#RileggiamoConVoi - NOVEMBRE

#Salerno, 17 novembre 2012
Carissimi amici,

ci stiamo lasciando alle spalle l'autunno, e vi dedichiamo come sempre una foto scattata in questo mese e qualche lettura che pensiamo possa riempire il vostro dicembre! Cliccate sul link per leggere di volta in volta la recensione o l'invito alla lettura.

Un caro saluto,
La Redazione


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Claudia consiglia...
Menzogna e sortilegio di Elsa Morante (leggi l'invito alla lettura)
Perché: è un romanzo plurale, per vastità di temi e focalizzazione su un ventaglio molto ampio di personaggi. Un romanzo come una volta, nel senso tradizionale del termine, un'epopea che parla di amore, descrive le dinamiche tra ceti sociali diversi, dipinge atmosfere suggestive. 
A chi: a tutti coloro che hanno amato i capolavori successivi: "La storia" e "L'isola di Arturo". In questo modo comprenderebbero meglio un'autrice straordinaria che, in questo libro, ha condensato espressioni e stili unici nella sua produzione. 
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Davide consiglia...
Giacomo Ponti di Dato Magradze (leggi la recensione)
Perché: è uno sguardo contemporaneo, civile sulla Georgia attuale, trasfigurata (ma non troppo) dallo strumento poetico di un autore già candidato al Nobel.
A chi: a tutti coloro che non si sono ancora avvicinati alla poesia perché l'hanno sempre ritenuta difficile ed elitaria. Il poemetto di Magradze vi giungerà come un'acqua fresca, una narrazione epica che ci parla direttamente.


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Debora consiglia...
Memorie di una geisha di Arthur Golden 
Perché: perché è un viaggio appassionante dentro quel mondo misterioso e perduto delle geishe.
A chi: a chi desidera andare lontano, nel tempo e nello spazio, anche solo per la durata di un romanzo.


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Stefano consiglia...
Sessanta racconti di Dino Buzzati 
Perché: Buzzati, da buon giornalista, fu - anzi, è - maestro nella composizione di racconti brevi, diversissimi tra loro ma dallo stile inconfondibile, costruiti in modo esemplare, dinamici e avvincenti come pochi altri.
A chi: agli amanti delle storie brevi, a chi è affascinato dalla capacità di creare una molteplicità di mondi e situazioni.

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Gloria consiglia...
Il corpo umano di Paolo Giordano 
(leggi la recensione e poi l'intervista esclusiva)
Perché: uno dei romanzi più belli usciti in quest'annata, disperatamente contemporaneo, rispecchia i drammi della guerra ma anche i grandi quesiti esistenziali, senza voler fare false morali.
A chi: a tutti. Sostanzialmente, non solo i lettori forti possono accostarsi, ma chiunque abbia voglia di farsi raccontare una storia che certamente non passerà invano.

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Laura consiglia...
Venuto al mondo di Margaret Mazzantini 
Perché: ne è appena uscito l'adattamento cinematografico diretto da Sergio Castellitto, e vale la pena di far seguito alla visione del film (o, perché no, anticiparla...) con questo splendido, potentissimo libro, sicuramente uno tra i più belli della Mazzantini;
A chi: a chi desidera una lettura che tocchi, con una prosa nuda e vibrante, temi come l'amore, la guerra, la maternità.


La memoria di Mendel


Mendel dei libri
di Stefan Zweig
Edizioni Adelphi, 2008
pp. 53
€ 5,50


Jakob Mendel, il piccolo, grinzoso ebreo galiziano, tutto inviluppato nella sua barba e per di più ingobbito, era un titano della memoria”.

La memoria prodigiosa di Mendel però era tutta rivolta ai libri o meglio ai titoli dei libri, al loro prezzo, alla veste editoriale, al frontespizio, senza alcun riguardo al significato, al loro contenuto spirituale (“forse non ha letto tutti i libri, ma che tutti li conosce”).
Di ciò Mendel sapeva veramente tutto, e per questa sua abilità era spesso consultato da studenti o da collezionisti su bibliografie difficili o quasi impossibili da trovare.
Uno di questi studenti è il protagonista del libro “Buchmendel”, studente viennese, che per una tesi su Franz Mesmer, entra appunto in contatto con questo particolare personaggio grazie a un amico (lo stesso Zweig, grande scrittore di biografie, ne ha scritto una proprio su questo medico magneto-esoterico che anticiperà gli studi sull’ipnosi).
Il vero leitmotiv del libro-racconto di Stefan Zweig- poco più di cinquanta paginette che si leggono in un fiato - è la memoria.
Il protagonista, per ripararsi dalla pioggia, entra in uno dei tanti caffè viennesi e rendendosi conto di esserci stato, cercherà quell’insight necessario, quel particolare concreto, per far affiorare il ricordo. Si renderà presto conto di trovarsi nel caffè Gluck, dove tanti anni prima, aveva conosciuto Jakob Mendel, luogo dove quest’ultimo ogni giorno, dalla mattina alla sera, stava seduto davanti a un tavolino di marmo, leggendo e dondolandosi alla maniera degli ebrei (“la lettura non deve avvenire solo con le labbra e con il cuore ma anche con il corpo”). Come era stato possibile dimenticare Jakob Mendel, il Mendel dei libri?
Mendel leggeva continuamente per memorizzare una grande quantità di dati e lo faceva noncurante di ciò che lo circondava, del rumore della sala da giochi attigua e dei clienti del locale. La realtà esterna per Mendel non esisteva, tutto iniziava e finiva con il fissare a mente, prodigiosamente, tutti quei libri.
A Mendel non interessavano i giornali quotidiani con le notizie del giorno né le chiacchiere.
Tutto in lui era concentrazione assoluta per l’archiviazione mnemonica di un’enorme quantità di dati e si esaltava soltanto quando veniva in contatto con qualche copia pregevole o edizione limitata, delle quali sfogliava, estasiato, tutte le singole pagine, una dopo l’altra.
Ciò che colpiva era proprio questo suo estraniarsi, questa grande concentrazione che riusciva a raggiungere, dimenticandosi di tutta la realtà esterna.
In Jakob Mendel, in quel piccolo rivendugliolo galiziano con i suoi libri, avevo visto personificato per la prima volta – ero giovane allora – il grande mistero della concentrazione assoluta, che rende tali l’artista e lo studioso, il vero saggio e il perfetto monomane, la tragica ventura e sventura della piena possessione”.

Il deserto dei tartari

Il deserto dei tartari
di Dino Buzzati
Mondadori, 2001 (18^ ristampa)

a cura di A. Garancini Costanzo
€ 9,00

In passato, è stato scritto che Buzzati ha progettato Il deserto dei tartari come un’allegoria, dal greco ‘álla ‘agorèuo: dire qualcosa attraverso altro. Parlare di questo romanzo come di qualcosa che deve dire altro, rimandare a un piano simbolico e connotativo piuttosto che semplicemente descrittivo, significa rendere la narrazione esemplare, costruire un paradigma che, attraverso un’unica storia possa contenere quelle di altre centinaia di individui. 
 La storia del tenente Drogo non è quella di un militare qualunque o, meglio, è la storia di un uomo pieno di ambizioni e di aspettative come tanti suoi commilitoni ma che si esaurisce lentamente in una serie infinita di attese immaginifiche, prive di sbocchi reali; la storia di una vita che assurge a parabola di ogni esistenza priva di slancio o che, al contrario, conosce, a volte anche solo intuisce, tale slancio e costruisce tutto il suo mondo intorno ad esso perdendo il contatto con la realtà. Se, infatti, la vita dell’ufficiale può apparire priva di entusiasmo perché piena di rinunce, ovattata dell’abitudine, scandita da una serie infinita di giorni e azioni che si ripetono con la monotonia e la precisione di una marcia militare, d’altro canto, i continui sacrifici e l’abnegazione del soldato vanno a consolidare una scelta: quella di difendere una fortezza di confine il cui valore strategico è inficiato da una lunga pace. A seguito di tale scelta, l’abitudine si trasforma in un rito in grado di propiziare l’arrivo dei tartari e l’inizio della battaglia, le marce, le perlustrazioni, le veglie delle sentinelle dalle mura dei torrioni vengono pervase dal fervore che accompagna ogni leggenda. 
Il nostro eroe non è, però, l’unico a credere nel mito dei tartari. Anche i suoi superiori, il sarto e altri personaggi minori attendono l’onore delle armi. Si potrebbe dire che Drogo abbia trovato il suo posto nel mondo grazie a una specie di credo collettivo che professa l’attesa del ritorno, quasi messianico, del leggendario esercito al di là della frontiera, al di là del deserto. Sarebbe forse banale dire che il deserto è la metafora di un vuoto interiore. Il deserto è innanzitutto il luogo in cui si configura tutto ciò che è mistero: dalle falde sotterranee che lo percorrono per scaturire in sorgenti e oasi, all’apparizione, nella solitudine di un paesaggio lunare, di un cavallo abbandonato, (sfuggito ai leggendari tartari?), alla costruzione di una strada che non si sa da dove parta, dove porti ma, soprattutto, a cosa serva (una via carovaniera creata da commercianti, un passaggio per rifornire fantomatiche truppe? Un sentiero per pastori, esploratori o soldati pronti per un’operazione di frontiera?). 
 La ricerca del tenente Drogo compendia in sé quella di molti uomini che, saldi nel perseguire un obiettivo, scrutano imperturbabili l’orizzonte.

Alice Munro, "Nemico, amico, amante"




Nemico, amico, amante
Titolo originale: Hateship, Friendship, Courtship, Loveship, Marriage
di Alice Munro
Einaudi, 2005

pp. 325
11,50 €

L’unica idea proposta da Sabitha fu quella di scrivere il loro nome accanto a quello di un ragazzo, poi di eliminare tutte le lettere comuni e di contare le restanti. Dopodiché si faceva la conta sulle dita con le lettere avanzate, dicendo “Nemico, amico, spasimante, amante, sposo”, finché non si arrivava al verdetto riguardo alla possibile relazione fra loro e il ragazzo in questione.

Nove racconti; nove caroselli sul ritornello delle parole “nemico, amico, spasimante, amante, sposo” che sviscerano, spiegano, tratteggiano e alludono alle relazioni d’amore. Nove finestre sul quotidiano, su matrimoni difficili, relazioni infelici e malattie che minano anche il rapporto più saldo. Dalla cameriera che crede di essere amata dal padre della ragazzina a cui fa da governante, al marito che vede la propria moglie scivolare via per una malattia mentale, al ricordo del primo lancinante amore d’infanzia, tutti i personaggi offrono la visuale sull’amore “ordinario”, su quanto di eccezionale si può trovare in una normale e apparentemente noiosa vita.

Il titolo potrebbe far pensare a letteratura romantica. E cosa porta a pensare la letteratura romantica? A grandi gesti. Perché l’amore, nella finzione, anche in quella di celluloide, è fatta di azioni indimenticabili. Incontri sotto la pioggia che diventano una bruciante storia, amori strappalacrime tra una donna malata e l’uomo un tempo freddo che scopre la gioia di amare, salti nel vuoto. Perché se non è da Bacio Perugina, non è vero amore.

Laudomia Bonanni, «Il bambino di pietra»



Il bambino di pietra
di Laudomia Bonanni
Bompiani, 1979
pp. 169


«Ho qui il libro di una sconosciuta, Laudomia Bonanni. È uscito da un concorso, ha vinto un premio letterario. Io diffido dei premi letterari, ma debbo riconoscere che esistono eccezioni e che questa Laudomia meritava veramente di essere tolta dall’ombra. Rivela una forza di narratrice che non dovrebbe fermarsi qui. Farà molta strada».


Questo battesimo di Eugenio Montale, del 6 dicembre 1949, non ha forse rispettato a pieno (al momento) la profezia: Laudomia Bonanni, scrittrice aquilana, intendiamoci, nel corso della sua vita (1907 - 2002) strada ne ha fatta: nella seconda metà del Novecento ha pubblicato con Mondadori («Il fosso», vincitore nel 1950, prima volta per una donna, del Premio Bagutta), nel 1960 ha vinto il Premio Viareggio con «L’imputata», e nel 1964 il Premio Selezione Campiello con «L’adultera»; finalista allo Strega nel 1974 con «Vietato di minori» e nel 1979 con «Il bambino di pietra»; tra il 1948 e il 1985 collaborò con varie testate giornalistiche («Il Giornale d’Italia», «Il Corriere della Sera», «Il Resto del Carlino», «L’Unione Sarda», e molti altri), interrompendo per sua scelta questa attività. È però arrivata ai giorni nostri, anno dopo anno, lentamente dimenticata.

Coerente con la sua idea che “il libro dev’essere come un sasso che si butta per colpire”, Laudomia Bonanni con «Il bambino di pietra» crea un’opera spigolosa in cui affronta e sviscera senza filtri le ossessioni e le repressioni che ci si aspetterebbe di ascoltare da una persona seduta dallo psicanalista:

«Temevo l’indagine dello psicanalista sull’attività sessuale. Il sesso all’origine di ogni nevrosi. Anche la santità un prodotto erotico, figurarsi. Purché non sia diventato seguace dello spaventoso Reich. Magari ti domandano ex abrupto se hai l’orgasmo. Freud almeno dichiarava che la vita amorosa della donna è (era?) avvolta in un’oscurità impenetrabile. […] Sono una donna emancipata e sotto certi aspetti spregiudicata, ma ho delle difficoltà. Altro retaggio delle famiglie in cui non era (non è?) contemplata la sessualità femminile. Comechesia, in tempi che hanno cominciato col far circolare tra gli studenti questionari sul sesso e rispondevano perfino a ti masturbi, per conto mio non voglio rispondere nemmeno all’analista. (Che rimanga tutto sepolto con l’infanzia.) Oggi poi le ragazzine sono capaci di dichiararsi clitoridee o lesbiche o perfino anali. Io non sono niente. Del resto ignora se sono o sono stata sposata, se ho figli. E non sembra interessarsene.»
In psicanalisi, la protagonista, ci va per “nevrosi d’angoscia”. Il libro, però, non è incentrato esclusivamente sull’aspetto sessuale, ma riprende in chiave spesso aneddotica le fasi più importanti dell’adolescenza e della giovinezza, interpretate con l’occhio maturo della consapevolezza. Assume però notevole importanza il tema della maternità, a cui è debitore il titolo «Il bambino di pietra»:

L'età dei miracoli

L'età dei miracoli
di Karen Thompson Walker

Mondadori, Milano 2012

pp. 272
cartaceo €18.50
ebook € 9,90


Novembre, tempo di bilanci. Manca poco alla fine del 2012 e guardando a ritroso nel tempo verrebbe da pensare che quest’anno dal punto di vista delle pubblicazioni è stato estremamente interessante, ricco di novità e riscoperte che hanno generato passaparola e dibattiti infiammati in rete e nei circoli letterari. Autori già noti che tornano in libreria con grande attesa dei lettori, esordi sorprendenti, romanzi che parevano caduti nell’oblio e oggi fortunatamente ritrovati. Tuttavia per gli amanti dei libri, lettori accaniti e famelici, è un pensiero che si forma ogni anno quando si tirano le somme delle letture fatte, eppure questo 2012 ci ha regalato davvero letture sorprendenti: penso a Stoner (qui la recensione), Il tempo è un bastardo, L’inverno del mondo, Il senso di una fine, Harold Fry, solo per citarne alcuni ….

Nella rosa dei romanzi che hanno accompagnato questi mesi di letture appassionate merita uno spazio il sorprendente romanzo d’esordio di Karen Thompson Walker, editor americana alla sua prima prova di scrittrice, che con “L’età dei miracoli” ha piacevolmente colpito pubblico e critica. Una voce fresca e originale per una storia anticonvenzionale, che ci riporta agli anni della formazione, quel delicato passaggio tra età dell’innocenza ed adolescenza, un momento carico di dubbi, insicurezze, confusione e timore per ciò che ci lasciamo alle spalle per compiere un passo in più verso il mondo degli adulti. Sono temi cari al romanzo per un genere – il romanzo di formazione- che a tratti appare stereotipato ed esaurito, ma che molte volte riesce ancora ad avere esiti sorprendenti. Non più bambina e non ancora adolescente, Julia la dolcissima protagonista di questa storia, vive la sua età dei miracoli in un momento in cui il mondo sembra non poter lasciare più spazio alla speranza e all’attesa del futuro: inspiegabilmente infatti la Terra inizia a rallentare  la sua rotazione e le conseguenze, dapprima quasi impercettibili si fanno via via sempre più gravi e inesorabili. Sembra che nessuno sappia realmente come spiegare ed arginare il fenomeno, mentre il panico serpeggia tra le persone e i ritmi vengono stravolti quando giorno e notte si allungano sempre più costringendo ad ore lunghissime di buio ed ore altrettanto interminabili di luce. Ore che diventano giorni, cicli naturali stravolti, uccelli che sembrano non riuscire più a volare e cadono come attratti dal suolo, balene che spiaggiano sempre più numerose tra lo strazio generale. Le leggi che fino a poco tempo prima hanno governato il mondo sembrano non esistere più o essere capovolte e il panico, l’isteria, si fanno sempre più intensi, la popolazione divisa tra chi segue l’ora dell’orologio e chi quella reale, spaventati dal questa nuova realtà e dalle strane patologie che colpiscono alcuni.
“La mattina sembrava già ieri. Nel momento in cui si sedemmo fuori ad aspettare che il sole calasse lentamente  dietro le colline a occidente, mi parve che sotto la pelle di quell’unico giorno ne fossero già scivolati diversi, come se il giorno si fosse allungato molto più che di un’ora sola”

La cultura dello spettacolo, l'allarme di Mario Vargas Llosa

La copertina dell'edizione spagnola
Mario Vargas Llosa
La civilización del espectáculo
Ediciones Alfaguara, 2012


"¿Qué quiere decir civilización del espectáculo? La de un mundo donde el primer lugar en la tabla de valores vigente lo ocupa el entretenimiento, y donde divertirse, escapar del aburrimiento, es la pasión universal.[Che cosa vuol dire civiltà dello spettacolo? La civiltà di un mondo dove il primo posto nella scala dei valori lo occupa l'intrattenimento, e dove divertirsi, fuggire dalla noia, è la passione universale]" (33)

Questa è una delle prime definizioni che dà Vargas Llosa della civilización del espectáculo. Il libro, dal titolo omonimo, è uscito in Spagna la scorsa primavera per Alfagura (siamo in attesa dell'edizione italiana Einaudi) scatenando fin dai primi giorni un acceso dibattito. Naturale se si pensa che lo scrittore peruviano è solito dire quello che pensa esercitando a pieno la propria libertà di pensiero: per Vargas Llosa l'autocensura non esiste. Quindi, quando un Nobel per la Letteratura (2010) abituato a polemizzare con tutto e tutti, com'è nella natura di tutti gli hispanohablantes, in duecento pagine demolisce l'intero universo culturale nel quale siamo immersi, è logico che si scateni attorno a lui, e al libro, un dibattito polemico. Che è salutare e che in Spagna ha occupato le colonne degli editoriali per qualche settimane. Qualcosa è arrivato anche in Italia, con un intervista sulla pagina culturale del quotidiano La Repubblica, travisando, tra l'altro, tutto il senso del libro, che pareva solo l'acido rifiuto di un vecchio scrittore nei confronti del mondo contemporaneo. Un tentativo di render noto quanto erano belli i tempi andati quando scrivere un romanzo, comporre una sinfonia o girare un film davano al creatore la sensazione di poter cambiare il mondo. Nulla di più distante dalla realtà. La civilización del espectáculo è una lucida, attenta e approfondita analisi della barbarie culturale nella quale stiamo scivolando. Un anti-elogio della velocità, della rapidità, della superficialità e dell'enterteinment che ci circonda.
Lo scrittore peruviano affronta ogni aspetto della società in cui viviamo: dalla religione alla politica fino all'arte e alla letteratura, consapevole che sono tutti in relazione tra loro, collegati da quel sottile quanto saldo filo che è la cultura.
Più che un sentimento nostalgico, il libro di Vargas Llosa è un campanello d'allarme che, temo, rimarrà inascoltato. La spettacolarizzazione di qualsiasi evento culturale rende tale evento superficiale, e passeggero. Ovvero non lascia una traccia in chi legge, guarda o ascolta. Passa, come una stella cadente che la sera successiva è già dimenticata. Non lasciando tracce non innesca quel meccanismo che permette all'uomo di pensare, ragionare e soprattutto, attraverso il romanzo il film o l'opera d'arte, trarre conclusioni sul mondo che lo circonda. In un recente articolo sul Corriere della Sera, Vargas Llosa e Claudio Magris dibattevano proprio di questo. Significativo quanto sosteneva lo scrittore peruviano: anche le situazioni più atroci e tragiche, in letteratura, mantengono una loro perfezione. Sono finite e concluse, sono perfette nel loro orrore. Il mondo che ci circonda invece è imperfetto: ecco che il risveglio da una finzione (che sia letteraria, figurativa o musicale) dovrebbe palesarci con maggiore evidenza l'imperfezione nella quale siamo immersi e spingerci a migliorare, seppur di poco, ciò che ci circonda. Questo ruolo, fondamentale, che ha la cultura nella vita quotidiana si sta perdendo. Leggere Flaubert, Proust o Goethe ha effetti tardivi di capitale importanza: il Faust non è un'esperienza passeggera, così come Madame Bovary non è intrattenimento. C'è un "di più" nella lettura che rimane dentro di noi e lavora insieme a tutta una serie di altri stimoli, con effetti a lunga durata.

Pillole d'autore: L' Aleph, Jorge Luis Borges


Jorge Luis Borges
L'Aleph (titolo orginale El Aleph)
Feltrinelli, 2004 (edizione originale argentina 1952)
traduzione di Francesco Tentori Montalto
pp. 179
Euro 6,00

Come può l’uomo abbracciare la totalità dell’universo? Come può lo scrittore rendere a parole un concetto così paradossale? Sembrerebbe impossibile,  ma se esistesse davvero un punto, un attimo in cui tutti i punti dello spazio e tutti gli attimi del tempo fossero visibili?
Il racconto qui proposto di Jorge Luis Borges, L'Aleph, tratto dall'omonima raccolta,  ruota intorno l’incontro tra il protagonista (lo stesso Borges) e Carlos Argentino Daneri, il cugino di Beatriz Viterbo, la sua amata appena scomparsa. Quest’ultimo è un poeta mediocre ma pieno di sé  che vorrebbe “mettere in versi tutta la rotondità del pianeta”. Un giorno scopre che deve lasciare la sua casa per fare spazio a una pasticceria. La notizia lo sconvolge: rischia di perdere tutto,  Carlos Argentino, rischia di perdere l’Aleph, un punto nascosto in cantina dove si trovano “tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli”.
Disperato chiama Borges il quale è certo che quel tipo tanto odiato sia solo un povero pazzo. Lo asseconda e segue le sue istruzioni alla scoperta dell’Aleph:  “Ti sdrai sul pavimento di mattonelle e fissi lo sguardo sul diciannovesimo gradino dalla scala. Me ne vado, abbasso la botola e resti solo. Qualche roditore ti farà paura, ci vuol poco! Dopo pochi minuti vedrai l’Aleph. Il microcosmo di alchimisti e cabalisti, il nostro concreto amico del proverbio, il multum in parvo!”
L’incredulità e la meraviglia hanno la meglio quando Carlos Argentino lascia solo Borges…


“Carlos, per difendere il suo delirio, per non sapere che era pazzo, doveva uccidermi . Sentii un confuso malessere, che volli attribuire alla rigidità, e non all’effetto d’un narcotico. Chiusi gli occhi, li riaprii. Allora vidi l’Aleph".

(Nella lingua ebraica l'aleph è la prima lettera dell'alfabeto e rappresenta l'unità divina)

"Arrivo, ora, all’ineffabile centro del mio racconto; comincia, qui, la mia disperazione di scrittore. Ogni linguaggio è un alfabeto di simboli il cui uso presuppone un passato che gl’interlocutori condividono; come trasmettere agli altri l’infinito Aleph, che la mia timorosa memoria a stento abbraccia? […]

Pisa Book Festival 2012: la prima giornata


Pisa, Palazzo dei Congressi. Il Pisa Book Festival cambia location per la sua decima edizione: quest’anno la kermesse dell’editoria indipendente ha abbandonato la Leopolda per il Palazzo dei Congressi, che ospiterà fino a domenica 25 novembre oltre un centinaio di editori provenienti da tutta Italia. Ma si badi bene, sono tutti editori rigorosamente indipendenti: da minimum fax a ISBN Edizioni, da Aìsara a Voland passando per un’ampia varietà di proposte editoriali, che il noto festival pisano mette in vetrina creando un’importantissima opportunità d’incontro tra autori editori e lettori. Tra questi ultimi, uno spazio particolare è riservato ai più piccoli: un intero piano del Palazzo dei Congressi è occupato dal Pisa Book Junior, con una coloratissima rassegna di editori per l’infanzia, giochi e attività tra cui, posso confermarlo, non pochi adulti hanno curiosato con un pizzico d’invidia.



La prima giornata del festival ha preso il via con il dovuto omaggio a una realtà che, lo abbiamo detto, celebra il suo decimo compleanno dedicando ai suoi visitatori un catalogo che – posso confermarlo dopo aver visitato un buon numero di eventi letterari – ha il pregio di essere al contempo articolato e ben calibrato. La parte più interessante per gli addetti ai lavori è quella curata dal PBF Translation Centre, i cui incontri, coordinati da Ilde Carmignani, sono dedicati al rapporto tra traduzione ed editoria, con alcune “incursioni” nel mondo editoriale in senso più ampio. Ieri, ad esempio, l’editor di minimum fax Martina Testa, che si occupa in particolare di narrativa straniera, ha spiegato a un uditorio composto in maggioranza da giovani donne cosa vuol dire essere un editor e, soprattutto, quali sono le meccaniche che entrano in gioco nei rapporti tra autori, editori, traduttori, rapporti che si vorrebbero impostati su una proficua collaborazione economica e intellettuale e che richiedono, proprio per questo, che da ambo le parti ci sia un alto livello di trasparenza e di vivacità. Nei rapporti con la narrativa straniera, poi, la faccenda si complica: “scovare” un talento da inserire nel proprio catalogo richiede competenze altissime e un aggiornamento costante. Martina Testa conferma che un editor deve avere la capacità di «ficcare il naso dappertutto», interagire con molte figure professionali (agenzie letterarie e di scouting, tanto per fare un esempio) «per riuscire a orientarsi in una messe di proposte e scoprire un libro che vale la pena proporre ai propri lettori». 

A questo intervento ne legherei idealmente almeno un altro, la presentazione del volume Del denaro o della gloria. Libri, editori e vanità nella Venezia del Cinquecento (Mondadori, 2012): un libro che, a dispetto (o forse no) del titolo, non è opera di uno storico ma di una tra le più note editor italiane, Laura Lepri, che si occupa da anni di scrittura creativa e ha deciso di cimentarsi nel mondo della narrativa, proprio lei che ne possiede e ne insegna gli strumenti più raffinati. Il risultato è un’opera che vuole «trasporre in un linguaggio narrativo un mondo che, paradossalmente, è stato studiato moltissimo ma è poco conosciuto dal grande pubblico»: la Venezia del Cinquecento, la culla dell’editoria moderna in cui si mossero personaggi importantissimi per la nostra storia letteraria e culturale; all’ombra del “gigante” Pietro Bembo, il personaggio che la Lepri segue nella sua parabola culturale e biografica è un chierico ossessionato dai tradimenti e dalle storie, Giovan Francesco Valier, che per il lavoro di vero e proprio editing a cui sottopose il Cortegiano di Baldessar Casteglione può essere individuato come il primo editor nel mondo della stampa

Ma le presentazioni letterarie al #pbf2012 (questo l’hashtag dell’evento, di cui sto curando il livetweet per CriticaLetteraria) non finiscono qui: tra le più divertenti quella di Mama Tandoori di Ernest van der Kwast (ISBN Edizioni, 2012: l'Olanda è il paese ospite di quest'anno), per continuare con un autore a noi molto caro, Dan Lungu, che ha presentato il suo Sono una vecchia comunista! (Aìsara, 2012); tra le presentazioni più interessanti l’incontro tra Andrea Cortellessa e Marco Rovelli per discutere La parte del fuoco (Barbés Editore, 2012), che dà il via a una nuova collana dal titolo paronomastico e molto suggestivo, erranti erotici eretici: una storia che parla di migrazione e carceri – temi, questi, ricorrenti tra i libri proposti in questo festival – ma non solo, perché la prigione può essere materiale (un centro per clandestini) o immateriale (una realtà famigliare oppressiva); La parte del fuoco traduce tutti questi motivi in una prosa vivissima, corposa e tagliente, che realizza nel continuo, anti-retorico ricorso al “tu”, l’ansia di un incontro. 

Così finisce il mio, fin troppo breve, resoconto della prima giornata del Pisa Book Festival: vi do appuntamento a domani per la cronaca della seconda giornata!

Laura Ingallinella

Come eravamo: Rai Eri, la televisione da leggere




Chi ha una nonna con il grembialetto come armatura e il mestolo brandito a mo’ di spada, si sarà forse accorto che il leggendario Artusi è stato sostituito ormai ai fornelli dai libri de La prova del cuoco, a marchio Eri Rai. Eri è il marchio editoriale con il quale la Rai pubblica libri, riviste e prodotti multimediali connessi con la sua programmazione, sfornando una media di cinquanta testi l’anno e definisce se stessa “La Rai da leggere”.
L’inizio dell’attività editoriale della Rai risale al gennaio del 1925, con la pubblicazione del settimanale “Radio Orario” che riportava i programmi delle stazioni radio italiane ed europee. Nel 1930, “Radio Orario” con l’EIAR divenne il Radiocorriere e nel 1954 il Radiocorriere TV.
Il 15 settembre del 1949 si costituì la società ERI Edizioni Radio Italiana che produsse molte collane. Si spaziava dall’arte alla letteratura, dai libri per ragazzi ai corsi di lingue. Scrissero per la Eri autori del calibro di Emilio Cecchi, Carlo Emilio Gadda, Mario Praz, Folco Quilici, Natalino Sapegno, Giorgio Saviane, Giani Stuparich, Demetrio Volcic. Al Radiocorriere si aggiunsero riviste specializzate fra le quali “L’Approdo letterario” e “L’approdo musicale”.
Dagli anni 90 Eri pubblica i libri delle trasmissioni più importanti e reportage giornalistici a firma Enzo Biagi, Bruno Vespa, Sergio Zavoli, Piero Angela, Antonio Caprarica. Dal 1996 ha ceduto l’attività editoriale alla capogruppo Rai.
In particolare vogliamo riferirci qui a un periodo in cui la Rai ancora assolveva diligentemente il suo compito di funzione pubblica, di alfabetizzazione di massa, di didattica popolare.
Nel 1970 uscì un libro collegato strettamente a una trasmissione molto seguita dagli adulti ma anche da qualche bambino curioso e precoce. Il testo s’intitolava En Français, era una coedizione con Le Monnier, e si legava all’omonimo corso di lingue, basandosi su una serie di film pedagogici prodotti dal Ministero degli Affari Esteri francese per l’insegnamento della lingua nel mondo.
Era un’epoca, quella, in cui il francese ancora contendeva il primato all’inglese come lingua straniera indispensabile, sebbene l’inglese cominciasse ad avere quell’ammiccante bagliore di modernità che tanto ci affascinava, collegato alla swinging London, ai Beatles e alle minigonne di Mary Quant.   
Il libro si articolava in due volumi, riportando i dialoghi dei micro film della trasmissione, piccoli sketch ambientati nella Francia tradizionale. C’era un intermezzo in cui veniva illustrato il contenuto lessicale del testo e una parte successiva in cui i vocaboli erano inseriti in un contesto più moderno. Seguivano poi esercizi linguistici e grammaticali.

Né le trasmissioni, né il libro”, è spiegato nell’introduzione, “hanno lo scopo di insegnare una grammatica. Gli esercizi stessi non sono esercizi grammaticali, ma tendono, attraverso la ripetizione, alla “fixation”delle forme studiate.” (pag. 4)

Bruno Osimo: Bar Atlantic


Bar Atlantic
di Bruno Osimo
Marcos y Marcos, 2012

€ 16
pp. 316





La lezione di oggi Adàm la fa sul duale, un concetto che spesso provoca nei propri allievi un piacevole sconvolgimento delle convinzioni non tanto linguistiche ma culturali, di concezione del mondo.
Adàm è il protagonista di Bar atlantic, l’ultimo romanzo di Bruno Osimo, pubblicato quest’anno da Marcos Y Marcos e già grande successo editoriale di pubblico e critica. Cerchiamo di capire perché.
Intanto, Osimo, da esperto linguista e traduttore qual è, sa utilizzare uno stile narrativo trasparente e immediato, in grado di arrivare velocemente al fulcro delle situazioni che vuole descrivere e dei numerosi stati d’animo che si avvicendano, via via, col susseguirsi delle relazioni pericolose che si instaurano fra i sempre intelligenti e acuti protagonisti dei suoi romanzi.
Personaggi, quelli di Osimo, mai a dir la verità troppo sopra le righe, e anzi, quasi sempre perfettamente rispondenti alle più varie tipologie umane che ciascuno di noi può incontrare, ogni giorno, nel vischioso tran tran quotidiano.
In questo romanzo, ad esempio, il lettore si trova a fare i conti con la vita disagiata di Adàm, un insegnante precario, sia nella vita professionale che in quella privata. Adàm è un uomo che si definirebbe “con la testa sulle spalle” eppure intrinsecamente incapace di assumersi delle vere responsabilità. Questo indomito bisogno di fuga dalle soluzioni definitive, lo spinge a cercare, pressoché ogni giorno, sempre nuove e diverse forme di espressività, sempre nuovi slanci, nuovi ardori, diversissime passioni. È per questo che Adàm ha una moglie che ama, sì, ma ha pure molte amanti, che contribuiscono a rendergli l’esistenza ancor più complicata, questo è vero, ma che continuano nonostante tutto a farlo sentire giovane, agile, sveglio, in una parola: vivo.
Il fascino del duale sta soprattutto nel fatto che riporta a un’epoca antica in cui non si contava molto coi numeri, però si faceva la differenza sostanziale tra uno, tanti, e… due.
Adàm, in definitiva, non è certo un uomo solitario. Anzi, sente fortissimo un bisogno di attaccamento, oserei dire morboso al mondo che lo circonda. Un mondo però, ricordiamo, precario, instabile, rutilante, che lo costringe continuamente a prendere treni, cambiare abitudini, conoscere persone, i suoi studenti, appunto, che stanno giusto per intraprendere la loro strada, studenti che presto lo abbandoneranno, per lasciare il posto ad altri studenti ancora, ad altre mille e mille facce tutte anonime, eppure tutte così pulsanti, così strettamente attaccate alla vita.
Ancora un’allegoria dei nostri giorni, dunque, ancora un romanzo sull’incertezza condivisa e condivisibile, sia dai giovani che dai meno giovani.
E lui, Adàm, che sogna mondi antichi, sarà in grado di orientarsi davvero nel presente? Riuscirà a prendere in mano la sua propria esistenza, e a dare ad essa un corso che sia unitario, corretto, definitivo? Oppure resterà nel limbo delle plausibili scelte, tra un’unica solitudine profonda e moltissimi connubi continui?
Come a significare che la quantità “due” non è né un singolare né un plurale, ma una terza possibilità, intermedia.

Francesca Fiorletta

Il corpo: umano?

Il corpo umano
di Paolo Giordano
Mondadori, 2012

e-book 9,90 €
cartaceo 19,00 €

pp. 309

Torna Giordano, e torna con un romanzo che farà parlare ancora di più e più strati di lettori rispetto al tanto discusso (in bene e in male) La solitudine dei numeri primi. Protagonisti, qui, i soldati italiani in Afghanistan, un contingente come tanti altri, in una missione che sembra a lungo l'ennesima Fortezza Bastiani. 
Nel campo i soldati portano tutti i loro problemi della quotidianità italiana: una madre iperprotettiva e castrante, rapporti intermittenti con la propria amata ma non del tutto compresa sorella, un fidanzamento tutto platonico con un nickname, una gravidanza inaspettata con una compagna quasi occasionale, il proprio essere donna in un esercito di soli uomini, la verginità a vent'anni,... Ogni soldato, di ogni grado, parte dall'Italia con un bagaglio di esperienze che non cercano risoluzione ma almeno tregua nel caos del deserto e della minaccia:
Ciò che Alessandro Egitto sa fare meglio è tenersi in disparte.
Esistono persone portate per l'azione, per comportarsi da protagonisti - lui è solo uno spettatore, prudente e scrupoloso: un eterno secondogenito.
Da parte dell'autore né pregiudizi né moralismi nel trattare una realtà delicata come la guerra: i soldati sono corpi, e sono umani; da qui il titolo emblematico, che sembra rimandare a questa doppia realtà. "Non date per scontato il corpo umano", questo suggerisce ogni giorno la realtà bellica: il materialismo più spinto della morte, come disgregazione cruda e impietosa, rischia di ottenebrare il valore dell'umanità:
Concentrati!, si dice René. Uno dei suoi uomini è rimasto da solo nella tende. Compie uno sforzo per eliminare dalla mente il volto pallido e sudato di Torsu, il suono della sua voce e il ricordo dell'ultima ferrata insieme, quando hanno avvicinato un cervo, loro due soli. Spersonalizzare ogni uomo, ogni amico, è questo il trucco, cancellarne i connotati e il timbro della voce, perfino l'odore, finché non sei in grado di trattarlo come una semplice unità.
Davanti al pericolo, l'uomo può manifestarsi grande o piccolo al tempo stesso, come ci ha insegnato la storia e ha testimoniato tanta letteratura sulle guerre mondiali (Alvaro di Vent'anni, ad esempio, o i Vociani che hanno lasciato pagine di incantata missione e solidarietà civile, ma anche la poesia conosciutissima dell'Allegria ungarettiana,...). E Giordano ha certamente introiettato la lezione della tradizione: il soldato è un uomo, coi suoi vizi e le debolezze, il bisogno di ragazzate e di riso per allontanare l'anatema della morte, come l'urgenza di sfogare l'istinto sessuale o di inventarsi, più poeticamente, donne che lo attendano al ritorno. 

La terapia dei dolci di Susan Shapiro

La terapia dei dolci 
di Susan Shapiro
Dalai Editore, 2011

Traduzione di F. Sassi

pp. 284
€18

Ci sono dei libri che vanno divorati, letti d'un fiato, di quelli che confondi quando a iniziare è il tuo respiro e a finire quello del protagonista.
Non ti chiedono il permesso, loro sono lì e ti prendono tutto il tuo tempo, tutto il tuo fiato; li leggi la sera prima di addormentarti e poi continui tutto il giorno seguente, mentre lavori, mentre mangi, puoi non averceli sotto il naso, ma tu continui a leggerli, lo fai sospirando le pagine che verranno e intestardentoti su qualcuna di quelle andate.
Poi ci sono altri libri, di quelli che si insinuano tra la metro delle 7 e il caffè delle 14. Spesso sono libri che non scegli, semplicemente capitano; li hai trovati un lunedì mattina in libreria oltrepassando lo scaffale dei bestsellers e quello dei grandi classici: tu vuoi semplicemente un libro che capiti; che capiti per te in quel lunedì mattina in cui finisci per cercare le tue risposte in libreria, che lo sai che è più comodo trovarle lontano da te. Allora ci sarà pure qualche storia che ti tenga compagnia in un lunedì mattina di attese e acquolina, che le settimane si aprono sempre con qualche incognita e un sano appetito: dopo una sera di digiuno come espiazione dell'abbuffata del pranzo domenicale sei soddisfatta e a posto con te stessa, così a posto che arrivi a dimenticartene il lunedì mattina premiandoti con un surplus di zuccheri.
Con una pasta alla crema in più e qualche spicciolo in meno nella borsa, sali sulla metro delle sette stringendo fra le mani La terapia dei dolci di Susan Shapiro, il tuo libro delle risposte, il tuo libro di attese e acquolina. Il libro che capita.
La terapia dei dolci non è un libro da leggere d'un fiato, al contrario è uno di quei libri da sgranocchiare: mangiato con gusto, a piccoli morsi.
Puoi lasciare passare del tempo, ma ritrovi la trama, una ventina di minuti al giorno bastano per alzarti non del tutto sazio e lasciare un posticino da riempire nel prossimo scampolo di tempo che riuscirai a ritagliare.
Ad aspettarti sempre lei: Julia, Julia Goodman, topo di città, “magra come un chiodo, senza un grammo di nicotina in corpo, felicemente sposata, con una carriera in pieno decollo”, dopo anni di gavetta nella redazione di una rivista femminile, Julia ha raggiunto il successo come autrice di manuali di auto-aiuto.

Te la racconto così


Te la racconto così
di Cetta Petrollo

Giulio Perrone editore, 2012
pp. 123
€ 12,00

Immaginate una serie di piccoli dipinti parlanti stesi sul bagnasciuga sul far della sera e poi sotto il sole cocente di Ferragosto. Immaginate che questi dipinti, acquerelli luminosi e sfumati, vi parlino di ciò che hanno visto anni fa, del ricordo di una gioventù che si fa mitica ma che non istiga al moralismo e al luogo comune dei bei tempi andati.
Frammenti di passato, una sorprendente capacità affabulatoria e tanta, tanta leggerezza. Che se venisse un'ondata niente si salverebbe e il mare inghiottirebbe tutto in un attimo. Ma il mare è calmo, e anche lui ha buon gioco ad avere al suo fianco questi lievi testimoni di un tempo che fu e, contrastivamente, del tempo che è, e che è diverso: non peggiore, non migliore. Diverso.
Te la racconto così non è una raccolta di favole, o quantomeno non lo è, per così dire, in prima istanza. Sono storielle impalpabili incentrate su oggetti, usanze e figure sociali di un'epoca passata e morta di morte violenta, uccisa dall'esercito implacabile del lavoro interinale, dei cellulari e dei callcenter; dai gelati dai mille gusti e dalle bambole perfette che «sembrano cartoni giapponesi in tre d.» (p. 52). Sono storielle che diventano favole nel momento in cui vengono offerte a chi di quei colori e di quei suoni ha solo ricevuto, inevitabilmente, i resoconti più accurati e potrebbe – checché ne pensino i genitori e i nonni – fornire a sua volta descrizioni perfette, sì, ma non li ha vissuti sulla sua pelle. La realtà sfuma nella favola grazie al filtro distanziante del tempo e a una sensibilità poetica che sa epurare il ricordo da quanto è “materico” e contingente preservandone l'essenza e dilatandolo in respiri poetici di rara delicatezza. È un po' ciò che avviene in chiusura di una delle più note canzoni di Francesco Guccini, a ben vedere: «Il bimbo ristette, lo sguardo era triste / e gli occhi guardavano cose mai viste / e poi disse al vecchio con voce sognante: / "Mi piaccion le fiabe, raccontane altre!"».



Più del contenuto è importante la forma, verrebbe da dire. Non perché il contenuto sia privo di interesse o di qualità, tutt'altro. Ilfatto è che siamo in quelle zone della letteratura, invero non infrequenti, in cui la forma non è soltanto latrice di un contenuto ma è contenuto essa stessa. Walter Pedullà, critico attento e sempre sensibile agli aspetti linguistici, nella prefazione a una precedente opera di Cetta Petrollo parlava di «una prosa che sembra registrare una realtà fatta di pensieri in incubazione con sintassi dissestata, grammatica insofferente di regole e lessico inaccessibile: o tale almeno fino a quando non si sia presa confidenza con lo“scandalo linguistico» (Cetta Petrollo, Senza permesso, Roma, StampaAlternativa, 2007, pp. 3-4). Siamo al centro del complesso rapporto tra parola e suo referente. La realtà che giganteggiava in Senza permesso richiedeva, necessariamente, una lingua salterina e impegnata ad “autosabotarsi” nel tentativo di tener dietro ai cortocircuiti dell'esistente; qui abbiamo piuttosto la situazione opposta: la narrazione si appiglia a un passato sublimato in ricordo che ha l'andamento circolare e sgombro da asperità proprio, appunto, delle favole. Il significante è mimetico rispetto al significato, e spesso è proprio il ritmo sinuoso della scrittura, l'onda lunga delle parole e la risacca che ne segue, a fissare il tono e a far intuire il senso di quanto segue: la circolarità della sintassi anticipa quella del racconto.


Altri espedienti a cui Cetta Petrollo ricorre abilmente sono frequenti sbalzi temporali che stabiliscono un contatto col lettore invitato a tener desta l'attenzione: «[...] Ogni tanto la morte aleggiava vicina, proprio vicina, addirittura nel cortile, state zitti, state zitti c'è una bambina che sta molto male» (p. 61), un uso intensivo del 'che' paratattico ed elencazioni esuberanti che sono impennate di poesia e velocità: «[...] Una volta erano mamme intorno ai venti e poi ai trenta, durette di carattere, toste d'animo, fortissime, sveglissime di giovinezza, odorose ancora di vita, di pelle sana,di sesso» (p. 47).


Non è un testo che si presta bene a essere recensito, per la verità. Dopo averlo letto viene spontaneo raccomandarne la lettura, ma è meno spontaneo spiegare perché lo si stia consigliando. Ed è questa, probabilmente, la riprova della sua validità: è una felice prova di scrittura che trova in sé la sua giustificazione. È un bel libro, semplicemente. E scusate se è poco.

Incontro con Giorgio Manacorda





Per la serie di incontri di BookUp (rassegna che premia gli esordienti di quest'anno), oggi, nell'ex palazzo di Lingue della Università di Sassari si è tenuto l'incontro con Giorgio Manacorda, che ha presentato insieme a Simonetta Sanna il suo primo romanzo, Il corridoio di legno (Voland, 2012). Il noto critico militante e accademico, noto per i suoi studi germanistici e sulla poesia, è stato più volte Preside della facoltà di Lingue in Tuscia. La vena creativa si era già espressa in raccolte di poesie, ma quello uscito per Voland è il suo primo romanzo.

"Esordire a settant'anni" commenta subito "è bellissimo", e ridacchia che allora c'è speranza per tutti. Il romanzo è un'opera generazionale, di matrice politica, che nasce dopo una gestazione di circa trent'anni, dovuta probabilmente all'elaborazione lenta di un lutto personale, ma anche per prendere le distanze dall'idea di comunismo e di rivoluzione che è stata poi spazzata via dal terrorismo.
Il libro si apre con il microcosmo di un collegio berlinese, dove i giovani protagonisti verificano l'esercizio della violenza senza ideologia, la violenza costitutiva dell'"animale uomo". Questo uno dei temi principali, unitamente a una riflessione amara sul potere. Solo nel potere, infatti, l'uomo manifesta la fragilità intima di chi si pone come il più forte, dal momento che "il potere è un'apparente medicina per il sé".

Simonetta Sanna, attenta nell'analisi del romanzo pur senza rivelare troppi aspetti della trama, coglie la rappresentazione molto individuale che viene dedicata ai singoli personaggi, rappresentazione di un narratore che, in qualche modo, è attento e presente sulla scena, pur senza essere onnisciente. Di questi personaggi, giovani fratelli e amici, coglie anzitutto la solitudine, tratto legato all'esilio del collegio e al senso d'abbandono familiare: "Si tratta di una solitudine non medicabile, se non forse solo un l'amore, quando c'è ed è vero".

Notate le caratteristiche che rendono il romanzo anche un'interessante prova di romanzo politico, si passa a riflettere sullo stile scrittorio di Manacorda e sul suo rapporto con la prosa. Il critico-scrittore confessa di aver faticato a lungo a scrivere narrativa, almeno finché non ha realizzato che, se espressi gli elementi nel giusto modo, "nel romanzo si può mettere tutto. Da allora scrivo narrativa, e lo trovo stupefacente". Simonetta Sanna non manca di ricordare la difficile intersezione che deve sempre essere presente tra materiali tratti dalla realtà e narrativa, e non può che commentare con Kafka: "Lascia che il libro sia come un'ascia nel mare ghiacciato dentro di noi".
Kafka, amato e studiato da Sanna e Manacorda, è anche occasione per riflettere sulle fonti presenti nel libro di questa sera: indubbiamente risuona l'influenza dei tedeschi, ma Manacorda confessa di essersi sentito davvero ispirato dopo la lettura di Per questa notte di Juan Onetti (Editore Feltrinelli), che ha iniettato il desiderio di parlare, a distanza di tempo, di una certa delusione politica.

Come ci annuncia in anteprima Manacorda alla fine dell'incontro, Il corridoio di legno non resterà unica prova narrativa dello scrittore. Al contrario, vi è già un libro pronto per gennaio (un giallo, a quanto pare di capire) e un altro in via di scrittura. Non manca di confessare la difficoltà nel fare lo scrittore: non tanto nello scrivere (Manacorda ha la fortuna di scrivere tutto e subito e di potersi permettere il lusso di revisionare e fare labor limae, ma senza rimettere mano all'intreccio), ma nel confronto che, indirettamente, avverte con tutte le letture introiettate negli anni scorsi. I grandi tornano incoscientemente, insieme alla preoccupazione di fare un libro che sia immaginato, e non pensato, e che abbia alla sua base una metafora.

Dunque, non resta che aspettare gennaio per la seconda prova di questo esordiente del tutto singolare!

Elio Paoloni, Piramidi


Piramidi
di Elio Paoloni,
Sironi, Milano, 2002

pp. 128 
€ 10,80.




          Piramidi, uscito ormai più di 10 anni fa, è stato il secondo libro di Elio Paoloni e faceva seguito a Sostanze (Manni, 2001) pubblicato appena un anno prima. Da allora, fatto salvo qualche intervento saggistico su varie riviste, la voce creativa di Elio Paoloni tace, e, a giudicare dal libro d’esordio e in special modo da Piramidi, è un peccato, perché si tratta di una voce suadente, sobria, curata. Probabilmente se fosse stata tenebrosa, enfatica e trasandata il mercato editoriale le avrebbe concesso maggior fiato per affermarsi e continuare a rintronare il cervello dei lettori.


          Piramidi descrive la condizione esistenziale di un aspirante letterato che di fronte al muro di gomma dell’ambiente verso cui si sentirebbe portato, si trova, quasi suo malgrado, ad essere invece golosamente tentato e felicemente accolto da una grande compagnia multilevel marketing che si occupa di integratori alimentari e che gli assicura, previa rinuncia ad ogni astrazione speculativa e allo sguardo critico, ossia ad ogni pensiero, il successo economico e l’ascesa sociale. Potrebbero sembrare le tragicomiche avventure di un letterato deluso e pentito sperso per il mondo del successo, dell’adeguamento ai canoni del neoliberismo, della perdita di sé. Però Paoloni, grazie ad uno stile affabile e ricercato, pur senza particolari sperimentalismi espressivi, scarta sia la tragedia che la commedia (che, detto per inciso, in Italia, per chissà quale motivo, finisce sempre per diventare farsa); ed evita pure l’ordinato e astratto quadretto sociologico. Insomma, il personaggio che dice io (che non ha nome) vive dentro la situazione, evita giudizi su sé e sugli altri, descrive con spirito brillante e acuto, ma non supponente, gli ambienti e le persone che le due attività gli permettono di frequentare. E se per il mondo della riuscita sociale non mostra l’entusiasmo o il perfido godimento che potrebbe suscitare, per il vacuo e pigro mondo delle lettere non si lascia andare né alla satira rabbiosa e feroce né all’autocompatimento. Ne risulta una situazione di stallo, d’indecisione, d’inconciliabile giustapposizione, che, sul piano della composizione letteraria, impedisce lo svolgimento narrativo. Paoloni descrive, spiega, suggerisce, ma non rappresenta svolgimenti, non offre sviluppi narrativi, come se la mancata dialettica tra i due temi non consentisse quell’incontro o scontro foriero di conseguenze materiali o spirituali.

#bookcity: i libri dei bambini e i Coralli Einaudi (4^giornata)


Si è conclusa al meglio la mia esperienza a Book City Milano, con due eventi molto piacevoli. Alle 16.00, nella splendida sala Fontana del Museo del Novecento, si è tenuto in incontro dal titolo: “Piccoli lettori per grandi libri”, organizzato in collaborazione con il Settore Biblioteche del Comune di Milano e condotto da Daniela Bastianoni. Bambini dai sei ai dieci anni si sono riuniti per presentare al pubblico i propri libri del cuore. In pochi minuti dovevano raccontare la trama e spiegare cosa li aveva colpiti del testo in questione. La tenerezza delle loro risposte e la dolcezza della loro ingenuità ci hanno letteralmente conquistati. La fabbrica di cioccolato, Entra nell’arte del novecento, Ambra Chiaro va in quarta, La lingua speciale di Uri sono solo alcuni dei libri presentati. Mi hanno molto divertita le motivazioni con cui ognuno di loro ha sostenuto il proprio volume del cuore: dalle illustrazioni, ai personaggi, alla copertina colorata. Tutti i bambini, al termine dell’evento, sono stati premiati con dei libri che potranno scegliere direttamente nelle biblioteche coinvolte nell’iniziativa. Quanto è vero che la lettura è un amore che sboccia da piccoli!

 Di taglio estremamente diverso l’incontro successivo, tenutosi a Palazzo Reale e intitolato “I nostri Coralli. Teaser della mostra dedicata a Giulio Einaudi”. Introdotta dall’Assessore Boeri, con la partecipazione di Giancarlo Ferretti, Malcom Einaudi, Claudio Pavese e Carlo Fantinel, l’evento voleva anticipare la mostra che sarà inaugurata tra due settimane e avrà per titolo “Giulio Einaudi: l’arte di pubblicare”.  All’interno di essa troveranno posto due splendide collane della casa editrice, che sono state raccolte con grande sforzo grazie al consistente aiuto di Claudio Pavese, il quale ama definirsi un “archeologo dell’editoria”, cioè una persona che cerca di ricostruire tassello dopo tassello avventure editoriali italiane che devono rimanere nella memoria di tutti. Da una parte si approfondiranno i Coralli del ’47, ideati dal genio Vittorini, animato in quegli anni da un forte desiderio di rinnovamento letterario e artistico (la collana segnò, infatti, un più deciso spostamento in direzione della narrativa e dell’arte contemporanee, dopo anni decisamente dedicati alla saggistica) uniti ai due progetti-laboratorio che li precedettero, Corrente e Narratori contemporanei; dall’altra, invece, i Maestri contemporanei, diretta e voluta da Lamberto Vitali e dedicata all’opera grafica dei grandi maestri Morandi, Modigliani, Manzù, Giacometti e Casorati

La scelta delle due collane risponde all’esigenza di evidenziare la grandezza e la continuità del progetto Einaudi, la coerenza e capacità evolutiva e, soprattutto, la capacità di influire sull’immaginario di un’intera nazione che, anche attraverso la cultura, ha superato la grave crisi postbellica. In entrambi i casi si riscontra un nesso molto significativo di forme artistiche: nei Coralli è l’arte a essere ancella dell’editoria, attraverso i grandi progetti grafici degli artisti milanesi degli anni ’40, del grafico Uber e, in seguito,di Munari; mentre nei Maestri contemporanei è l’editoria a farsi ancella dell’arte, qui espressa nella sua massima forma attraverso il sistema della fototipia e l’eccelsa cura grafica e tipografica. I relatori hanno parlato delle collane Einaudi da prospettive diverse: Einaudi ne ha sottolineata la dimensione largamente culturale, Ferretti ne ha discusso in termini di politica editoriale della casa, Pavese e Fantinel, in qualità di curatori della mostra, ne hanno illustrato le finalità e le peculiarità, anticipando parte delle scelte compiute per anticipare al pubblico quello che a breve vedrà. Non posso, dunque, che sollecitarvi a visitare la mostra che si terrà a Palazzo Reale dal prossimo 29 novembre al 6 gennaio e che non avrebbe potuto che scegliere Milano come sua città in quanto è qui che queste due straordinarie collane sono nate.  


Si è conclusa così, la mia ultima giornata di Book City, manifestazione della quale ho cercato di raccontarvi anzitutto lo spirito. È stato affascinante vedere, ancora una volta, una Milano viva che fa cultura in modi diversi, riunita nei suoi luoghi topici per raccontarsi e ascoltare; la Milano dei libri che ogni tanto sembra sopita, ma che aspetta solo l’impegno e la buona volontà per risvegliarsi e brillare.



Claudia Consoli






                                                                                                                                 

#bookcity: dal cuore delle case editrici a David Grossman (3^ giornata)


Intensa ed emozionante, la mia terza giornata di Book City, è stata dedicata a due eventi: la visita guidata alle sedi di Mondadori ed RCS Media Group al mattino, la presentazione dell’ultimo libro di David Grossman, Caduto fuori dal tempo, al pomeriggio.



Quella di visitare le sedi dei due colossi editoriali è stata un’opportunità davvero particolare, organizzata dal centro culturale milanese AIM (Associazione Interessi Metropolitani), con la preziosa collaborazione delle guide di Civita. Evento collaterale di Book City Milano, la visita guidata ci ha impegnati per tutta la mattina conducendoci dapprima alla sede mondadoriana di Segrate, edificio unico nel suo genere progettato dall’architetto brasiliano Oscar Niemeyer, a seguito del suo incontro con Giorgio Mondadori nel 1968. Ultimata nel 1975, la costruzione rispecchia perfettamente la monumentalità e l’imponenza che il figlio di Arnoldo aveva richiesto. Immersa nel verde circostante e perfettamente integrata in esso, la sede si contraddistingue per la sua originalità architettonica e per una concezione dello spazio che all’epoca si rivelò decisamente innovativa. Ci sono stati mostrati gli uffici amministrativi del corpo centrale, nonché il complesso di edifici limitrofi, ci sono state raccontate storia e abitudini di lavoro dei dipendenti Mondadori e, attraverso l’osservazione dello spazio di oggi, abbiamo ricostruito la storia dell’azienda e i suoi sviluppi. Con lo stesso spirito abbiamo visitato la sede della RCS Group, che si trova in via Palmanova (luogo storico scelto dallo stesso Angelo Rizzoli) ed è stata progettata dallo Studio Boeri. Interessante cogliere la dinamica di formazione dell’intero complesso, attualmente composto da edifici che si richiamano per i tratti delle facciate rivestite da lastre che conferiscono all’insieme un effetto cangiante, con rese cromatiche diverse a seconda delle ore della giornata. Tra architettura, storia ed editoria, ci siamo mossi all’esplorazione delle sedi cercando di rintracciarvi lo spirito e la progettualità di quelle che sono state, sin dai primi decenni del ‘900, grandi case editrici italiane e che oggi si sono evolute in gruppi editoriali di rilievo unico a livello nazionale e internazionale. Come non ricordare poi, in più occasioni della visita, quella sorta di filo rosso che lega i due editori protagonisti, Arnoldo e Angelo, quei loro percorsi differenti – certo – ma tangenti per molte occasioni e scelte comuni.[1]




 Come anticipato, nel pomeriggio ho assistito, all’incontro con David Grossman, tenutosi al Teatro Elfo Puccini. Tra l’altro ho avuto il piacere di farlo insieme a Flavia Catena, altro membro della redazione di CriticaLetteraria, che ha scattato le fotografie inserite in questo articolo. L’autore israeliano, che mi ha colpito per la sua eleganza e per la gentilezza di modi, ha raccontato come è nato il suo ultimo romanzo (leggi la recensione di Gloria), del quale la critica ha subito colto la particolare modulazione stilistica. In bilico tra generi diversi, il testo ha preso la forma di una scrittura che, come l’autore stesso ha specificato, non accetta definizioni perché parla di un tema unico, di una vicenda che contravviene al naturale ordine delle cose e, proprio in virtù di questo, ha bisogno
                                                                                    di una forma straordinaria per essere raccontata.





Grossman ha saputo descrivere un’esperienza paralizzante come la morte di un figlio e ha confidato che il libro è nato, prepotentemente, per rispondere a un’esigenza di “movimento”, dalla volontà di uscita dallo stato di fossilizzazione in cui il dolore fa precipitare. Si è ritrovato a scrivere della sofferenza della perdita, trascinato dall’impulso di mischiare generi diversi. Ha colto così, “quanto sia frustrante usare parole del mondo dei vivi per descrivere qualcosa che avviene laggiù”.  

Per arrivare a questo altrove ha fatto ricorso alla parola poetica, straordinaria, altra rispetto all’ordinario del discorso narrativo. Questo gli ha consentito di abbattere quel muro che separa il noi da un “laggiù” dolente. La poesia è la lingua del lutto. Il discorso di Grossman è stato intervallato da due letture di brani del romanzo, splendidamente eseguite da Elio De Capitani e Cristina Crippa
Dai readings è emersa la forza, l’impeto delle parole, nonché la complessità di un sistema di personaggi che non sono altro che le tante sfaccettature del lutto, della perdita, della nostalgia. Ho trovato illuminante la sua descrizione della scrittura come strumento attraverso cui cerca di comprendere le cose della vita trasponendole in storie.  “Non voglio proteggermi da nulla, non ho mai avuto in programma di vivere in trincea o di diventare più forte”, ha dichiarato. Trattandosi di un romanzo particolarmente centrato sulla parola, non si poteva naturalmente tralasciare il fattore linguistico. Si è affrontato, dunque, il discorso relativo alle traduzioni del libro: come sottolineava anche Elena Loewenthal in una recensione pubblicata su “Tuttolibri” lo scorso 10 novembre, è curioso che molte delle lingue in cui il romanzo è tradotto – e tra esse anche l’italiano – non dispongono di una parola che definisca la condizione dei genitori che hanno perso un figlio. L’ebraico la possiede: essa è “shakul”. L’ultima parte dell’incontro è stata dedicata anche al tema, ahimè caldissimo, della questione arabo-isrealiana, a proposito della quale Grossman ha espresso la propria idea, esortando al dialogo, lamentando la spirale di violenza che gli eventi storici (specie quelli degli ultimi cinquanta anni) hanno generato. La logica della violenza si basa su giustificazioni che, oggi come allora, conducono il Medioriente verso il baratro della distruzione. Ed è essenziale che anche l’Occidente si interroghi sulla questione. L’incontro si è chiuso tra le polemiche di un gruppo di attivisti filopalestinesi che ha interrotto la lettura che lo stesso Grossman  stava facendo di uno dei suoi brani in ebraico, con l’intento di manifestare contro la violenza israeliana e rivolgendo attacchi espliciti allo scrittore. Inutile descrivere il tumulto che si è suscitato in sala tra il pubblico. Rivolgo piuttosto la mia ammirazione a Elio De Capitani che ha gestito la situazione in modo molto intelligente, riuscendo a dialogare con i diversi “schieramenti”, nel pieno rispetto delle opinioni di tutti e anche dell’autore ospitato. Per quanto mi riguarda, ho maturato l’idea che essere lì seduti ad ascoltare le parole di uno scrittore israeliano, non entra in contraddizione con le idee o la sensibilità politica di chi sostiene la causa dei palestinesi. Pur nella piena convinzione che il diritto all’espressione dei propri ideali sia indiscutibile, così come la possibilità di scelta del luogo in cui farlo, mi trovo a considerare che Grossman ci ha conquistati parlando del suo libro e si stava esprimendo nell’alfabeto del lutto e di dolore che - purtroppo o per fortuna - sono universali.


Claudia Consoli



[1] Mi dispiace non poter allegare alla cronaca le fotografie che ho scattato alle due strutture ma, per ragioni di autorizzazioni e permessi, ciò non è stato possibile.