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"La città di pan di zenzero" di Jennifer Steil

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 La città di pan di zenzero 
di Jennifer Steil
Piemme, 2012

pp. 462
€ 9,90

Jennifer Steil è una donna americana che in questo libro racconta la propria intensa esperienza come capo redattrice al giornale Yemen Observer. Apprezzata giornalista a New York, un giorno Jennifer decide di fare un’esperienza lavorativa nuova approdando in un paese straniero, lo Yemen, tuttora complesso da un punto di vista sociale, culturale e politico. La donna è fermamente convinta di poter diffondere il proprio «vangelo giornalistico» all’interno di una cultura professionale lavorativa assai differente da quella americana.
La situazione che trova alla redazione del giornale rispecchia paradossalmente la realtà esterna: la redazione è apparentemente eterogenea, composta da uomini e donne, ma i maschi  godono di una libertà d’azione assoluta rispetto alle redattrici; sono coloro che arrivano tardi al giornale, hanno una pausa pranzo che può durare alcune ore, masticano in continuazione il qat (un’erba che dà gli stessi effetti di una droga ed è legalizzata nello Yemen), privilegi incomprensibili per qualsiasi paese occidentale e che danno una resa sul piano giornalistico disastrosa: la cronaca, infatti, risulta essere assolutamente fuorviante e lontana dai reali accadimenti quotidiani. Corruzione e copiatura sembrano essere  i due elementi che più infastidiscono la giornalista. Non solo.
C’è qualcos’altro, infatti, che turba inizialmente Jennifer: ben presto la giornalista si rende conto di come sia difficile l’ambientamento nello Yemen: le donne vengono importunate di continuo e la donna è costretta, per poter vivere apparentemente in modo tranquillo, a mentire sul suo status familiare: racconta infatti di essere sposata e di non aver avuto (per il momento) dei figli.
 Al giornale Jennifer inizia a insegnare ai ragazzi nuove tecniche di scrittura e a spiegare esattamente quale possa essere, anche in un paese come lo Yemen, il corretto ruolo del giornalista. Non sarà un compito semplice il suo: inizialmente dovrà farsi accettare sia dalla redazione e cercare di essere compresa all’interno di una società in cui le donne girano ancora con l’hijab, il caratteristico telo che avvolge ogni donna yemenita.
    
Lentamente la protagonista del racconto stringe amicizie salde sia con le donne che con i colleghi, ma mantiene sempre una posizione di netta difesa soprattutto con i maschi per ottenere  da loro stima e condivisione. È un obiettivo arduo: gli uomini mantengono, per lungo tempo, le loro consuetudini quotidiane e non mancano, nel corso della narrazione, momenti di sconforto, liti ed esplosioni di rabbia verso i colleghi che non bastano a cambiare le radicate tradizioni culturali di cui continuano a “usufruire”. Si tratta di resistenze molto forti che appartengono ancora ad una cultura che non vuole accettare le regole della corretta vita sociale e culturale che stanno alla base della nostra società.
A Jennifer non resta che apprezzare i piccoli, ma significativi progressi, che tutti i redattori conseguono con il trascorrere del tempo: le lezioni al giornale iniziano pian piane a essere proficue: sebbene ancora infarciti di troppi errori, gli articoli appaiono più veritieri, personali e ogni redattore si sforza di attingere a più fonti, rielaborando lo scritto. Certo, l’ultima correzione spetta ancora a Jennifer, ma la donna si sente più gratificata: iniziano ad essere trattati argomenti delicati per la cultura yemenita, come l’AIDS (seppur con l’aiuto di tabelle statistiche e un orientamento più generalizzato che locale…) e il problema dell’enorme analfabetizzazione del paese in cui le donne occupano ancora una parte troppo rilevante. 
Dopo aver terminato il contratto che la lega al giornale yemenita, Jennifer torna negli Stati Uniti, ma non ne rimarrà per lungo tempo. Il desiderio di ritornare nello Yemen per portare avanti l’opera appena iniziata la spingerà a ripartire. L’obiettivo che si prefigge Jennifer è quello di preparare un capo redattore che la possa sostituire al momento del definitivo addio.
In particolare i dissapori tra la protagonista e qualcuno dei redattori verranno in qualche modo, messi da parte, durante le concitanti fasi che attraverserà il giornale a causa di un processo ai danni di un redattore, reo di aver pubblicato una vignetta umoristica sull’Islam.
In una situazione estrema, Jennifer però troverà il tempo per l’amore, tanto forte da condizionare notevolmente le sue scelte future.

Una bellissima narrazione, assolutamente coinvolgente in cui ancora una volta una donna mette a disposizione tutta se stessa per offrire la propria esperienza professionale e umana al servizio degli altri. Un racconto denso di particolari emotivi e a tratti concitati in cui la protagonista, attraverso la propria testimonianza, desidera che l’indipendenza e l’autonomia possano diventare anche in un paese come lo Yemen, qualcosa di raggiungibile. Jennifer è ben consapevole che i valori saldi  che rappresentano la base del lavoro in cui lei ha sempre creduto si scontrano con la realtà tuttora esistente nello Yemen: le donne sono ancora discriminate, occupano ruoli lavorativi secondari e purtroppo vengono spesso molestate. 
         
Jennifer Steil ha imparato ad amare questo paese perché in fondo non esiste un luogo che non abbia conosciuto momenti di tensione, di conflitto sociale e politico. Un luogo, la «Città vecchia di San’a, un agglomerato di case quadrate color biscotto, dall’aspetto di glassa bianca, circondato da mura spesse e alte» che lei chiama pan di zenzero, perché ha imparato ad apprezzarne le differenti “sfumature” umane, è diventanto per lei vero e proprio “pane di vita:” dal “profumo di canfora e dal sapore pungente”, questo luogo, che ha bisogno ancora di nuove prospettive di sviluppo e di integrazione, è ora il suo nuovo ambiente di vita.  

Mariangela Lando