotrasgressioni spacciate da molti scrittori come necessarie per rompere l'opprimente muro di conformismo e puntualmente rivelatisi, agli occhi di ogni lettore minimamente smaliziato, come meno nobili tentativi di conquistare le vette delle classifiche facendo leva sulle pruderie di chi, peraltro, in quel conformismo ci sguazza appieno e ne interiorizza tabù e resistenze. Elena Bibolotti costruisce una narrazione equilibrata dove gli ingredienti marcatamente erotici non sono, o in ogni caso non sono soltanto, ami disseminati qua e là per adescare il lettore e indurlo all'acquisto del libro. 
L'assunto base, per così dire, è uno soltanto, è ripetuto più volte e declinato in mille diversi modi, osservato da più punti di vista e sottoposto a riflessioni e critiche che ne riaffermano la validità: l'amore può includere in sé ogni coppia di opposti,  può essere violento ed estremo all'interno di una relazione consapevole senza essere, però, degradato o degradante. Al contrario, la violenza che non eccita e umilia solamente è quella di una società che contempla l'utilizzo del corpo come merce di scambio, come strumento di promozione e magari di sopravvivenza in un meccanismo in cui l'elemento piacere è ridotto a fremito fisiologico ricompensato in base alle leggi di mercato. 


Justine, la protagonista, si scontra fin dalla prima pagina con una realtà che lascia pochi margini al sogno, e di sogni arte e letteratura è intrisa l'affascinante donna «nata e cresciuta nel bello, nell'amore e nel rispetto per la cultura , l'estetica e la letteratura» (p.14). Raggiunta da un avviso di sfratto dalla padrona di casa, espressione della più bieca superficialità e vuoto mentale (è una 'forzaitaliota', basterebbe questo per caratterizzarla in negativo al massimo grado), dà l'avvio a un rincorrersi di ricordi e tentativi di reggere l'urto di un matrimonio concluso e di una vita che non vuole saperne di assestarsi lungo binari stabili e statici, binari auspicati dalle nonne pronte a stigmatizzare la sua vita libertina occhieggiando ostili dalle loro cornici fotografiche. Al fondo di ogni azione pensata o praticata da Justine, ancor prima della ricerca di ordini da eseguire e punizioni che siano al contempo fonte di piacere – «[...] Sono nata per eseguire ordini» (p. 160) – , scorre l'assoluto bisogno di toccare con mano un mondo in via di dissoluzione. Gli aspetti elementari dell'esistenza, sessualità in primis, tendono a liquefarsi e ad affogare nel mare magnum della virtualità. Il contrasto tra analogico e digitale è lacerante e insanabile. In questo dissidio la protagonista si incaglia, sospesa tra un'esistenza letteraturizzata, e dunque anch'essa tendenzialmente artificiosa, e un ambiente circostante depotenziato e in sordina, l'involucro che resta dopo che la vita sentita, urlata, sofferta e goduta ha preso a cristallizzarsi in reti di byte e nickname. Da “navigatrice” assidua in cerca di un maschio alfa che difficilmente, una volta venuti meno gli schermi dei pc, realizzerà ciò che le parole scambiate in chat hanno lasciato intendere, la “donna bambina” è ben conscia della contraddizione così difficile da superare:

«Era assurdo come con una mano cercasse di strappare il velo di Maya e con l'altra innalzasse un muro altissimo davanti alla realtà. Justine odiava quella nuova rabbia verso il mondo che le impediva di mostrarsi così com'era, che la costringeva a mettere maschere una sull'altra, così perfette da essere sempre su misura per ogni situazione, per ogni nuova storia, per non essere più abbandonata.» (p. 66).
La massima incarnazione della realtà analogica, ovvero della realtà, è rappresentata da M., il master incontrato poche volte nell'arco di venti anni ma costantemente presente nei pensieri della donna. La figura del Padrone, violenza perfettamente speculare alla remissiva submissive, è il ricettacolo in cui le umiliazioni inflitte alla protagonista e la sua tentata nullificazione (“Troietta” è l'appellativo più frequentemente utilizzato da M.) si sublimano in un amore osceno, sacro e fortissimo. Un ossimorico dolore dolce che altri chiamerebbero parafilia e depravazione.


Justine 2.0 difficilmente lascerà il segno nella storia della letteratura contemporanea, ma merita attenzione e presenta almeno due punti di forza non così comuni nelle pubblicazioni di autori esordienti e non. Innanzitutto, la sua prosa è ben controllata, vigile e mai, o quasi mai, disposta a  scendere a patti con la tentazione, che pure si percepisce, di farsi decorativismo e ornamentazione estetizzante. È, insomma, un libro scritto bene, e non è certo un dato scontato. Inoltre, ed è una caratteristica ancora più rara considerando la natura del romanzo, viene evitato il facile pericolo “psicologizzazione”. Di fronte all'impulso di Justine che la spinge a subire mortificazioni per eccitare corpo e mente, l'autrice non si perde in supposizioni e descrizioni ipertrofiche tese a motivarne le origini e le cause. Le eccessive interpretazioni psicologiche un tanto al chilo possono essere sufficienti a invalidare la buona riuscita di un romanzo, e in questo caso il rischio è brillantemente scongiurato.


Molto meno piacevole, invece, risulta l'abbondanza di citazioni di autori e opere letterarie, artistiche e filosofiche. Nelle prime dieci pagine ci imbattiamo in Giordano Bruno, Barthes, Gibran, Lao-Tzu, Proust, Flaubert, Tolstoj e Marx. Certo, va da sé che entro precise coordinate si colloca il personaggio principale, presentato fin dall'inizio come sensibile a ogni stimolo intellettuale, ma il dubbio – più che lecito agli occhi di chi scrive – è che l'autrice stessa si avvolga in imponenti elencazioni di personaggi illustri, invero non strettamente funzionali allo svolgersi dell'intreccio né alla caratterizzazione dell'ambiente narrativo, per dare un'immagine culturalmente “forte” di sé e della sua opera. Non ce ne sarebbe davvero bisogno: il romanzo saprebbe reggersi benissimo sulle proprie gambe senza eminenti puntelli. Del resto, non è questo un limite in grado di danneggiarlo seriamente. Valga piuttosto come consiglio, opinabile ed espresso senza la presunzione di ritenerlo inattaccabile, per le successive prove letterarie: tendere all'essenziale, all'asciuttezza stilistica e all'assenza, almeno esplicita, di sovrabbondanti riferimenti “alti” potrebbe impreziosire ulteriormente una scrittura già matura e indiscutibilmente convincente.