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Andrea Camilleri, "La Regina di Pomerania e altre storie di Vigàta": comicronaca di un viaggio

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Andrea Camilleri, La regina di Pomerania e altre storie di Vigàta, Sellerio 2012.

Stamani mi sono alzata con un cerchio alla testa e il cervello brulicante di immagini e parole. Il passo era strascicato, la bocca impastata e le mani sudaticce. Gli occhi socchiusi nel vano tentativo di mettere a fuoco quelle immagini mentali sfocate. Se pensate che stia descrivendo i postumi di una sbronza, vi sbagliate di grosso. Niente alcool in questa storia. È semplicemente lo stato del viaggiatore incallito, lo stato dell’irrequieto che si ferma a riflettere. E poi, boom! Le immagini, le parole, le idee, i ricordi ti annebbiano la mente. Il puzzle si ricompone e tutto diventa più chiaro. La realtà si scontra con il ricordo, e finalmente puoi scrivere il tuo diario di bordo mentale. Ripercorrere il viaggio appena compiuto e trarne le somme finali.

Ho sognato Vigàta. No, sono stata a Vigàta. No, ho vissuto Vigàta. Vigàta… collocata in Sicilia, sì. Piccolo paesino di provincia, stretta cerchia di abitanti, chi conosce chi. Tu sei l’estraneo. Il puntino nero in una distesa bianca. L’albero di Natale il giorno di Pasqua, con tanto di lucine e canzoncine annesse. Ma si tratta solo di un’illusione. Già, un fitto ammasso di nebbia che viene spazzato via da una figura sconosciuta che ti prende sotto braccio, silenziosamente, facendoti sobbalzare. E con quel suo siciliano beddro beddro ti fa da guida. La figura narrante – sì, rendiamola neutra, antropomorfa così come si presenta – ti sorride sorniona e ti strizza l’occhio, si compiace del tuo spaesamento. Perché l’essere estranei, l’essere al di fuori, rende il ruolo della guida più magico. E dopo un paio di minuti, quel siciliano tanto musicale comincia a battere al ritmo del tuo cuore. Ma anche dell’orecchio e della mente, che quasi dimentica la lingua materna per tradirla con la nuova arrivata. Una lingua che diviene identità, simbolo caratterizzante di un popolo dai tratti pregnanti. Forti. Specifici. Una serie di personalità tanto distinte e chiare quanto unite e partecipi della propria società.
La figura narrante ti porta a spasso tra luoghi e tempi, quartieri e classi sociali. Prima il 1890, poi i primi anni del ‘900, poi catapultati nello scenario della guerra, poi di nuovo indietro alla fine dell’Ottocento. Eppure, il tempo non sembra passare. Che si tratti di un fantomatico Romeo, di una finta Madonna, di creduloni che si danno alle sedute spiritiche per il riscatto di un’eredità, di due gelatai che lottano a suon d’ingegno per il proprio business o di una finta regina “scroccona”, i Vigàtesi si presentano per quello che sono. Persone legate alle tradizioni e ai valori, persone semplici e nel profondo ingenue, ma che alla prima occasione utile ribaltano quegli stessi valori e si danno alla pazza gioia. Abitanti apparentemente divisi, ma in realtà più uniti che mai. Numerosi, numerosissimi, si imprimono nella mente dei passanti che li osservano con la forza delle loro storie e delle loro identità. E per la semplicità con la quale vengono presentati da quest’unica guida antropomorfa che, anonima e amica del passante, si diverte a narrare pensieri, parole, opere e omissioni. Il cordone tra le varie epoche, i vari nomi e cognomi che si susseguono e le storie verosimili – ma allo stesso tempo bizzarramente inverosimili – è dato proprio da lui. Un moderno Virgilio a spasso tra i gironi di Vigàta con un’ignara, ennesima passante. 

Il segreto dei vigatèsi sta nell’originalità. All’inizio, sembrano annoiarti e fai quasi per andartene. Il solito paese, la solita gente, il solito sentito dire, i soliti pregiudizi. Poi, il riscatto finale. Se al ritorno da Vigàta ti ricordi di Amalia Privitera – la quale muore proprio lì davanti ai tuoi occhi, nella maniera più rapida e anonima – vuol dire che quella figura ti ha colpito. Ebbene, la freccia che ti ha colpito proprio al centro del petto si chiama miss originalità. Amalia imprime la sua immagine di finta immacolata nel ricordo della gente anche dopo la morte, assicurando un futuro al figlio ignaro di tutto. Cecè è l’unico vigatèse che piange disperatamente per la morte dell’eterno nemico in affari Micheli. Tanto da morirne di disperazione. Il distinto console-marchese di Pomerania è in grado di raggirare in modo indisturbato l’intera popolazione di Vigàta. Manueli si rivela invece un Romeo superficiale e affrettato nell’agire. Tanto da perdere la bella Agata- Giulietta. E tu sorridi. Sorridi per l’ingenuità di quella gente che non riesce ad uscire da certi schemi mentali. Attenzione però, non è un sorriso sprezzante o da sfottò. E’ un sorriso di complicità alla tua guida che osserva in silenzio le tue reazioni. Perché la guida, sa esattamente il tipo di impatto che hanno i vigàtesi sugli estranei. E non può non compiacersene.


Tu, ormai, sei uno di loro. Sei un vigatèse. Ti accingi a raccontare la tua di storia. Io, vigatèse di passaggio, nell’anno in corso. 2013? 1914? 1890? Chi può dirlo? In quel groviglio di date e vicende rimani stordita. Perché quelle date vengono pronunciate tutte d’un fiato, en passant, proprio al principio della storia. E se sei attento e preso, alla fine te ne ricordi. Ma anche se il passante non ci bada, non cambia poi molto. Come ho ribadito già più volte, il tempo dei vigatèsi è fossilizzato. Non nell’accezione negativa del termine, in quanto semplicemente non vedono la ragione di un possibile cambiamento. Loro stanno bene così. Di cambiamenti non si parla mai, né nell’aria si avverte puzza di stantio. L’essere fossilizzati li rende paradossalmente più originali. A diventare scontata, sembri essere proprio tu, ennesima passante con l’ennesima e medesima reazione da sciocca spaccona e per giunta spocchiosa tuttologa. Non puoi essere da meno, devi omologarti alla loro ingegnosità.

Potresti iniziare proprio dall’incontro con la guida che ti ha spaventata. Col tuo italiano accademico, potresti aggiungere qualche parolina vigatèse per darti delle arie e farti tanticchia ammirare dal resto della gente. Perché l’idea di essere tu la novità del momento, ti stuzzica la mente. Allora ti volti verso la guida e cerchi di proporgli la tua idea. Vuoi essere presentata ai vigatèsi, proprio sul più bello, quando Binvenuto si ritrova con ben tre padri. E’ fatta, è il tuo momento. Già assapori il titolo e…
“[…] i personaggi, e le situazioni nelle quali essi si vengono a trovare, sono frutto di mia invenzione […]”
Boom! È l’onomatopea del viaggiatore che sbatte incontro al tran tran quotidiano che gli ricade dritto dritto dal cielo alla velocità di un missile assetato di sangue. Ti ritrovi con un libretto dalla copertina blu tra le mani, una tanica di caffè sul comodino e il rumore della pioggia che ti ricorda di aver passato l’intera domenica a casa. Era un viaggio, sì, ma un viaggio interiore. Un viaggio nella Vigàta di Andrea Camilleri. E a quel punto, non so dare un giudizio. Incolpare l’autore per averti coinvolto troppo a tal punto da farti perdere il contatto con la realtà o ringraziarlo per averti allontanata proprio da quel maledettissimo mondo? Dopotutto, che importa? A me, Vigàta, mi piacque tanticchia.

Prosegui nel leggere quella che ai tuoi occhi appare essere l’epigrafe apposta al tuo castello di sabbia: “Non inventati sono invece i rituali, gli usi, i comportamenti personali e collettivi di un’epoca che, pur recente, appare lontanissima nel tempo”. La guida ti sorride sorniona, ti stava osservando di sottecchi, è compiaciuta. Sì, sono stata a Vigàta. Poco importa se fisicamente o mentalmente. I Vigatèsi vivono di carta e inchiostro. Palpitano a suon di siciliano e passioni. Sciorinano vicende passionali degne dei personaggi boccacciani. Vigàta è presente in questo libro. Nella mia mente. Nella mente dell’autore. Nella mente dei lettori. Vivono. E io non posso far altro che prolungarne la memoria in questo intenso – seppur breve – diario di viaggio. Baciamo le mani.

Arianna Di Fratta