Un anno pieno di... libri!

Il 2012 è stato un anno pieno di libri meritevoli, degni di essere ascritti alla Letteratura che lascia traccia nel tempo. Ma è stato anche un anno ricco di festival, eventi, incontri con scrittori che ci hanno concesso interviste e qualche parola per il nostro lavoro... CriticaLetteraria è cresciuta, il nostro team ad oggi conta oltre cinquanta redattori e non possiamo che ringraziare ognuno per l'impegno e la passione. Tuttavia, il primo grazie è per voi, che ogni giorno passate di qui per condividere letture, impressioni ed emozioni. Per questa ragione, abbiamo pensato di ripercorrere insieme le tappe fondamentali del 2012 "letterario": ogni link, qui sotto, vi reindirizzerà a nostri pezzi sull'argomento. 

Auguri, buon Capodanno e buon 2013!
La Redazione


ESC: quando tutto finisce

Esc. Quando tutto finisce
antologia a cura di R. Astremo e M. Maraschi

Hacca Edizioni, 2012


Il 2012 è stato un anno controverso (quale anno, infondo, non lo è?) e parecchio denso di situazioni al limite dell'umana sopportazione: abbiamo assistito, infatti, all'epopea dello spread, allo stillicidio delle tornate elettorali, ai vari concorsini e concorsoni per i giovani e vecchi precari, e questo, solo per quanto riguarda la situazione italiana. Insomma, ce ne sono stati eccome di segnali incontrovertibili che ci mettessero in allarme circa il vituperato (e in qualche caso anche auspicato!) avverarsi della profezia dei Maya, che il mondo sarebbe finito il 21 dicembre scorso, inesorabilmente, phuf, un colpo di spazzola prima di andare a dormire, per sempre.

Pillole d'Autore: Nelly Sachs, la poetessa dell'olocausto


“Ma tu capisci, viviamo entrambi nella patria invisibile.”
(Corrispondenze, Il nuovo Melangolo 1996)
Questo scrisse Nelly Sachs a Paul Celan, amico con cui condivise tanto la passione per la poesia che la condizione di esule. Entrambi ebrei, infatti, negli anni del nazismo, erano fuggiti per trovare la salvezza lontano dalla propria patria. Leonie (Nelly) Sachs era tedesca; nacque a Berlino nel 1891 da William Sachs, ebreo, e Margarete Karger. Fu il padre a trasmetterle l’amore per l’arte e per la musica, ma il suo autoritarismo non aiutò Nelly a uscire dal guscio della timidezza e della malinconia. Al contrario, l’opporsi dell’uomo alla relazione intrapresa dalla figlia con un ragazzo di cui non sappiamo il nome, fece cadere la poetessa in uno stato di depressione che l’avvicinò all’anoressia...

CriticaLibera: Gianfranco Contini, nel centenario della nascita


Pisa, 11 dicembre 2012; Firenze 12-13 dicembre 2012. Parlare di un intellettuale come Gianfranco Contini è ardua impresa: e non solo per la varietà dei suoi contributi culturali, tanto multiforme da rendere impossibile un ritratto organico della sua esperienza. Potremmo parlare di tanti Contini: il Contini critico, "lettore analitico e fulmineo classificatore" (Claudio Ciociola) di tante figure della letteratura contemporanea, primi fra tutti gli amici Gadda e Montale; il Contini filologo, editore, per citare i lavori più noti, delle Rime di Dante e dell'opera in volgare di Bonvesin della Riva, nonché del capitale Poeti del Duecento; il Contini dialettologo e linguista; il Contini poeta - "Per ora diranno che son le poesie di un critico (ma che vuol dire? E Sainte-Beuve?) ma molti si morderanno la coda. Ti rileggerò, ti rileggerò...", gli scriveva Montale nel 1939 - e, soprattutto, il Contini epistolografo, maestro in quest'arte del dialogo a distanza, che si tratti dell'icastica brevitas di una cartolina o di una più distesa scrittura epistolare.
Tante facce di un inesausto "poliedro continiano" (Marco Mancini) difficile da scomporre in facce distinte l'una dall'altra, perché legate, in fondo, da un'incredibile coerenza di metodo e onestà... 

Patrizia Valduga: cantare l'amore in quartine

Cento quartine e altre storie d'amore
di Patrizia Valduga
Torino, Einaudi, 1997


Vero capolavoro della comunicazione del desiderio di coppia è Cento quartine e altre storie d’amore, che nel 1997 segna un ritorno al canzoniere.[1] Si potrebbe leggere l’opera come un dramma teatrale, che rispetta le tre unità aristoteliche di tempo (una sola notte), luogo (una camera imprecisata) e azione (la passione); tutto avviene sulla scena, ma è anche raccontato performativamente dal coro degli amanti. In cento quartine, l’io-lirico e il partner descrivono e narrano al tempo stesso un itinerario erotico e conoscitivo [2] destinato a realizzare la comunicazione. Per dirla con Lacan, la parola è

Huckleberry Finn: la finzione in un capolavoro americano

Le avventure di Huckleberry Finn 
di Mark Twain


Garzanti, 2009
€ 8,00





Non ha certo bisogno di presentazioni Huckleberry Finn di Mark Twain, ma come spesso accade per i grandi romanzi, vale sempre la pena rileggerli (...o leggerli, perché no?). Se non fosse stato per quella frasetta uscita fuori dal poco amato Hemingway cacciatore e messa per iscritto dall’apprezzato scrittore che era, forse nessuno citerebbe mai Verdi colline d’Africa, romanzo del 1935 non osannato né dai critici né da gran parte dei fan dell’autore. Ad ogni modo, la frasetta famosa (la trovate in Verdi colline d’Africa, nel primo volume dell'edizione Meridiani Mondadori, a pag. 1111) è quella che vede il romanzo di Mark Twain (prima edizione del 1884) come antesignano di tutta la letteratura americana. Come a dire che le vicende di Achab hanno minor valore letterario di quelle di Huck Finn? Hemingway aggiunge inoltre che non solo prima, ma neppure dopo, in tutta la letteratura americana ci sia stato qualcosa che l’abbia superato. Forse perché in Huckleberry Finn c’è tanta America, con la sua gente e le sue tante lingue. Riprendendo le parole di Giovanni Baldi (tratte dalla prefazione dell’edizione Garzanti) [1] «[…] grande romanzo nazionale che per la prima volta abbandona la lingua aulica dei grandi romanzi dell’Ottocento americano [Gordon Pym, Lettera scarlatta, Moby Dick] ponendo le basi del linguaggio letterario del romanzo americano del Novecento»...

Raccontare per salvare e salvarsi: I frutti dimenticati di Cristiano Cavina


I frutti dimenticati

di Cristiano Cavina

Marcos y Marcos, 2008





Cristiano Cavina è nato a Casola Valsenio in provincia di Ravenna, paese dei frutti dimenticati. Pere volpine, mele delle rose, giuggiole, sorbe. Nomi che non dicono molto, ma ogni terzo fine settimana di ottobre vengono ricordati in una festa affinché almeno un po’ rimangano nella memoria dei visitatori.
Ed è nel paese dei frutti dimenticati che Cavina costruisce una storia, in parte autobiografica, che intreccia ricordi d’infanzia, scoperte inaspettate e nuove gioie. C’è nel suo romanzo I frutti dimenticati un’urgenza, un’ansia di fissare quei momenti che accompagnano la vita di ogni uomo, ma che non tutti hanno il coraggio di guardare in faccia. Cavina mette in gioco se stesso, le sue colpe ma richiama anche quelle degli altri.

Il giovane Holden: una lettura in tre atti


Il giovane Holden
di J.D. Salinger

Einaudi 2008
pp. 248
€ 12

In molti si sono lasciati conquistare dalla figura di questo dis-graziato ragazzo americano uscito dalla penna di uno scrittore originale come Salinger. Queste poche parole non hanno l'intenzione di aggiungere interpretazioni o di fornire nuovi criteri di ermeneutica o di fenomenologia di un racconto che ha segnato milioni di lettori ed è divenuto il simbolo di molteplici realtà sociali e culturali. L'intento è solo quello di condividere e di evidenziare delle percezioni personali suscitate dal testo. In questo senso, si propongono tre riflessioni basate su tre aspetti del racconto di Holden.

Le anatre del Central Park.

Sembra una pazzia, e anche il protagonista lo ammette, ma continuamente la narrazione ritorna sulle anitre del Central Park e sulla loro destinazione durante i freddi inverni newyorkesi. A più riprese Holden domanda e si domanda che fine facciano le anitre del laghetto quando d'inverno è ghiacciato. Domanda paradossale per un personaggio che dichiara, a un certo punto, di sapere che i volatili emigrano nei periodi freddi. Una domanda semplice, che però a guardarla bene ritorna, magari con forme diverse, nelle nostre vite di tutti i giorni. Forse non ci chiediamo dove finiscono le anitre ma ci chiediamo dove sia finito quel primo amore, o quell'amica o quell'amico che negli anni non abbiamo più sentito o frequentato. Ci chiediamo dove sono finiti quei sentimenti che ci hanno afflitto o rallegrato, se sono nascosti sotto la coltre di ghiaccio dell'indifferenza, verso di noi e verso l'altro, o se qualche addetto li ha caricati tutti su un camion e li ha portati via, impoverendo il nostro sentire o sollevandolo da scomodi fardelli.

Auguri!


Buon Natale da tutta la redazione!



CLetteraria's Natale 2012 album on Photobucket

SPECIALE #Natale: Natale in casa Cupiello

Natale in casa Cupiello
di Eduardo De Filippo

Einaudi, 1964 (1931)



«Parto trigemino con una gravidanza di quattro anni»,-: così Eduardo De Filippo definisce la nascita di quella che è considerata una delle sue prime grandi commedie. Natale in casa Cupiello, infatti, si presenta inizialmente come atto unico, solo in seguito verrà arricchita da un primo e da un terzo atto che fungeranno rispettivamente da prologo e da conclusione. Una costruzione a più tempi, quindi, che non crea un’opera spezzata o incoerente. Con le sue aggiunte Eduardo supera la struttura tradizionale che si nutriva della farsa, supera il teatro paterno scarpettiano e costruisce un’opera che va oltre, colma di umanità e umorismo tragico.

La collina del vento: Abate vince col romanzo familiare


La collina del vento

di Carmine Abate

Mondadori, 2012


pp. 260
cartaceo € 17.50
ebook € 9.90

Non gli fu difficile scegliere dove costruire la sua nuova città perché i luoghi ti attraggono come le persone, ti seducono con il loro sguardo luminoso, la lingua di vento, il profumo mai sentito prima. (75)
Il luogo è il Rossarco, forse una volta Krimisa, colonia della Magna Grecia fondata da Filottete: un promontorio che porta con i suoi ulivi e le sue sterpaglie l'eredità dolce-aspra della calabresità atavica. Quanto si può lottare per conservare i suoi profumi, la sua fisionomia così riconoscibile contro i mutamenti del tempo e l'intervento dell'uomo predatore? Tanto, e la famiglia Arcuri lo sa bene, di generazione in generazione: il Rossarco deve restare così come è stato trovato, per quanto la Storia possa invadere - e parliamo della storia delle grandi guerre, ma anche dell'archeologia che vuole accertarsi della presenza di Krimisa, a costo di distruggere la collina. 
Se i Malavoglia avevano il nespolo, agli Arcuri resta un'intera collina a rappresentare la fatica, il lavoro ma anche la cura e i momenti felici della famiglia, nonché motivo di forza e immagine ricorrente quando i protagonisti sono lontani: 
E se qualcuno gli chiedeva come fosse accaduto il miracolo, come avesse resistito nell'inferno delle trincee, Arturo rispondeva senza esitare, ma con un velo d'ironia nello sguardo: "A parte i genitori, ho pensato notte e giorno alla nostra collina. Non potevo morire. Dovevo tornare vivo, dovevo, macàri ferito ma vivo, per sentire ancora il suo profumo" (23). 
Tuttavia il Rossarco non è solo luogo incantato della memoria, ma nasconde il terribile segreto con cui si apre il libro: un duplice assassino, poi occultato sotto la terra compiacente del Rossarco. Il mistero serpeggia di generazione in generazione, senza che mai si sveli; talvolta riemerge tra le domande della famiglia, che lo crede destinato a restare nella sfera dell'irrisolto. 
Come le rovine archeologiche, a riprova della Storia, anche la Verità trova la sua via per svelarsi e per liberare finalmente gli animi di chi sapeva:
E più raccontava e più si rasserenava, come se finalmente potesse liberarsi di zavorre insopportabili o trovasse, nelle storie, le motivazioni e la forza per separarsi da Spillace. (14)
Per rendere il chiaroscuro continuo della verità e della giustizia, nonché i movimenti dalla Storia alla realtà familiare, Abate sceglie un narrare per stratificazioni. Come la collina del Rossarco nasconde sotto le sue zolle secoli di rovine, così la famiglia Arcuri testimonia la propria vicenda nelle voci del nonno, del padre e del nipote.

Pillole d'Autore: Giuseppe Gioacchino Belli

Giuseppe Gioacchino Belli è unanimemente considerato il poeta di Roma. La sua sterminata produzione poetica, che conta oltre duemila sonetti, regala infatti un indimenticabile, irriverente ritratto dell'Urbe nel "secolo-decimonono" (una Roma ancora papale - siamo nella prima metà dell'Ottocento - piena di grandi contraddizioni) ma anche una precisa testimonianza: di una poesia che, scritta in vernacolo romanesco, è stata spesso definita "popolare", ma che merita i dovuti distinguo, perché è opera di un autore cólto che usa il dialetto per uno scopo preciso:
Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma. In lei sta certo un tipo di originalità: e la sua lingua, i suoi concetti, l'indole, il costume, gli usi, le pratiche, i lumi, la credenza, i pregiudizi, le superstizioni, tutto ciò insomma che la riguarda, ritiene un'impronta che assai per avventura si distingue da qualunque altro carattere di popolo. Né Roma è tale, che la plebe di lei non faccia parte di un gran tutto, di una città cioè di sempre solenne ricordanza.
La dichiarazione, contenuta nell'introduzione ai Sonetti, vale un piccolo commento. Essa indica, prima di tutto, una scelta dialettale pienamente consapevole: i sonetti di Belli, dunque, rientrerebbero in quella che Benedetto Croce ha definito "letteratura dialettale riflessa", ossia un uso letterario del vernacolo che intende sovvertire dall'interno, con l'arma della lingua, il sistema codificato dei generi (poesia, narrativa, epica, tragedia, commedia) e quello delle forme (il sonetto, per esempio), e approfittare di questo straniamento per creare un varco d'ingresso per nuove declinazioni del reale. Difatti, il risultato del lavoro poetico di Belli è un monumento: termine che indica, nel lessico della storiografia tradizionale, la testimonianza artistico-letteraria (mediata dalla consapevolezza estetica di chi l'ha composta) in opposizione al documento, che è invece la testimonianza diretta, non mediata da alcun fine artistico (un archivio di compravendite, i resti di una casa).

I sonetti di Belli sono un risultato stupendo proprio perché, partiti da queste premesse, non sono artefatti né stantii, ma, al contrario, posseggono ancora la loro vis satirica e, a distanza di quasi due secoli, una loro vivace attualità:
Il realismo estremo di Carlo Porta [poeta dialettale milanese, ndA] e Giuseppe Gioachino Belli (...) dimostra bene quale apporto può venire dall'ingresso nelle aule dei versi in dialetto. Ringhiere, botteghe, sale da ballo, fiere, loggioni. Pescivendole, caffettieri, preti, madame, vinai. Immersi in scenari pullulanti di vita, gli eroi di Porta e Belli sono i primi plebei della nostra letteratura a raccontare in prima persona, senza pudori, le proprie vicende, e a giudicare dal basso le azioni dei potenti.
Mauro Novelli, La poesia dialettale
Ecco tre piccoli assaggi, dedicati, rispettivamente, alle polemiche contro il papa e lo sperpero della Chiesa, alle pratiche religiose ormai vuote di fede e, dulcis in fundo, al tema della meritocrazia. A voi lettori il piacere di misurarvi con l'attualità di queste piccole perle:

CriticArte - Il titolo di questo articolo è un “Artificio”





a)
Zompo cammina. Cammina come può. Sta per piovere. Zompo!
La sua ragazza lo ha lasciato.
Sotto un manifesto pubblicitario c’è una pozzanghera. Zompo beve.
Ecco che inizia il collasso gravitazionale di un frammento di una grande nube molecolare. Opposizione tra moti termici e campi magnetici. Una stella.
Opposizione tra aorgish e organish. Scontro tra conscio e inconscio nel sentimento.
Campo di battaglia.
Sala di ostetricia.
Opera.
Zompo attraversa la strada, annusa un lampione. Alza la zampa e fa la pipì.
Ci vorrebbe un pennello.

Voci della poesia italiana, antologia


Le antologie poetiche non dovrebbero mai avere la pretesa di fare scuola, o creare nuovi canoni, o "nuove generazioni". La poesia non si può inscatolare come un prodotto d'origine controllata, tentando di manipolare il suo "processo produttivo e di diffusione". Si vorrebbe piegare la poesia a piccoli interessi clientelari, al management di tristissimi direttori artistici, alle vanità di questo o quel critico, al baronato di questo o quel editore. Ma la verità è che la poesia vive di vita propria, libera, e non tollera di essere inscatolata, di essere gestita e monopolizzata. Come i cervi, fieri padroni dei boschi, la poesia muore appena viene “recintata”, “allevata”.
La poesia vive di vita propria, nei pensieri e nelle azioni quotidiane di chi la porta nel cuore.
Con queste premesse mi sento di dire che, a mio modesto parere, le uniche antologie poetiche valide sono quelle che non hanno pretese definitorie, ma che riescono con schiettezza e umiltà a parlare di nient'altro che di sé stesse. Le uniche valide sono quelle propongono, non im-pongono. Non è una questione semplicistica, come può sembrare. Perché dietro ogni rigida definizione, dietro ogni selezione (apparentemente) di merito, si cela sempre una ragione clientelare.
Sentieri Meridiani propone con umiltà una scelta (non la scelta) di autori contemporanei. Propone ai lettori la sua esperienza di vita culturale ed editoriale. Il titolo dell'antologia, dal tono generico e affatto definitorio (Voci della poesia italiana), introduce alcune esperienze poetiche di autori diversissimi per età e formazione. Sentieri Meridiani propone così una tavolozza di colori - i colori del suo mondo - senza pretesa di fare-mondo, fare-scena, fare-canone, fare-combriccola, ma con il solo proposito di fare poesia.

Riccardo Raimondo


*      *      *


Dodici voci poetiche che provengono da due generazioni contigue (quelle dei nati negli anni Settanta e negli anni Ottanta) a cui è toccato in sorte di soffrire e testimoniare un tempo di delusioni e precarietà. Dodici voci molto diverse, che trascorrono dalla preghiera all’indagine psichica, dalla sentenziosità alla teoresi, dalla tenerezza alla lirica, dalla politica al postmodernismo, dal realismo al mito, dalla corporalità allo sperimentalismo. Dodici voci che parlano da diverse contrade italiane, quelle di nascita oppure quelle raggiunte cercando lavoro o cercando se stesse. Dopo cinque anni di vita, la collana “Le diomedee” propone una sorta di bilancio (quasi tutti gli autori, infatti, hanno pubblicato le loro raccolte in questa collezione, altri forse lo faranno), un ventaglio delle mille strade che la scrittura in versi può ancora percorrere nella quotidiana e sciatta prosa della vita. In un tempo in cui i poeti cedono all’individualismo e si ripiegano sul piccolo rettangolo di una tastiera, è un buon segno che si cerchi ancora di uscire dal guscio, di mettere la testa fuori per vedere che tempo fa. È così che, nonostante la varietà dei temi e degli stili, il lettore troverà fra le pagine di questa silloge la magia di un incontro di cuori e intelligenze che si ritrovano a scambiarsi le scoperte, le parole, le ragioni. Le irragionevoli ragioni della poesia.
Daniele Maria Pegorari
*


Per saperne di più, andate a questo link

Caterina Davinio, Aspettando la fine del mondo


Aspettando la fine del mondo
di Caterina Davinio
Fermenti, 2012

pp.123, € 12,50.




          Nel giro di soli due anni, Caterina Davinio ha dato alle stampe tre brevi libri di poesia che l’hanno proiettata con decisione sullo sfondo della poesia italiana contemporanea, affermandola come una delle voci poetiche italiane più originali e riconoscibili. Caterina Davinio, con questo terzo volumetto, conferma di avere qualcosa di non comune e risaputo da dire e d’avere un suo stile per dirlo. Dei primi due mi sono già occupato sul nostro sito, quest’ultimo non solo ripropone alcuni temi e alcuni stilemi che in quelle occasioni avevo cercato di mettere in evidenza, ma ne aggiunge di nuovi e assume nuove prospettive, ribadendo che la poesia di Davinio è tuttora in movimento e sa seguire e rappresentare le diverse esperienze esistenziali da cui trae origine. In Aspettando la fine del mondo, la poetessa si inspira a viaggi personali in Africa e in India e li trasfigura, con la sensibilità che le è propria, in un’esperienza reale e metaforica capace di rimettere in discussioni certezze e grigiumi tipici della vita quotidiana, comune, comoda e ben ordinata dell’umanità media occidentale. In realtà, il vivere comune, squadrato, abitudinario, “borghese”, si sarebbe detto un tempo, è uno dei bersagli tematici più costanti della scrittura poetica di Davinio: un vivere, un sentire, o, per meglio dire, un non-sentire, un ottundimento, che l’accesa sensibilità artistica della poetessa stravolge e smaschera.


          L’originalità e la riconoscibilità della voce di Caterina Davinio, al di là delle concrete espressioni in cui si manifesta e dei temi “forti” di cui è intessuta, consistono innanzitutto in una mirabile capacità di ridurre al minimo l’intercapedine tra sensibilità ed espressione. Intendiamoci, la poesia di Davinio non è né ingenua né banalmente immediata, ma tutto il lavorio intellettuale e spirituale che pure la nutre rimane al di qua dell’espressione, non appare in primo piano, cosicché sensibilità ed espressione, da intendere come concreta realizzazione della comunicazione linguistica di essa, entrambe in rapporto dialettico con quel lavorio, risultano ravvicinate, quasi immediatamente sovrapposte una all’altra. La poesia di Davinio non è solo comunicativa, non solo sa trasmettere gli stati d’animo dell’io lirico, ma riesce ad esprimerli e farli sentire non tanto sulla base del contenuto concettuale delle parole, ma soprattutto sulla base delle immagini, del ritmo delle composizioni e dello stile.

Editori in ascolto - Intervista a Jacopo De Michelis

Editori in ascolto

- Intervista a Jacopo De Michelis, responsabile della Narrativa di Marsilio Editori -



Innanzitutto un ringraziamento per averci concesso quest'intervista. Lei è il responsabile della Narrativa per una casa editrice come Marsilio. Può raccontare ai nostri lettori la storia della Marsilio  e in cosa consiste il suo lavoro?
La casa editrice è nata a Padova, più di 50 anni fa, e successivamente si è trasferita a Venezia. Il nome è un omaggio al filosofo padovano del Trecento Marsilio da Padova. La nostra produzione è piuttosto vasta e articolata (pubblichiamo circa 250 libri all’anno). Io in Marsilio sono il responsabile dell’area della narrativa, che comprende tre settori, narrativa italiana, narrativa straniera e testimonianze. Per ognuno di tali settori c’è oggi in Marsilio un editor di riferimento che lavora con me. 
In quanto responsabile della narrativa, io seguo le seguenti collane: i Romanzi & Racconti, la nostra principale collana di letteratura, che pubblica romanzi di qualità italiani e stranieri, Marsilio X, dedicata ai nuovi autori e ai romanzi più innovativi, la nuova collana La Commedia, le Farfalle, dove confluiscono gialli e thriller, tra cui gli autori scandinavi (Stieg Larsson in primis) a cui dobbiamo in gran parte lo straordinario successo degli scorsi anni, e gli Specchi, una collana di testimonianze (memoir, biografie, reportage, sia storici che d’attualità) a metà strada tra la narrativa e la saggistica. Ma la casa editrice pubblica anche diverse collane di saggistica vera e propria, cataloghi d’arte, libri illustrati, ed è ultimamente attiva anche nel campo delle nuove tecnologie (ebook, applicazioni per iPad ecc.).

Nella scelta di un libro da pubblicare o non pubblicare, lei privilegia la qualità letteraria o il suo mercato?
Entrambe. Nelle nostre scelte la qualità letteraria è certo indispensabile; in particolare, noi ci sforziamo di cercare testi in cui siano presenti uno ‘sguardo’ e una ‘voce’, ovvero che sappiano guardare al mondo con occhi nuovi e raccontarlo in maniera inedita, con uno stile forte e originale. Ma certo, volenti o nolenti dobbiamo fare anche delle considerazioni riguardo alle potenzialità di mercato. A che tipo di pubblico si rivolge un determinato testo? E quanto può essere ampio? Sono domande che non ci si può non porre nel momento in cui si opera una scelta.

La Marsilio ha appena lanciato una nuova collana editoriale, "La Commedia". Ci vuole parlare di questa novità? 
Si tratta della prima collana di narrativa espressamente dedicata all’equivalente letterario di un genere che ha fatto la fortuna del nostro cinema nel mondo, ovvero la grande tradizione della commedia all’italiana di Risi e Monicelli. Un genere che è stato capace con la tipica venatura tragicomica che alterna il sorriso alla smorfia più amara, di cogliere e denunciare le contraddizioni, i vizi, le idiosincrasie della nostra società. Noi cerchiamo di fare lo stesso con il romanzo, pubblicando maestri riconosciuti come Gaetano Cappelli con il suo Romanzo irresistibile della mia vita vera raccontata fin quasi negli ultimi e più straordinari sviluppi ed emergenti come Giuliano Pavone, di cui abbiamo proposto 13 sotto il lenzuolo.

#LibriSottoLAlbero 2012: quei classici che non potete perdere...

Carissimi,
a una settimana dalla prima puntata, ecco la seconda con i consigli di acquisti (o di autoregali!) per il vostro Natale 2012. Per differenziare le proposte, questa volta vi consigliamo dei classici (più o meno moderni) che davvero non vi faranno sfigurare e, come al solito, vi segnaleremo a chi è bene regalarli. 

Buona scelta e buone vacanze!
La Redazione

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Alice consiglia...
Lezioni americane di Italo Calvino
Perchè: perchè Calvino lo sa: " La letteratura vive solo se si pone degli obiettivi smisurati"; lo sa e la fa vivere,
si pone l'obiettivo e lo centra: rendere visibile, con leggerezza, la molteplicità della letteratura, senza
rinunciare ad una rapida esattezza.
A chi: a chi crede con Calvino che " Solo se poeti e scrittori si proporranno imprese che nessun alto osa immaginare la letteratura continuerà ad avere una sua funzione"

Claudia consiglia...
I racconti di Pietroburgo di Gogol (se volete, c'è anche un #PilloleDiAutore dedicato)
Perchè: gli autori russi hanno una capacità rara di indagine dell'animo umano. E Gogol, in particolare, rivoluzionò il racconto russo introducendo personaggi che sono rimasti unici, ritraendoli con la sottile ironia e con quel pizzico di malinconia che li hanno resi immortali.
A chi: a coloro che amano le raccolte di racconti. Godrebbero dello splendido spettacolo di una San Pietroburgo innevata, senza bisogno di spostarsi da casa.

Debora consiglia...
La fiera delle vanità di William Thackeray
Perché: è un grande classico, un affresco perfetto della società inglese ottocentesca con una protagonista assolutamente indimenticabile
A chi: odia gli eroi integerrimi e perbene, non potrà che adorare la cinica, arrivista Becky Sharp.

Laura consiglia...
Lo Hobbit di J.R.R. Tolkien
Perché: è il prequel e il nucleo ispiratore della grande trilogia tolkeniana, Il signore degli anelli; un racconto d'avventura dai toni favolistici, tanto diversi e leggeri rispetto all'epos del Tolkien maturo, che potrete ritrovare anche sugli schermi, proprio in questi giorni, con l'adattamento diretto da Peter Jackson.
A chi: consigliarlo agli appassionati di fantasy è banale, Lo hobbit è tra i must di questo genere; ma proprio per questo lo consiglierei come regalo a un 14-15enne. Una bella edizione illustrata, una mappa della Terra di Mezzo, e nel giro di pochi giorni potrebbe diventare un divoratore di tomi da migliaia di pagine. Io Tolkien l'ho scoperto così.

Fabio consiglia...
America primo amore di Mario Soldati:
Perché: è un romanzo da riscoprire continuamente e che offre sempre spunti di riflessione interessanti; è una lettura vivace e preziosa, che non stanca ma avvince ripercorrendo l'esperinza negli Usa del giovane autore Mario Soldati.
A chi: a tutti quelli che hanno fatto esperienze all'estero, o che stanno per farle. A chi se ne vorrebbe andare dall'Italia e a quelli che l'hanno già fatto. A chi pensa che prima o poi se ne dovrà andare e a chi sa che non se ne andrebbe mai.

Flavia consiglia...
L'inventore dei sogni di Ian McEwan
Perché: perché porta il lettore a guardare dentro i sogni di un bambino e a seguire il filo della loro magia, senza trascinarlo attraverso mondi paralleli o incredibili avventure da best-sellers fantasy.
A chi: ai bambini, ma non solo; a tutti quegli adulti che una volta almeno, nella vita, hanno vissuto di fantasia, come Peter.


Francesca C. consiglia...
Anna Karenina di Lev Tolstoj (invito alla lettura 1 - invito alla lettura 2)
Perchè: Perchè è una lettura da affrontare assolutamente, almeno una volta nella vita, ancora meglio se durante l'inverno. Perchè nonostante la dimensione dell'opera, che a prima vista potrebbe incutere un certo timore, si legge in modo estremamente scorrevole. Perchè, infine, durante le feste, con la mente libera dallo studio o dal lavoro, si può dedicare al libro tutta l'attenzione che merita, cogliendone meglio i numerosi spunti di riflessione.
A chi: A chi ama la letteratura russa perchè è un capolavoro assoluto da leggere e rileggere, ma anche a chi si deve avvicinare ad essa per la prima volta, perchè non se ne allontani più.

Gloria consiglia...
Lolita di V. Nabokov
Perché: perché è un classico che non tramonterà mai, per la profondità psicologica con cui si tratteggia un amore singolare, perversamente forte, oltre i limiti del moralmente concesso (o no?).
A chi: ai lettori che non si accontentano di storie d'amore frivole ma si vogliono lasciar stupire a ogni pagina. 

Isabella consiglia...
Bartleby lo scrivano di Herman Melville
Perché: è un classico tascabile, breve e riflessivo; si legge accanto al camino in poche ore e si assimila in troppi giorni o mai.
A chi: crede in un Bartleby-Cristo redentore della terra, alla resistenza pacifica, sino all’estremo, ai limiti dell’umanità.

Martina consiglia...
Una donna di Sibilla Aleramo
Perché: riflettere sull'emancipazione femminile era un impegno doveroso ai tempi di Sibilla Aleramo, oggi, nonostante i tanti cambiamenti, è ancora necessario. Si tratta di un libro che induce a giudicare con criteri differenti le scelte della scrittrice, ma permette di avvicinarsi a un particolare momento storico e soprattutto a un personaggio intenso e ricco di contraddizioni.
A chi: coloro che vogliono approfondire i temi della condizione femminile passando attraverso la storia e senza rinunciare a un affascinante vicenda personale

Serena consiglia...
Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll
Perché: perché le varie trasposizioni cinematografiche del libro hanno dato a molti la convinzione di conoscere questo classico, ma è solo con la lettura (o la ri-lettura) del testo di Carroll che saremo certi di non lasciarci sfuggire nonsense e filastrocche.
A chi: a grandi e piccini, s'intende. Ma prediligete se possibile la versione col testo inglese a fronte (ottima l'edizione della Marsilio): il Wonderland si gusta meglio in lingua originale.

Valeria consiglia...
Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia di Leonardo Sciascia
Perché: perchè Sciascia insegna sempre, e qui più che mai, a guardare alla realtà con mente critica. Per la sua scritture agile e limpida che nasconde spunti inesauribili
A chi: a chi vuole seguire un personaggio che affronta la vita a viso aperto con una semplicità e  naturalezza estranee alla nostra società. A chi vede nella "diversità morale" un valore aggiunto preziosissimo.


Patrizia Valduga: La tentazione

La tentazione
di Patrizia Valduga
Crocetti, Milano 1985


Nel 1985, il poemetto La tentazione[1], che intervalla Medicamenta e Altri medicamenta (qui l'invito alla lettura) manifesta un «uso maniacale, patologico, terrorizzato delle parole come materiali, come residui della coscienza […] e dell’anima».[2] Vi torna l’interrogativo sulla congerie di desideri antinomici che affollava la poesia precedente: l’incessante dinamica di desiderio e ritrosia, «tutta in avanzare e retrocedere»,[3] è supportata dalla terzina dantesca, che consente al poemetto di proseguire potenzialmente all’infinito. L’omaggio alla Commedia prosegue con l’attacco «In questa maledetta notte oscura» (13), in cui la ripresa di Inf. I denuncia da subito la tetraggine notturna e il maledettismo in cui s’ambienta questa furibonda visione onirica di possesso e sopraffazione. La «lamentazione sulla veemenza e insostenibilità della passione amorosa»[4] muove da uno stupro di gruppo, che annienta i valori e la pudicizia iniziale: la materialità estrema degli uomini, che ordinano oscenità senza remore, è combattuta dalla reticenza della donna, che non nomina direttamente parti anatomiche o pratiche sessuali. La comunicazione è dunque squilibrata: al silenzio verbale e al gorgo di pensieri della donna si oppone la sequela incalzante di pretese maschili, private della dimensione psicologica. Al contrario, la minuziosa descrizione degli atti è didascalia ed educazione al piacere, per condurre la donna all’accettazione del suo evidente godimento:
“Vedi come veloce in te m’inventro,
vedi come lo vuoi e tieni tutto,
vedi che piangi umore dal tuo centro…
  ecco rientro, e coli dappertutto.
 Via di qui, voi, che più non mi resiste,
in piacere si volta il suo gran lutto”. (15-16)
Nella seconda parte, il dialogo dell’«anima confusa» col suo cuore ribadisce la dicotomia insanabile tra ragione e passione, nonché la concezione dell’amore fisico quale «agguato, a tradimento», un tassiano «occulto inganno» (19). L’incupirsi del poemetto fa sì che non ci siano tentativi di dialogo: le suppliche iniziali si stornano in maledizioni contro gli uomini e invocazioni di pietà alla notte, unite a un moto d’invidia per i morti. L’avvertimento della consunzione esistenziale, ripresa forse più leopardiana che lucreziana, permea il poemetto di cromatismi scuri e sanguigni. Dalla disperazione del presente, la donna prende di coscienza dell’inesorabile fuga del tempo: unica speranza di conforto, incerta ma pur presente, è ritrovarsi l’uno nell’altra:
«Ti voglio qui, ti voglio adesso,
chiudi la bocca e vieni qui, Dio buono,
per ricrearti e ricrear me stesso
 perché non mi ricordo più chi sono». (40)
Tuttavia, Eros cede il posto a Thanatos dal VI canto, in una visione apocalittica che assegna importanza al carpe diem erotico. Solo così si legittima la gelosia, unita a un voyeurismo impotente, con elementi blasfemi (quale «mangia questo in memoria di me», 50; o «Dio non violenta e tu vuoi violentare?», 51). Il possesso che «e ti snerva e ti spolpa e ti disossa» è ormai totale alla fine della notte, quando l’amante definisce l’io-lirico «amore santo». La sperequazione del sentimento persiste, fino al concerto tra l’amante e l’io-lirico nella chiusa: il sangue è autentico oggetto di scambio con la donna, che si scopre essere chiusa nella tomba, e prega di non restare prigioniera dei suoi sensi, in vista del confortante annerarsi finale.

Gloria M. Ghioni



[1] P. Valduga, La tentazione, Milano, Crocetti, 1985. L'opera è stata poi acclusa alla fine di Cento quartine e altre storie d'amore, Torino, Einaudi, 1997. 
[2] Franco Cordelli, Introduzione, in P. Valduga, La tentazione, cit., 7.
[3] Ivi, 8.
[4] R. Galaverni, Nuovi poeti italiani contemporanei, cit., 160. 

Invito alla lettura: Stefano D'Arrigo, "Horcynus Orca"

Horcynus Orca
di Stefano D’Arrigo

introduzione di Giuseppe Pontiggia

Mondadori, 1982 (1975)



La vicenda editoriale e la schizofrenica storia dell’accoglienza o del rifiuto di questo romanzo, la cui curva ideografica va dal capolavoro assoluto della letteratura occidentale all’aberrazione dell’esercizio stilistico, con tutte le possibili modulazioni intermedie, è cosa più o meno nota ed è comunque esterna all’opera in sé, sulla quale, invece, mi pare il caso di soffermarsi. Premetto che su quell’ideale curva ideografica segnerei il mio punto, se non proprio all’apice, di sicuro molto in alto, perché, come ogni altra opera letteraria di grandi ambizioni, Horcynus Orca mostra anche nei difetti, nelle parti meno riuscite, la profondità e lo spessore dell’ispirazione e del progetto che l’hanno dettata. 
Si tratta di un romanzo sfrontato che mira niente di meno che a gettare un ponte tra Storia e Mito (ponte bombardato, come si vedrà), la cui mole, densità e qualità finiscono per intimidire, per tenere un po’ ai margini il lettore comune. Un romanzo di ardua lettura, ostico, non accondiscendente rispetto allo stesso lettore: non lo culla, non lo adula, non lo intrattiene benevolmente, tenendosi lontano e sdegnoso dai dettami dell’industria culturale (almeno di quella attuale) o dell’immediata relazione tra autore, stile, materia narrativa e lettore, non c’è, insomma, la ricerca dell’empatia, (o “compietà”, come direbbe lo stesso autore). Eppure è un romanzo di cui si percepisce fin da subito il soprammercato di significato, di senso: non c’è parola, frase, episodio che non rimangano stampati nella mente, che non la infiammino, sia nel senso di farle vedere e sentire qualcosa in più rispetto al comune vedere e sentire, sia nel senso patologico di farla sforzare verso quel di più, di farcela estenuare e stordire. 

‘Ndrìa Cambrìa, dopo l’8 settembre del ’43, è un marinaio della fu Marina Regia che, sbandato, intraprende il viaggio di ritorno a casa da Napoli a Cariddi sulla punta siciliana dello Stretto di Messina. È il classico viaggio di ritorno dell’eroe dalla guerra: l’evidente riferimento immediato è l’Ulisse omerico, letto però con la lente distorcente dell’Ulysses joyciano. L’eroe di D’Arrigo ritrova un mondo devastato materialmente e spiritualmente, definitivamente altro rispetto a quello che aveva lasciato; un mondo nuovo, allucinato e orribile che gli si manifesta per “arcana e enimmata”: gli incontri, i discorsi che si sente fare, i fatti cui assiste e partecipa non sono più inquadrabili dentro le coordinate esistenziali che l’avevano visto crescere e farsi uomo, ma devo essere rivisti nella penombra di nuove coordinate che stentano, però, ad apparire, a farsi chiare. Ma in quanto eroe ‘Ndrìa non si rassegna, soffre e lotta per far rivivere il mondo com’era, si oppone ostinatamente a quello nuovo e sconosciuto, vorrebbe fare della Storia una parentesi vinta e reinglobata nel Mito. Un eroe che l’autore, già al di là di quella storia, già conscio dell’irrimediabile trasformazione, vota alla sconfitta. Compito, allora, dell’opera letteraria è quello di ricostruire, mostrandole nel loro formarsi, rendendole sensibili, non sociologicamente o storicamente astratte, le ragioni di quella sconfitta. 

Il deserto e la neve



Il deserto e la neve
di Flavio Standoli
Amazon Selfpublishing, 2012



Massimo è uno studente di cultura araba che si sta laureando con un noto islamista dell'Università "La Sapienza" di Roma, il professor Damiani. Questi lo manda a Marrakech con lo scopo di approfondire la conoscenza dell'arabo e iniziare le ricerche per sua tesi di laurea. Ad ospitarlo è il professor Abdallah. Ma si tratta di una copertura: il ragazzo e il docente, ignari di ogni cosa, si ritrovano al centro di un caso di spionaggio industriale. Massimo è il corriere inconsapevole di titoli al portatore per il valore di 10 milioni di euro da consegnare a un fantomatico professor Aziz in cambio di preziosi segreti legati al petrolchimico. Interessati al materiale e ai soldi sono il Mossad e una spia deviata del KGB. I primi irrompono nella casa del professor Abdallah ferendolo gravemente e provocando la fuga di Massimo che raggiungerà Imlil, piccolo villaggio sull'Atlante. Qui incontra Giamila, la figlia del professore, con la quale cerca una via attraverso le montagne marocchina, nella speranza di seminare gli agenti che lo inseguono. Iniziano così un viaggio massacrante nel gelo dell'inverno magrebino che li segnerà per sempre, un rito iniziatico dopo il quale Massimo e Giamila non saranno più gli stessi.


"Il deserto e la neve" è il primo, appassionante, romanzo di Flavio Stadoli che si autoproduce sulla piattaforma Amazon e che rappresenta uno di quei casi di self pubblishing di qualità. Ben strutturato, la prosa dell'autore è scorrevole e la sua padronanza della materia narrativa è totale: frequenti cambi di prospettiva, panoramiche e restringimenti di campo, dialoghi serrati e personaggi ben costruiti la cui personalità emerge con lo scorrere del romanzo. Tra di essi i più credibili sono Tariq, nome in codice di Tapunov, agente deviato del KGB che insegue Massimo e Giamila sull'Atlante instaurando con i due ragazzi e con la natura aspra della montagna una vera e propria lotta per la sopravvivenza, e Aziz, arrampicatore sociale che tenta la via più veloce e pericolosa per arricchirsi.

Thomas Mann, "Tonio Kröger"


Tonio Kröger
di Thomas Mann
traduzione di Emilio Castellani

Mondadori, 2000 (1903)

162 pp. (con testo a fronte)



Tra le due grandi imprese dei Buddenbrook e de La montagna incantata, Thomas Mann ci regala con Tonio Kröger un romanzo breve di eccezionale bellezza. I temi che attraversano gran parte della sua opera si ritrovano qui condensati ed espressi con un’ispirazione poetica fortemente sentita proprio perché generata dalla stessa vita biografica dell’autore.

I primi capitoli ci parlano di un’età tenera, adolescenziale, ancora informe che però presenta già il germe di un’inquietudine che accompagnerà la vita Tonio. Inquietudine che appare quasi inevitabile, Tonio ne è segnato già nelle sue radici: il padre appartenente al patriziato borghese , fedele e rigido esecutore della morale mercantile e poi la madre tedesco-brasiliana che incarna la voluttuosità meridionale, l’amore per l’arte e lo spirito libero; mai contrasto poteva essere più netto. Da subito si delinea la crisi del ragazzo-uomo-artista, la “malattia” dell’arte determina per Tonio un rapporto mancato col mondo. Siamo immersi nel travaglio interiore del protagonista che si muove tra un velato orgoglio e un pressante senso di colpa per la sua “diversità interiore”, come afferma Tonio “il martirio e l’orgoglio del conoscere”. La distanza tra Tonio e coloro che non hanno conosciuto l’arte è segnata da elementi ripetuti che diventano simbolici, gli occhi azzurri simboleggeranno l’umanità spensierata e la vita dei “felici”. Nessun vero legame potrà mai esistere tra Tonio che preferisce leggere il Don Carlos  e Hans Hansen semplice, biondo che preferisce l’album con le fotografie dei cavalli. Affascinante il lungo dialogo tra Tonio e l’amica Lisaveta, un dialogo che si configura quasi come un saggio critico sull’arte e sull’artista, un corpo a corpo con la letteratura che come un amante provoca anche sofferenza:
 Non parlate di “mestiere”, Lisaveta Ivanovna! La letteratura non è affatto un mestiere, ma una maledizione, perché lo sappiate. E da quando comincia a farsi sentire questa maledizione? Presto, terribilmente presto. A un’epoca in cui si potrebbe ragionevolmente pretendere di vivere d’amore e d’accordo con Dio e con il mondo, uno comincia a sentirsi segnato, a rendersi conto d’essere in incomprensibile contrasto con gli altri, coi normali, con la gente ordinaria; sempre più in fondo si scava l’abisso di ironia, d’incredulità, d’opposizione e di lucidità, di sensibilità, che lo separa dagli uomini; la solitudine lo inghiotte, e da quel momento non c’è più possibilità di intesa.
Ma se facciamo un passo indietro troviamo una lirica e potente “descrizione” della letteratura:
Si dedicò tutto alla potenza che gli appariva come la più sublime della terra (...) la potenza dello spirito e della parola, sorridente in trono sopra la vita inconsapevole e muta. (..) Acuì il suo sguardo, gli rese trasparenti le grandi parole che gonfiano il petto degli uomini, lo fece chiaroveggente e gli mostrò l’essenza intima del mondo e tutto, tutto quello che sta dietro le parole e le azioni (...).
Ma la letteratura esige un prezzo in cambio di tutto questo «scontare l’errore commesso nel voler cogliere una foglia, una sola fogliolina di alloro poetico senza pagarla con la vita».
Da questo momento in poi il romanzo proseguirà con un’inquadratura fissa sul soggetto e uno sfondo che prima presenterà un’ormai estranea Lubecca e poi farà spazio agli echi del baltico  e alla luce del nord. La scrittura scandisce un tempo rallentato e solitario, in un viaggio che si configura come elemento costante nella sua formazione. In questo luogo, dopo decenni, a sorpresa, i mondi di Tonio e di Hans e Ingenborg si sfiorano di nuovo, con più delicatezza. Nel finale i due poli opposti si avvicinano, le punte si smussano e l’inquietudine se non si placa almeno si riconosce come qualcosa di compiuto; non ci sarà risoluzione ma conciliazione. Mann crea sul finale un’atmosfera fascinosa che sembra attingere la sua poesia da un luogo lontano ma che arriva potente, chiara e lineare al lettore.

Valeria Inguaggiato

Pillole di autore - Barthes di Roland Barthes

Lo sforzo vitale di questo libro è mettere in scena un immaginario (p. 121). E' il libro dell'Io, il libro delle mie resistenze alle mie idee; è un libro recessivo (che va all'indietro, ma anche, forse, che prende le distanze). Tutto questo deve essere considerato come detto da un personaggio di romanzo - o meglio da molti. Perché l'immaginario, materia fatale del romanzo a labirinto di merletti nei quali è fuorviato chi parla di se stesso, l'immaginario è preso a carico da svariate maschere (personae), scaglionate secondo la profondità della scena (e però nessuna persona dietro). (pp. 136-137)
Quando esce Roland Barthes par Roland Barthes, nel 1975 per l' Ed. Seuil di Parigi, Barthes è già uno dei saggisti più noti viventi, intellettuale di spicco e tra i critici letterari che più hanno sperimentato le nuove correnti interpretative. Letteratura, società, filologia, filosofia sono solo alcuni dei saperi che Barthes ha dispiegato nelle sue opere (come non ricordare il suo Frammenti di un discorso amoroso, più volte oggetto di recensioni e inviti di lettura qui su CLetteraria?) Non sorprende, quindi, che l'uscita di questa sorta di stravagante autoanalisi e autobiografia abbia attirato da subito l'attenzione di tanti colleghi. 
Interessa innanzitutto capire come un autore che s'è a lungo occupato di autobiografia e di scritture dell'Io possa scrivere sé stesso. E Barthes lo fa giocando con la metaletteratura e con l'interazione con altre forme d'arte. Ad esempio, la fotografia: nella prima parte, coerentemente con la memoria labile della propria infanzia, i ricordi prendono la forma della pellicola, e Barthes si limita a brevi didascalie che illustrano la foto, o riportano le suggestioni ad essa legate. A mano a mano che la memoria avanza, le foto si rarefanno, a vantaggio della parola. Non si tratta di un diario, né l'ordinamento cronologico è sempre stringente: quasi nulle le date, ma spesso riflessioni che abbracciano un lungo periodo di tempo o che si possono anche ritenere acroniche, o meglio appartenenti al Barthes maturo, ma senza una maggiore precisazione di tempo. 
E poi. E poi parla di sé in terza persona, sia nel rievocare le posizioni intellettuali, sia nel parlare della propria vita amorosa: per questo consiglia di leggere il libro come se fosse "detto da un personaggio di romanzo": il crinale tra autenticità e romanzesco si fa sempre più labile, e questo Barthes lo sa bene. Anzi, è un confine con cui l'autore gioca, e di cui sperimenta tutte le potenzialità espressive.
Il risultato, si dica, è una lettura straordinaria e piacevolissima, che si può condurre di pagina in pagina o saltabeccando qui e là con la curiosità vorace del lettore che non si accontenta di stare alle regole ma che, sposando il gioco di Barthes, fa della provocazione il proprio movente.

(Edizione di riferimento: Barthes di Roland Barthes, tr. it. di Gianni Celati, Torino, Einaudi, 2007)

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p. 25
LA RELAZIONE PRIVILEGIATA
Non cercava la relazione esclusiva (possesso, gelosia, scenate); non cercava neanche la relazione generalizzata, comunitaria; quello che voleva era ogni volta una relazione privilegiata, segnata da una differenza sensibile, portata allo stato d'una specie di inflessione affettiva singolare, come quella d'una voce dai tratti incomparabili; e, cosa paradossale, non vedeva alcun ostacolo nel moltiplicare questa relazione privilegiata: soltanto dei privilegiati, insomma; la sfera dell'amicizia era così popolata da relazione duali (da cui una grande perdita di tempo: bisognava vedere gli amici uno ad uno: resistere al gruppo, alla banda, ai ricevimenti). Quello che veniva cercato era un plurale senza eguaglianza, senza in-differenza. (p. 77)

L'IDEA COME GODIMENTO
p. 73
All'opinione comune non piace il linguaggio degli intellettuali. Anche lui è stato spesso schedato con l'accusa di gergo intellettualistico. Si sentiva allora oggetto d'una specie di razzismo: escludevano il suo linguaggio, cioè il suo corpo: "tu non parli come me, dunque ti escludo". [...] (p. 118)

IL PARADOSSO COME GODIMENTO
[...] Aggiunta al Piacere del testo: il godimento non è ciò che risponde al desiderio (lo soddisfa), ma ciò che lo sorprende, l'eccede, lo svia, lo deriva. Bisogna rivolgersi ai mistici per avere una buona formulazione di ciò che può far deviare un soggetto in questo modo: Ruysbroek: "Chiamo ebrezza dell'animo questo stato in cui la gioia supera tutte le possibilità che il desiderio aveva intravisto".
(Nel Piacere del testo, il godimento è già detto imprevedibile, e la parola di Ruysbroek è già citata; ma posso sempre citarmi per significare un'insistenza, un'ossessione, dato che si tratta del mio corpo).
(p. 128)

IL DISCORSO DI GIUBILO
p. 44
- Ti amo, ti amo! Sorto dal corpo, inarrestabile, ripetuto, tutto questo parossismo della dichiarazione d'amore non nasconde una mancanza? Non ci sarebbe bisogno di dire questa parola, se non fosse per oscurare, come la seppia fa col suo inchiostro, lo scacco del desiderio sotto l'eccesso della propria affermazione.
- Cosa? Condannati per sempre al triste ricorso d'un discorso medio? Non c'è dunque alcuna speranza che esista, in qualche recesso sperduto della logosfera, la possibilità d'un puro discorso di giubilo? Ad uno dei suoi margini estremi - molto vicino, è vero, alla mistica - non è concepibile che il linguaggio diventi finalmente esposizione primaria e quasi insignificante d'una pienezza?
- Niente da fare: è la parola della richiesta: non può dunque che dar fastidio a chi la riceve, tranne la Madre - e tranne Dio!
- A meno che non sia giustificato a gettarla, questa parola, nel caso (improbabile ma sempre atteso) in cui due "ti amo" emessi in un lampo solo formassero una coincidenza pura, che annulla, attraverso la simultaneità, gli effetti di ricatto d'un soggetto sull'altro: la richiesta si metterebbe a lievitare.
(pp.128-130)

IL LESSICO IMPURO
Potrebbe forse definirsi così: il sogno d'una sintassi pura e il piacere d'un lessico impuro, eterologico (che mischia l'origine, la specialità delle parole). Questo dosaggio renderebbe conto d'una certa situazione storica, ma anche d'un dato di consumo: letto un po' di più della avanguardia pura, ma molto meno d'un autore di grande cultura.

p. 76
Selezione dei passi e nota introduttiva a cura di GMGhioni

"Lamento di Portnoy", Philip Roth


Lamento di Portnoy
di Philip Roth
Einaudi, 2005

pp. 236
€ 10,50

Lamento di Portnoy, quarto libro di Philip Roth, contiene in nuce molte delle caratteristiche che diverranno distintive dello scrittore americano, ovvero di una delle penne più acute e penetranti dell'ultimo mezzo secolo. Prima di La macchia umana, di Pastorale americana – romanzo che gli varrà il Premio Pulitzer nel 1997 – e delle peripezie di Zuckerman, personaggio che ricorre in più romanzi, l'autore mette a punto qui le istanze libertarie che in seguito saranno, forse, meglio definite e 'formalizzate' ma che ora vengono sguaiatamente gridate e veicolano un senso di esplosiva liberazione raramente rintracciabile nei lavori successivi. Il paziente Alexander Portnoy dà vita in queste pagine a un monologo che diventa dialogo soltanto nelle ultime righe, unico luogo in cui lo psicanalista proferisce le sue parole, dieci in tutto il libro: «Allora (disse il Dottore). Forse noi adeso potvemo incominciave. No?» (p. 236).

Tanto per cominciare, precisiamo che quello che troppo spesso viene identificato come un grossolano antisemitismo è, in realtà, un bruciante desiderio di liberarsi da imposizioni legate a un modello educativo opprimente e fondato sul rispetto assoluto e insensato di precetti di natura formale e dogmatica. I genitori di Alexander innescano nel figlio, per reazione, la necessità di frantumare tabù che hanno racchiuso la sua infanzia e adolescenza entro l'asfittico perimetro di una gabbia ben poco ossigenata. La madre, castrante, violenta e iperprotettiva, costituisce di fatto il polo 'virile' della coppia genitoriale; il padre è una figura sbiadita e impotente di fronte al dominio della moglie, e quando prende la parola lo fa quasi sempre per ricordare al figlio il futuro che dovrà avere: «Là dove lui era stato prigioniero, io avrei volato: ecco il suo sogno. Il mio ne era il corollario: la mia liberazione sarebbe stata la sua, dall'ignoranza, dallo sfruttamento, dall'anonimato» (p. 10).