#RileggiamoConVoi: torna l'autunno

Con la chiusura di settembre ci sarà davvero la fine di questa caldissima estate? Noi non crediamo, o almeno speriamo che tanti di voi possano ancora dedicarsi qualche lettura rubata sotto l'ombrellone. Dopo i consigli #Sottol'ombrellone, torniamo con il nostro consueto #RileggiamoConVoi, sperando di darvi qualche dritta per i primi pomeriggi di pioggia e le prime letture accanto al camino,

La Redazione

Ultima estate in Pianura Padana


Claudia consiglia...
"Le nausee di Darwin" di Giordano Boscolo 
Perché: è un libro originale per stile e trama, che si gusta pagina dopo pagina, sorridendo e riflettendo su una vicenda un po' paradossale (benché tragga spunto da una storia vera!). Si costruisce su dialoghi brillanti che non annoiano mai. 
A chi: soprattutto ai giovani ma, più in generale, a tutti coloro che cercano una lettura agile, godibile, divertente. Per concludere l'estate con quel pizzico di leggerezza che non guasta mai.  

Giulia consiglia...

"La strada" di Cormac McCarthy
Perchè: perchè  in questa favola nera fatta di desolazione, paura e grigi abbagliati, il sentimento di protezione del Padre verso il Bambino commuove ancora di più. Per gli scarni ed essenziali dialoghi, vero punto di forza della penna dell'autore, che rendono alla perfezione l'asprezza di un mondo post apocalittico.
A chi: Per tutti noi. A voler credere alle profezie Maya, la fine del mondo si sta avvicinando: speriamo che non ci riservi nulla di simile.

Gloria consiglia...
"Qualcosa di scritto" di Emanuele Trevi
(clicca qui per la recensione)
Perché: è un viaggio nella storia di Petrolio di Pasolini, ma è molto di più: sono storie di vita, del narratore-ricercatore e di personaggi conosciuti solo attraverso le parole di Pasolini stesso.
A chi: A chi ama scavare oltre la pagina scritta per scoprire sorprendentemente altra letteratura

Stefano consiglia...
"L'Antologia di Spoon River" di Edgar Lee Masters
(clicca qui per l'invito alla lettura)
Perché: per la profondità intellettuale, perché ognuno può incontrare un personaggio nella cui vita ritrovarsi.

A chi: a chi è incuriosito e affascinato dall'intrecciarsi delle vite passate dei personaggi

Pillole di Autore - XS presenta un inedito di Alessandro Piperno


Prima domenica con i libri della nuova collana digitale di Mondadori, "XS di autore" (vuoi saperne di più? Leggi la nostra intervista a Francesco Anzelmo). Primo protagonista è Alessandro Piperno, autore dell'esplosivo Con le peggiori intenzioni (2005), che gli vale il Viareggio e il Campiello opera prima. Nonostante il suo carattere riservato, è stato al centro dell'attenzione mediatica negli scorsi mesi quale vincitore del Premio Strega di quest'anno per il suo Inseparabili. Il fuoco amico dei ricordi, che abbiamo recensito di recente.
Lo scrittore, che molti avranno conosciuto nei suoi corsi di Letteratura Francese a Tor Vergata, si divide tra l'insegnamento, la ricerca e la narrativa. Senza dubbio lo si può ritenere (e a ragione) una delle voci più interessanti degli ultimi anni, forse "poco italiana" per la vena di ironia cinica che permea le opere, mai indifferenti al terremoto valoriale degli ultimi anni, ma per niente giudicante o moralistico.

Il racconto Pastiche proustiano in biancoceleste, di cui vi offriamo l'inizio, accosta fin dal titolo due elementi diversissimi: cosa c'entrano Proust e la Lazio? La risposta alle parole dell'autore, qui sotto, che gentilmente s'è prestato a farci leggere le prime pagine...




Pastiche proustiano in biancoceleste
di Alessandro Piperno




Per troppo tempo non sono riuscito a prendere sonno per via della Lazio.
È come se quel concetto astratto, che mi ostinavo a riempire di così tanti dettagli concreti – colori, odori, fissazioni, riti, mal di stomaco, giornate uggiosamente piovigginose –, e che si materializzava di fronte ai miei occhi ogni qual volta la mia lingua e il mio palato trovavano il coraggio di unire le due magiche sillabe “La-zio!”, si fosse preso l’ingrato compito di riempire i vuoti sinistri del mio nulla esistenziale. Era strano come le vicende che accadevano sui campi di calcio che non avevano alcuna seria relazione con la mia vita potessero coinvolgermi in un modo che se non poteva dirsi paranoico, certo arrivava a sfiorare la nevrastenia. E dire che non era sempre stato così. C’era stato un tempo della mia vita in cui associavo quel nome – Lazio – a uno strano ballo in maschera che una domenica sì e una domenica no io, mio padre e mio fratello e un altro gruppo di circa quarantamila persone tutte provenienti da diversi gruppi sociali e dai più disparati quartieri, inscenavamo nel solito posto: quell’astronave enorme atterrata con grande discrezione e chissà quanti anni prima della mia nascita ai bordi verdeggianti del Tevere che per comodità ci ostinavamo a chiamare “stadio” ma che in realtà io sapevo essere molto di più. Tanto che quando mio padre, dopo un pasto rispettosamente frugale (non si va a messa con la pancia piena), pronunciava la frase: «E allora si va!», venivo afferrato da quell’angoscia e da quell’euforia che, negli anni successivi, quelli della mia adolescenza, avrei ritrovato, in una gradazione alcolica diversa e assai più preoccupante per il mio sistema nervoso, nei minuti precedenti all’istante in cui mi sarei mosso da casa per raggiungere una festa piena di ragazze indifferenti capaci di esaltare, con la loro sola esistenza, la mia umana irrisorietà.
Il fatto strano è che all’epoca tutte le mie emozioni si concentrassero sul “prima”, sugli antefatti, e come il “dopo” e il “durante” mi apparissero per lo più molesti. Ogni volta pregustavo il momento in cui avremmo parcheggiato l’auto, quel momento in cui, una volta scesi, ci saremmo ritrovati nel pieno del ballo in maschera. Era un’autentica gioia vedere tutta quella gente di sesso diverso, di diversa età, di diversa estrazione confluire in una punteggiata fiumana di cobalto. Se qualcuno avesse avuto la possibilità di contemplare quella scena dall’alto, probabilmente avrebbe potuto vedere un torrente nuovo di zecca fluire con una certa impetuosità nel suo letto fatto di marmo e di prato, che con il suo colore smagliante sembrava farsi beffe dell’altro fiume, quello istituzionale, il cui color senape suggeriva un’idea di squallore che in certe giornate grigie risultava perfino intollerabile. Ma ciò che attendevo con maggiore trepidazione, cui non avrei potuto rinunciare neppure sotto l’allettamento di qualche altro divertimento più canonico, era di salire lo scalone che ci avrebbe condotto all’interno dell’arena. Sapevo, per averlo provato oramai decine di volte, che l’impressione che mi avrebbe dato la vista improvvisa e quasi miracolosa di tutto quel verde scintillante – un colore così poco naturale che mi veniva facile associarlo al tappeto verde su cui i miei genitori giocavano a peppa il sabato pomeriggio o a certe porcellane scolpite da Luca della Robbia che avevo contemplato in una scampagnata con i miei zii in un piccolo cimitero vicino Lucca – sarebbe durata pochi istanti al massimo, prima che l’Abitudine non prendesse il sopravvento sull’emozione data dalla novità, e che, in ogni modo, non avrei potuto replicarla neppure se fossi uscito e poi rientrato. Sapevo che, per ricreare le condizioni affinché si manifestasse ancora quel tipo di emozionante miracolo, così naturalmente compromesso con l’attesa, avrei dovuto aspettare altre due settimane.
 Ma che diavolo sto scrivendo?
Lo so: è un delirio. È davvero difficile scrivere seriamente di cose serie, per questo svicolo con lo stile: faccio il pagliaccio (di questi tempi è una delle cose che mi viene meglio).
La Lazio per me è una cosa dannatamente seria: per questo la butto in burletta. Non ho alternative. In fondo le cose serie sono le poche che ti fanno perdere il sonno e l’appetito. Il resto ci riguarda solo per spirito di convenienza, di emulazione o di opportunità: quindi non ci riguarda. D’altra parte è tipico: uno si rifugia nei Pastiche per affrontare, o per meglio dire, per tenere a bada argomenti delicati: per demistificarli. Lo faceva Proust con gli scrittori che lo ossessionavano. Perché non posso farlo io, attraverso il suo viatico, per arginare i nefasti influssi che la Lazio continua a esercitare su di me dopo tutti questi anni di scalogna e di palpiti? In fondo la Lazio, per me, è la sola fuga mistica che abbia saputo concedermi in una vita consacrata al più disincantato materialismo.
Sono un laziale e non ho mai voluto essere altro. Ma questa ossessione, come tutte le vere ossessioni, mi ha portato soprattutto dispiaceri.

Vuoi continuare a leggere il racconto di Piperno? Clicca qui.
Si ringraziano Mondadori e l'autore per la concessione di questa prima parte dell'opera.

Editori in Ascolto - Intervista a Francesco Anzelmo - Nasce XS d'autore

XS d'autore: la nuova collana in digitale di Mondadori
- intervista esclusiva a Francesco Anzelmo -

a cura di Gloria M. Ghioni


Il 20 settembre ha debuttato la nuova collana esclusivamente in digitale di Mondadori, XS d'autore. Ne abbiamo parlato con l'ideatore Francesco Anzelmo, direttore editoriale della sezione saggistica, che ha rinunciato a parte della sua pausa pranzo per chiacchierare con CriticaLetteraria e rispondere alle domande sul progetto. 

Cosa significa "XS d'autore" e quando è stata ideata la collana?
Per la collana, progettata già in primavera, si è scelto un nome che mantenesse una doppia natura: da un lato, XS come "extra small", dal momento che i testi prescelti sono brevi; dall'altro, richiama anche l'idea di "eccesso". Ricorda quella band...? 

Sì, in un certo senso l'idea del "grande nel piccolo"? 
Esatto, pensiamo a testi brevi ma di grande intensità, che possano essere del tutto inediti di autori noti a livello nazionale e mondiale, opere dimenticate di autori famosi o, quel che è più nuovo, anticipazioni dei libri in uscita. Con XS troveranno spazio contributi eterogenei: testi letterari, saggistici, ... Il tutto senza il limite quantitativo che, per forza, veniva imposto dall'editoria cartacea tradizionale. Questo è forse uno degli aspetti più interessanti del digitale: abbiamo superato il problema del numero di pagine. Ha idea di quante potenzialità si rivelino?! 


Certo, potenzialità di forma ma anche in merito ai contenuti che andrete a promuovere. Il comunicato stampa annuncia uscite molto diverse tra loro: ce ne vuole parlare?
Volentieri. Abbiamo nomi rappresentativi del nostro catalogo tradizionale, quali Dacia Maraini e Alessandro Piperno, ma anche anticipazioni di libri che usciranno in seguito. Vista poi l'uscita della collana proprio il 20 settembre, giorno dell'inaugurazione di un'importante mostra di Picasso a Milano, abbiamo voluto omaggiare questa bella coincidenza con un contributo di Francesco Bonami sul pittore. 
Se dovessimo guardare a tutto il progetto, l'idea è di una trasposizione per iscritto di un Festival letterario, in cui c'è modo di scoprire le anticipazioni delle prossime uscite e anche interagire.

Proprio a tal proposito, avete mai pensato di creare una modalità di interazione tra l'autore di XS e il lettore? Temete, per assurdo, possibili varianti d'autore dopo un simile contatto? 
Sì, stiamo approntando un sito ad hoc in cui sarà possibile interagire. Modifiche in corso d'opera? Perché no? Certo, probabilmente non sarà il singolo commento a portare l'autore a cambiare elementi significativi del testo, ma non lo escludiamo. 

E proprio in merito al lettore, qual è il lettore ideale di XS?
Il lettore italiano, il lettore forte, in assoluto. Ad esempio, troviamo titoli più adatti al lettore di bestseller, altri agli amanti della saggistica, ma abbiamo pensato anche a lettori più giovani, come un racconto di Licia Troisi che anticipa l'uscita del suo libro nuovo a novembre. 

Come hanno reagito invece gli autori davanti alla proposta di una collana interamente in digitale: hanno manifestato qualche tipo di pregiudizio o si sono mostrati disponibili?
Bene, piuttosto bene, in verità. Hanno dimostrato disponibilità, entusiasmo e ottime reazioni, anche se avevano molte domande e dubbi, ma non ci sono state forme di chiusura. 

Tra le varie tipologie di testi proposti da XS, troviamo anche libri "dimenticati". Se allarghiamo la visuale dalla collana al futuro del digitale, ritiene che l'ebook, con tutte le sue peculiarità, permetterà di rimettere sul mercato opere ad oggi introvabili, se non nel mercato antiquario, spesso decisamente esoso?
Sì, Le racconto in merito un piccolo aneddoto personale. Quest'estate mi era venuta voglia di rileggere la Storia della letteratura italiana di De Sanctis: in cartaceo, totalmente introvabile. Mi è bastato cercarlo in forma digitale e, in pochi click, ecco tutta l'opera a basso prezzo. Insomma, questo per dire che sicuramente il formato digitale porterà molti libri dimenticati a essere immediatamente fruibili. 

Ce lo auguriamo davvero. Visto che stiamo parlando di progetti per il futuro, cosa sogna per il futuro di XS d'autore? Se vuole, può entrare anche nel campo dell'utopia...
Spero che la collana diventi un luogo per accompagnare la produzione degli autori nel futuro, che possano anticipare in digitale l'opera in uscita (che sarà sempre pubblicata nella doppia veste di cartaceo e digitale). In questo primo contatto con l'opera, d'altra parte, i lettori godranno di extra e di scritti minori che altrimenti non potrebbero leggere. In un certo senso, vorrei che XS realizzasse il tentativo di riportare un pezzo di oralità dentro la scrittura.

La ringraziamo per la disponibilità e La lasciamo con un grande in bocca al lupo per il progetto! 

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In realtà, per voi lettori di CriticaLetteraria, c'è un'altra sorpresa! Le prossime domeniche, la nostra rubrica "Pillole d'Autore" accoglierà assaggi letterari tratti dalle prime uscite di XS d'autore, per gentile concessione degli autori e della casa editrice Mondadori. Qui sotto un'anticipazione dei titoli: 

Francesco Bonami
Con Picasso incasso 
Il dissacrante critico d’arte spiega il perché del sensazionale successo, commerciale e di pubblico, di Pablo Picasso.

Roberto Giacobbo
2012 Ultime notizie dalla fine del mondo

Alessandro Piperno
Pastiche proustiano in salsa biancoceleste
Le disavventure tragicomiche di un tifoso della Lazio a Roma. Da Proust a Cragnotti, storia di un’ossessione tra momenti esilaranti e riflessioni sorprendenti.

Dacia Maraini
Una suora siciliana
L’incontro impossibile tra due donne di epoche diverse, in una Sicilia in bilico tra nostalgia del passato e speranza per il futuro.

Francesco Rosi con Giuseppe Tornatore
E adesso facciamo il cinematografo
Anticipazione del libro Io lo chiamo cinematografo. Estratti della biografia di un grande del cinema, con notizie inedite come la sua prima volta a Venezia.

Licia Troisi
Nascita di una ribelle
La magica storia di Eshar, ambientata nel mondo della saga fantasy I regni di Nashira (il cui secondo volume è in uscita a novembre).

CriticaLibera: Da “Twilight” a “Cinquanta sfumature di Grigio”: la dissoluzione di un mito





Per fanfction s’intende la continuazione di una storia cult da parte degli appassionati. I lettori affamati di altro materiale possono proseguire la storia, colmare le lacune, resuscitare i loro beniamini, creare sequel o prequel. Nel caso della fanfiction di “Twilight” di S. Meyer, ovvero il famigerato, inflazionato, “Fifty Shades of Gray” - dove Gray sta per Grigio ma anche per il cognome dell’algido, imbalsamato, stoccafissico protagonista - più che di una continuazione si tratta, a quanto pare, di una parodia che ha preso la mano alla scrittrice Erika James.
Nell’introduzione viene spiegato che ella “dreamed of writing stories that readers would fall in love with”. Bene, ci pare che sia proprio ciò che non ha fatto, mentre l’operazione era perfettamente riuscita alla Meyer. E tuttavia, quando un caso editoriale assume tale portata, quando ogni persona che incontri, a qualsiasi latitudine, in qualsiasi studio dentistico o vagone ferroviario, tiene in mano una copia del romanzo incriminato, quando ogni libreria, ogni vetrina, ogni stand di autogrill trabocca di copertine tutte nere con un anodino groppo di cravatta, quando gli alberghi americani hanno sostituito la vecchia Bibbia con le Cinquanta Sfumature, allora non si può liquidare il fenomeno senza nemmeno tentare di capirci qualcosa.

Facciamo un passo indietro, torniamo all’originale, alla saga di Twilight, rivisitazione moderna ma ancora fascinosa del mito della Bella e la Bestia, dove la protagonista, appunto Bella Swan, è una ragazza qualsiasi, una Cenerentola capace di conquistare il principe dei vampiri, Edward, bello fino all’impossibile (cui l’attore del film omonimo non rende giustizia) non incenerito dal sole ma scintillante sotto di esso come un cristallo rifratto, puro di cuore, “vegetariano”, romanticamente lacerato fra i suoi istinti e l’input morale che lo spinge a sublimare il desiderio. Bella lo attira perché il suo sangue ha per lui il più dolce dei richiami, è nettare e delizia, è fragranza e rimorso. Pur di amarla, pur di starle vicino, soffocherà l’istinto omicida, lo trasformerà in protezione, che è poi quello che ogni maschio fa con la sua donna, tenendo a bada l’impulso sessuale, avvolgendolo di tenerezza. Bella Swan è vera, con problemi familiari tangibili, emozioni adolescenziali comuni a molte ragazze della sua età e una naturale propensione alla solitudine, alla malinconia.

Guida ragionevole al frastuono più atroce

Guida ragionevole al frastuono più atroce
di Lester Bangs

Minimum Fax, 2005
pp. 450
€ 17,50
(Traduzione di Anna Mioni)


È necessario dir subito, a scanso di equivoci, che la vera letteratura può trovarsi dovunque. È spesso, non sempre, nei testi citati dai manuali di liceo, certo, ma è anche (soprattutto?) altrove. Estremizzando un po', può benissimo esser scovata nei ricettari di cucina o nei libri di ornitologia. Figurarsi se non può fare bella mostra di sé in scrupolosi servizi su dischi e gruppi rock.
Lester Bangs è unanimamente considerato uno dei massimi critici musicali, giudizio positivo ma limitante. Al momento, ed è un problema non da poco, del rock se ne scrive. Ovvero si cristallizza il flusso di note, di luci e distorsioni in una sequenza di parole che, per quanto sinuosa e musicale, è notevolmente distante dalla musica cui si riferisce. Tra “Heroin” e le definizioni che un critico può darne c'è un abisso non inferiore a quello che c'è tra un economista e un paracarro (no, d'accordo, c'è un abisso molto maggiore).
Dunque, chi scrive di musica deve saper scrivere. Bangs sa farlo benissimo, e se si accetta l'idea – per molti ostica e priva di senso, anche se in pochi sono disposti ad ammetterlo – che l'analisi di generi e gruppi non sia, o possa non essere, altra cosa rispetto alla letteratura, possiamo annoverarlo tra i migliori scrittori statunitensi. Greil Marcus, nell'introduzione alla Guida ragionevole al frastuono più atroce, antologia dei migliori scritti del critico e musicista, centra il punto con efficacia: «Forse questo libro chiede al lettore di essere disposto ad accettare il fatto che il miglior scrittore americano sapesse scrivere quasi esclusivamente recensioni di dischi».

Fare FLEP! Festival delle Letterature Popolari

Dal 12 al 16 settembre, presso il Parco Meda, sotto il Patrocinio del V Municipio di Roma, s’è fatto FLEP! Questo nascente Festival delle Letterature Popolari è stato ideato e organizzato dal collettivo di TerraNullius - Narrazioni Popolari, con la direzione artistica di Massimiliano e Pier Paolo Di Mino, Lorenzo Iervolino, Marco Lupo e Luca Moretti, allo scopo di sensibilizzare e intrattenere il pubblico, accorso invero assai numeroso, verso i vari aspetti della socialità, mirando a una trasmissione culturale che sappia anche rivelarsi adeguatamente radicata nel territorio. 

In cinque giornate, dunque, si sono alternate mostre d’arte, laboratori per bambini, interessanti e accesi dibattiti, non esclusivamente letterari, godibili esibizioni musicali e proiezioni audiovisive tra le più diverse, in modo da riuscire a coinvolgere una larghissima fetta di pubblico, assecondando quanto più possibile i gusti e le inclinazioni di ciascuno.

Si è passati così da un'accorta selezione di testi e musica per ricordare il centenario della nascita di Elsa Morante, al reading-concerto tratto dal romanzo Vogliamo tutto di Nanni Balestrini; nello spazio allestito all'interno del parco, poi, molte sono state le esposizioni, dalle opere grafiche di Toni Bruno ai pesci volanti di Veronica Leffe; nell’area antistante, infine, solo per citare alcuni titoli, sono stati presentati, ad esempio, gli ultimi romanzi di Carolina Cutolo e di Simone Ghelli. 

Il tutto, in un clima di grande rilassatezza e di estrema cordialità, reso ancor più gioviale e accogliente dalla possibilità di godere insieme anche di qualche buon bicchiere di vino, unito magari a della profumatissima carne alla brace, quasi a voler preservare un vivo e materico contatto con un certo tipo di convivialità, genuina e dialogante, che ormai, mestamente, sembra costituire una pratica sempre più in disuso.

L'intera manifestazione, peraltro, è stata trasmessa in diretta sulle frequenze di radioflep! e commentata in tempo reale su molti social network, estendendo intelligentemente la partecipazione all'impresa. letteraria e popolare, anche a chi non ha potuto garantire la propria presenza fisica.

Un gran numero di rappresentanti della piccola e media editoria, inoltre, ha aderito all’iniziativa (Zero91, Minimum fax, Caratteri Mobili e molte altre ancora) presenziando coi loro stand di libri, per tutta la durata del festival, e garantendo un flusso continuo di lettori appassionati o anche di giovani, giovanissimi curiosi.

Che altro dire? Speriamo presto in una seconda edizione del Flep!, e in tante altre iniziative di questo genere, che riescano ancora una volta a strappar via la cultura dal piedistallo e a farla ballare davvero, dentro e fuor di metafora.




Luca Negri – Giovanni Lindo Ferretti partigiano dell'Infinito

Giovanni Lindo Ferretti
Partigiano dell'Infinito da Togliatti a Benedetto XVI
di Luca Negri


Vallecchi, 2010



«Iniziava l’era atomica, i figli di Sion tornavano in Terra Santa e l’Italia di nuovo devastata e da ricostruire optava democratica per la fine della monarchia e per lo schieramento atlantico-capitalista piuttosto che per quello orientale […] a questo punto della storia mondiale, italiana, emiliana, cattolica e comunista [...] Giovanni Lindo Ferretti nasce secondogenito a Cerreto Alpi, piccolo borgo sui monti fra Reggio Emilia e La Spezia» – 
Luca Negri descrive così i primi giorni del “suo” Ferretti.
Siamo al primo capitolo del suo libro uscito per Vallecchi Editore nel 2010: Giovanni Lindo FerrettiPartigiano dell’Infinito da Togliatti a Benedetto XVI.
Come facendo un balzo avanti dalla migliore tradizione manganelliana del “romanzo parallelo”, Negri commenta, contestualizza, descrive, provoca, infiamma… non una sola opera, non solo la letteratura di Ferretti (attraverso citazioni tratte da canzoni, scritti o interviste), ma anche la vita vera del discusso artista emiliano, il suo impegno nel canto, nella scrittura e nel teatro. Così le citazioni s’innestano nella cronistoria, raccontandone un’altra e parallela, di storia. Le parole sono come le tappe sintetiche nel tracciato d’una mappa, di cui Negri con astuzia decifra le implicazioni, le previsioni, le intuizioni, i sensi, le vicinanze e le lontananze…
È un impegno trasversale, quello di Ferretti, che lo ha reso noto ai palcoscenici più svariati, attraverso gli orientamenti più contrastanti, con tutto il coraggio e la libertà di un vero outsider: dal punk degli anni ’80, ai giovani di sinistra smarriti dei ’90, fino ai cattolici ferventi e ai neo-conservatori dell’ultimo decennio.
La prosa densissima e appassionata di Negri non annoia mai, e ci accompagna attraverso tutta la crescita artistica, politica e religiosa di Ferretti.

La "geografia dell'esistenza" di Dino Buzzati: i Sessanta Racconti


Sessanta racconti
di Dino Buzzati
Mondadori, 1958
pp. 476

Editi nel 1958 nella collana “Narratori italiani” Mondadori, i Sessanta racconti di Dino Buzzati raccolgono testi in parte già pubblicati in precedenti raccolte (I sette messaggeri, Paura alla Scala, Il crollo della Baliverna), in parte allora inediti. Considerati la summa del pensiero dell’autore, ne condensano i temi principali che si dilatano espandendosi all’interno di una narrazione plurale e multiforme, così frammentaria per un verso, ma estremamente tesa alla completezza di senso dall’altro.
Vi si trova l’inconfondibile tratto del Buzzati delle opere più note (Un amore, Barnabò delle montagne, Il deserto dei Tartari, La famosa invasione degli orsi in Sicilia..), con una vena teorico-filosofica che qui, nella dimensione più breve del racconto, recupera terreno ed esprime se stessa senza riserva.

Non penso che Buzzati abbia voluto presentarsi come un filosofo né abbia concepito la propria scrittura come una disquisizione dai tratti dogmatici, ma ha condotto attraverso i racconti un discorso su quel segreto mistero che è l’esistenza e sulle sue manifestazioni ordinarie e non. E questo mistero lo ha rappresentato in un sistema completo, che prende forma attraverso l’incrocio delle trame dei racconti.

Alcune delle storie di Buzzati prendono corpo nella consuetudine della quotidianità ma poi ci svelano il lato surreale degli eventi più comuni. Gli uomini dei suoi testi sono intenti a condurre una vita banale, costellata di azioni e di scelte mediocri: basta una parola dell’autore, un aggettivo al posto giusto e la situazione cambia forma. Accade l’insospettabile. Così, per esempio, il protagonista di Il problema dei posteggi si ritrova a seguito di una rocambolesca serie di inconvenienti a fuggire esausto alla ricerca di un posto per la propria auto. E dalla caotica città arriva addirittura nel deserto, anelando alla libertà:
Saltello, una strana leggerezza è nelle membra, accenno passi di danza. Evviva! Mi volto indietro, l’utilitaria è in fondo, piccolissima, uno scarafagetto addormentato nel grembo nudo del deserto. Ma c’è un uomo laggiù! È un uomo alto, coi baffi, se non prendo abbaglio, ha un berretto di tipo militare. E mi fa cenno in segno di protesta, e urla, urla. Ah, no, basta. Io saltello, io corro, io galoppo sulle mie anziane gambe, scalpito, mi sento una piuma. Le grida del guardiano maledetto si perdono a poco a poco alle mie spalle.
Il libro è pieno di personaggi che viaggiano verso ignote mete lontane. A volte il viaggio è ricerca di se stessi, brama di completezza, lo si intraprende  nella speranza di ritornare, un giorno, a casa “interi”. Come il principe protagonista del racconto I sette messaggeri che abbandona la Reggia per spingersi fino agli estremi confini del regno paterno, accompagnato da sette fidati ambasciatori che periodicamente ritornano nella capitale per portare e ricevere notizie. Ma un’oscura presenza li insidia durante il viaggio: il Tempo che logora e stringe nella sua morsa. È l’allegoria dell’uomo che avanza verso qualcosa che crede di conoscere ma che in realtà gli è sconosciuto:

Mark Haddon, "Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte"


Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte
di Mark Haddon
Edizione originale Einaudi, 2003

pp 247 
16,00

Edizione di riferimento Gruppo editoriale l’Espresso, 2010



“Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte” di Mark Haddon è una di quelle narrazioni che risucchiano, che tengono incollato al libro sia il lettore incallito sia quello occasionale, in barba a chi arriccia il labbro e alza il sopracciglio di fronte ad un romanzo che si fa leggere tutto d’un fiato. Quello che cattura e colpisce allo stomaco è il punto di vista. A raccontare la storia è Christopher, ragazzo affetto dalla sindrome di Asperger, una forma di autismo savant. Christopher ha l’intelligenza di un computer, sa fare a mente calcoli complicatissimi ma è del tutto impreparato, ingenuo e indifeso, di fronte alla vita. Con questi suoi pochi mezzi, intelletto sviluppatissimo ed emotività fragilissima, dovrà risolvere un giallo, l’incomprensibile uccisione di Wellington, il cane della vicina. Si tufferà nell’investigazione con lo stesso spirito razionale e analitico del suo amato Sherlock Holmes ma l’indagine prenderà una piega imprevista, lo costringerà a scavare anche nella propria vita, nei rapporti fra suo padre e sua madre, a venire a patti con l’assenza della figura materna, ad affrontare rischi e a discendere negli inferi metropolitani per poi risalire alla luce delle stelle.
E quando l’universo avrà terminato di esplodere, tutte le stelle rallenteranno la loro corsa, alla fine si fermeranno e cominceranno di nuovo a cadere verso il centro dell’universo, come fa una palla gettata in aria. E allora non ci sarà più niente a impedirci di vedere tutte le stelle del mondo perché si avvicineranno, sempre più velocemente, e noi capiremo che il mondo presto sparirà, perché quando guarderemo il cielo di notte non ci sarà più il buio ma soltanto lo splendore di luce di milioni e milioni di stelle, tutte stelle cadenti.” (pag. 23)
Ciò che afferra e cattura non è, ripetiamo, la storia in sé, bensì la personalità affascinante e straordinaria di Christopher. Un Asperger è una monade senza finestre, chiuso in un mondo ego centrato, in un cerchio di cui è prigioniero e nel quale non fa entrare nessuno, tenendo a distanza ogni altra creatura umana. Si sente superiore a tutti, non riesce nemmeno a concepire che anche gli altri abbiano una “mente pensante”. Christopher sta solo sul cuore della terra, come direbbe Quasimodo, non ama la confusione, detesta essere toccato, dice sempre la verità, prende tutto alla lettera, nota ogni particolare al punto che la sua mente, sovraccarica di stimoli e dati da analizzare, va in tilt ed egli soffre travolto dall’ansia, dalla paura, da una solitudine cosmica.

«Riportando tutto a casa», di Nicola Lagioia


Riportando tutto a casa
di Nicola Lagioia
 
Einaudi, 2009
pp. 288



Ambientato negli anni ’80, la storia di tre amici: Giuseppe, Vincenzo e la voce narrante, la quale dopo circa 20 anni ricostruisce le vicende obbedendo a un impulso che la porta nella città natale, Bari, per rincontrare vecchie conoscenze.
E dunque assistiamo alla rievocazione di quel periodo che, tra i lustrini e le paillettes del Drive In e della televisione commerciale, viene oggi storicizzato come un decennio vuoto, inutile, che altro non fu che l’inizio della fine (intendendo con “fine” quella che molti vedono come un’odierna Apocalisse): insomma, in scala ridotta gli anni ’80 han fatto la fine del Medioevo.
Si potrebbe definire Riportando tutto a casa (Premio Viareggio-Rèpaci 2010) come un romanzo di formazione: il narratore, adolescente, racconta l’ingresso nella vita di un gruppo di ragazzi, con i primi amori, le feste e le trasgressioni, la vicinanza della malavita, e i problemi professionali e sentimentali di genitori improntati alla ricerca del successo e dell’apparenza. L’ambiente sociale in cui tutto accade è quello della borghesia benestante, rappresentata da liberi professionisti come avvocati di successo e imprenditori.
Nel romanzo ha un ruolo importante il problema della tossicodipendenza, in particolare dall’eroina, che ebbe il suo boom proprio allora: ci sono belle pagine, nella parte finale, che ne descrivono la potenza distruttiva che annichilì le vite di tanti giovani.
Le belle pagine della parte finale (circa un quarto), però, mi sento di dire che sono la parte migliore del romanzo: i restanti tre quarti soffrono di un’andatura zoppicante. Perché?

Pillole di Autore - Raffaello Baldini







Adès, tratta da Ciacri
Abbiamo avuto modo di appassionarci alla poesia dialettale di Raffaello Baldini (1924-2005) con la lettura della raccolta einaudiana delle tre raccolte La nàiva, Furistìr, Ciacri (2000, leggi qui la recensione), che tracciano il percorso poetico fino a Intercity (2003). Nell'ultima raccolta del poeta di Santarcangelo di Romagna, i temi grotteschi nei ritratti sociali, pregni di un'ironia mai leggera e priva di risvolti amari, sono adombrati dal senso incombente della morte, legato all'invecchiamento del poeta. Come in tanti poeti dei primi anni Duemila, il pensiero della morte è spesso reinterpretato metaforicamente come viaggio, da compiersi in un dialogo continuo con i cari defunti (si pensi, ad esempio, già a La spiaggia di Vittorio Sereni); sceglieremo, in tal senso, di leggere la poesia Adès.
Proprio come in Sereni, anche Baldini sceglie di posizionare in chiusura d'opera la poesia che meglio riassume questo incombere della fine, poesia che dà il titolo alla raccolta eponima: Intercity. Non un treno qualunque, ma il più rapido conosciuto nei primi anni del Duemila: dunque, una morte che giunge in fretta, inesorabile, e rapisce con il proprio bagaglio da portar giù, dopo i saluti estremi.

In tutta la produzione resta intoccata la leggerezza ritmica, piacevolissima, che fa del dialetto romagnolo non solo uno strumento linguistico ma una marca forte della personalità dell'autore, una scelta consapevole continuamente riaffermata negli anni, per quanto nelle ultime raccolte si intensifichi la commistione con l'italiano, in rispondenza con l'intreccio costante con la modernità e la tecnologia nella vita quotidiana.

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Edizioni di riferimento:
     Raffaello Baldini, La nàiva, Furistìr, Ciacri, Einaudi, Torino 2000
     Raffaello Baldini, Intercity, Einaudi, Torino 2003


Da Furistìr:

Bèla

La tòurna d'ogni tènt, par la su mà,
la sta poch, du tri dè, la n scapa mai,
mè pu a so sémpra fura.
A la ò incòuntra par chès, tla farmacéa,
"Mo quan'èll ch'a n s'avdémm?",
la m'è pèrsa piò znina,
"T'è i cavéll chéurt", ch'la i éva longh, sal spali,
la à céus i occ: "Ta t'arcord di me cavéll?"

Vinicio u i éva fat una pasiòun.
E li gnént. Sa chi occ véird e e' maiòun zal.
U i era ènca andè dri Lele Guarnieri,
e la dmènga l'avnéva da Ceséina
a balè un biònd s'una Giulietta sprint.
Mè, la era tròpa bèla, a n m'arisghéva.

Dop a la ò cumpagnèda fina chèsa,
la à vért, ò détt: "Cs'èll ch'avrébb paghè 'lòura
par no purtè i ucèl!",
la à ridéu: "A s'avdémm fr'agli èlt vint'an",
pu da e' purtòun custèd, préima da céud,
la m'à guèrs: "Ta m piesévi",
senza réid, "Quanti nòti a t'ò insugné!".

Traduzione:
Torna ogni tanto, per sua madre, | sta poco, due tre giorni, non esce mai, | io poi sono sempre fuori. L'ho incontrata per caso, in farmacia, | "Ma quant'è che non ci vediamo?", | mi è sembrata più piccola, | "Hai i capelli corti", che li aveva lunghi, sulle spalle, | ha chiuso gli occhi: "Ti ricordi dei miei capelli?" || Vinicio ci aveva fatto una passione. | E lei niente. Con quegli occhi verdi e il maglione giallo. | Le aveva fatto la corte anche Lele Guarnieri, | e la domenica veniva da Cesena | a ballare un biondo con una Giulietta spint. | Io, era troppo bella, non m'arrischiavo. || Dopo l'ho accompagnata fino a casa, | ha aperto, ho detto: "Cosa avrei pagato allora | per non portare gli occhiali!", | ha riso: "Ci vediamo fra altri vent'anni", | poi dal portone accostato, prima di chiudere, | m'ha guardato: "Mi piacevi" | senza ridere, "quante notti t'ho sognato!".


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Da Ciacri
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Da Intercity:

Intercity

Guglielmo, t si di nóst? che mè, sgònd mè,
i chin fè un bis, amo, dò ch'i la mètt 
tótt' sta zénta? no, e' bigliètt a l'ò fat,
a l'ò fat ir, a stagh d'aspitè Gino,
cumè, sl'Esprès, du vét sl'Eprès? l'Esprès
è il vecchio acelerato,
i i à sno cambiè nóm, ta n'aréiv mai,
e' férma dimpartótt, 
néun andémm sl'Intercity,
zért, e' gòsta un pò 'd piò, u i è e' suplemént,
chi t l'à détt sno la préima? u i e' 'nch' la sgònda,
ò e' bigliètt, ta l vu vdài? [...]

Traduzione:
Guglielmo, sei dei nostri? che io, secondo me, | devono fare un bis, e beh, dove la mettono | tutta 'sta gente? no, il biglietto l'ho fatto, | l'ho fatto ieri, aspetto Gino, | come, con l'Espresso, dove vai con l'Espresso? l'Espresso | è il vecchio accelerato, | gli hanno solo cambiato nome, non arrivi mai, | ferma dappertutto, | noi andiamo con l'Intercity, | certo, costa un po' di più, c'è il supplemento, | chi te l'ha detto solo la prima? c'è anche la seconda, | ho il biglietto, lo vuoi vedere? [...]

òrca, l'è l'éultum, l'è l'ultum vagçun,
a so rivat i nchèva, e u n gn'è niséun,
quèsta la è bèla,
controlore! u n gn'è gnénca e' controlòur?
pu sti lómm bló, mèi zènd, no, no, l'è pézz,
tótt svéit, e' fa impresiòun,
però e' vagòun pustèl, emènch alè
u i sarà qualcadéun, dài, marcia indietro,

carozza 6, quèll l'è e' mi pòst, avènti,
svéit ènca quèst, svéit, svéit, e aqué u n s va invéll,
l'è céus, mo e' controlòur,
a so pas tótt e' treno, u n gn'è, ch'i è déu,
i à da ès déu, u i è ènca e' capotreno,
e quèll ch'e' vènd al bébiti?
e e' vagòun ristorènt? che sl'Intercity
ch'ò fat tènt ad chi viàz in treno, mo
'na roba acsè, mè, l'è la préima vólta,
cs'èll ch'e' sarà suzèst? 'na sgrèzia no,
a sémm partì in urèri, ò guèrs l'arlózz,
e' treno e' va, enca tròp, 
che s'e' farméss, d'arvì un spurtèl, dmandè,
mo quèst, t'é voia, 
che quant a so mòunt sò, dis minéut fa,
véint minut fa, quant'èll?
[...]
dò ch'i è 'ndè tótt?
i è méunt e pu i è sméunt?
i à sbaiè treno? tótt? o i à sbaiè
ma la staziòun? mo cmè ch'u s fa a sbaiè?
l'è un Intercity, quèst, u n'è un Esprès, 
ch' l'era pin 'd zénta sa che marciapì,
a sérmi una fiumèna, e' chèpstaziòun
a Rémin, a n'e' so, u n s'è incórt ad gnént?
e gnénca i machinésta?
mo al ferovéi, a déggh, al ferovéi,
ò capéi, la disorganizaziòun,
porca putèna, mo cma pòl suzéd?
quèst l'è una roba che,
i è dvént tótt mat? un treno sno par mè?

Traduzione:
orca, è l'ultimo, è l'ultimo vagone, | sono arrivato in fondo, e non c'è nessuno, | questa è bella, | controllore! non c'è neanche il controllore? | poi queste luci blu, meglio accendere, no, no, è peggio, | tutto vuoto, fa impressione, | però il vagone postale, almeno lì | ci sarà qualcuno, dài, marcia indietro, || carrozza 6, quello è il mio posto, avanti, | vuoto anche questo, vuoto, vuoto, e qui non si va da nessuna parte, | è chiuso, ma il controllore, | ho passato tutto il treno, non c'è, che sono due, | devono essere due, c'è anche il capotreno, | e quello che vende le bibite? | e il vagone ristorante? che sull'Intercity | ci dev'essere, e come, ma ve' che roba, | che ho fatto tanti di quei viaggi in treno, ma | una roba così, io, è la prima volta, | cosa sarà successo? una disgrazia no, | siamo partiti in orario, ho guardato l'orologio, | il treno va, anche troppo, | che se fermasse, da aprire uno sportello, domandare, | ma questo, hai voglia, | che quando sono salito, dieci minuti fa, | venti minuti fa, quant'è? | e da sotto Martino | mi ha allungato la valigia e la bisaccia, | ho fatto fatica ad aprirmi il passo, la gente, | tutti ammucchiati, o me lo sono sognato? | neanche mezz'ora fa, dove sono andati tutti? | sono saliti e poi sono scesi? | hanno sbagliato treno? tutti? o hanno sbagliato | alla stazione? ma come si fa a sbagliare? | è un Intercity, questo, non è un Espresso, | che era pieno di gente su quel marciapiede, | eravamo una fiumana, il capostazione | a Rimini, non so, non s'è accorto di niente? | e neanche i macchinisti? | ma le ferrovie, dico, le ferrovie, | ho capito, la disorganizzazione, | porca puttana, ma come può succedere, | questa è una roba che, | sono diventati tutti matti? un treno solo per me?


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Nota introduttiva e selezione testi a cura di Gloria M. Ghioni

CriticaLibera: In Italia, Montaigne evita le diapositive






Il n. 521 (luglio-agosto 2012) del Magazine Littéraire, oltre a un mini-dossier sul ruolo e l’importanza dell’utopia nella cultura e nella letteratura contemporanee, incentra il suo abituale dossier sulla letteratura di viaggio (Eloge du voyage), dal quale abbiamo selezionato e tradotto per voi due articoli: il primo, che abbiamo pubblicato la settimana scorsa, è un pezzo di Christine Jordis dedicato a Bruce Chatwin; il secondo, che pubblichiamo oggi, è firmato dal direttore del Magazine, Joseph Macé-Scaron, e propone una lettura del Viaggio in Italia di Montaigne.





In Italia, Montaigne evita le diapositive 

di Joseph Macé-Scaron
traduzione di Paolo Mantioni



Nel 1770, l’Abate di Prunis, in visita nei possedimenti di Montaigne, scopre in un vecchio baule con le serrature divelte il racconto di un viaggio in Italia, termine ultimo che ha condotto l’autore dei Saggi attraverso l’est della Francia, la Germania, poi la Svizzera.
Il manoscritto che il prelato riesce a mettere insieme è privo dei primi fogli. È redatto in gran parte in francese, per il resto in italiano. Dopo diverse peripezie (certi passaggi che mostravano un Montaigne molto diverso dalla sua immagine ufficiale dovevano essere soppressi o no?) il manoscritto è pubblicato… quattro anni dopo, prima di sparire e poi riapparire come per incanto. La vita delle grandi opere è talvolta altrettanto romanzesca di quella dei loro autori. Infatti, non appena ci si avvicina a questo manoscritto il mistero si infittisce. La prima parte è stata scritta dal segretario di Montaigne, che quest’ultimo congederà a Roma. Perché? Solo lo scrittore Gérard Oberlé [noto bibliofilo francese, N.d.T.] potrebbe rispondere. La seconda è scritta da Montaigne e concepita come la prova della vita ai Saggi: avvicinarlo dal suo diario di viaggio, è un antipasti [sic, in italiano nel testo, N.d.T.], significa avvicinarlo dall’intimità. Lascia il suo seggio d’umanista per «abbassarsi a vivere».

Nel giugno 1580, a 47 anni compiuti, Michel de Montaigne, che viene considerato ancor oggi un sedentario solitario, lascia il suo castello in Guascogna per un periplo a cavallo di quasi un anno e mezzo in Europa. Attorno a lui, ha messo insieme una piccola compagnia di parenti, amici e servi. Il motivo del periplo è la ricerca di acque in grado di alleviarlo dalla renella. Sedotto dall’ignoto, dal cambiamento incessante di luoghi e uomini, l’autore dei Saggi, che sono appena stati pubblicati nella prima edizione in due libri, sfinisce i compagni di viaggio e attraversa Mulhouse, Basilea, Costanza, Augusta, Monaco di Baviera, Innsbruck. Dopo un’escursione sul lago di Garda, entra in Italia. Direzione Verona.
All’epoca, uno scrittore italiano, Luigi da Porto, ha appena pubblicato un racconto sull’odio tra due famiglie locali, i Montecchi e i Capuleti, e il destino tragico di Giulietta. In letteratura, gli scrittori si parlano scavalcando tempi e spazi. Shakespeare immortalerà il testo di Luigi da Porto e attingerà a piene mani dal terzo libro dei Saggi.
Dopo Verona, una fermata a Padova [Padoue in francese, N.d.T.]. “Badoue” scriverà più tardi André Suarès per sottolineare la pesantezza di questa città. Vi soggiornano più di cento gentiluomini francesi. Montaigne rifiuta questa “malagrazia” di raggrupparsi per nazioni: «Io mi sono sempre precipitato al tavolo più ingombro di stranieri» (III, ix). Non esita a percorrere venticinque miglia tutte d’un fiato per arrivare a Venezia. Dopo Lepanto, la città è al culmine della gloria, ma l’autore dei Saggi vede già nella Repubblica acquatica un grande corpo in decomposizione. Sara l’«odore delle acque stagnanti»? Si prosegue per Ferrara, in quest’Italia dove ogni città è un regno a parte, un coriandolo di sovranità. Ogni regno ha titoli per essere ricordato dagli uomini. Dopo Ferrara, Bologna, Loiano, Scarperia, Firenze, Siena, Roma…I meandri del suo percorso sono l’immagine di un’estetica della fluidità. Montaigne è un viaggiatore ondivago: «So bene quello che fuggo, ma non quello che cerco» (III, ix). Certi commentatori hanno poi rilevato la disinvoltura del visitatore rispetto alle opere d’arte, il suo scarso interesse apparente per i grandi artisti del Rinascimento italiano. Chateaubriand si è risentito di questa assenza. Come? Niente Leonardo da Vinci, niente Giotto? E Stendhal, pieno di sé, gonfio d’estetismo, scrive in Passeggiate romane il 28 novembre 1828: 
«Mi daranno del cattivo [corsivo nel testo, N.d.T.]. Che importa? (…) quando Montaigne passò a Firenze, erano passati solo diciassette anni dalla morte di Michelangelo. Gli affreschi divini di Andrea del Sarto, di Raffaello, di Correggio erano ancora umidi. Ebbene! Montaigne, quest’uomo pieno di spirito, così curioso, così libero da impegni, non ne ha detto una parola».
Si potrebbe rispondere che questa “mancanza” si spiega con la reticenza dell’autore dei Saggi riguardo a tutto ciò che tradisce lo studio. Se si è sapienti, più di ogni altra cosa non bisogna dimostrare di esserlo. La finezza di spirito si riconosce nello sfumato [in italiano nel testo, N.d.T.] di Leonardo, quella maniera di cancellare i contorni troppo evidenti del sapere. Ciononostante, Montaigne non sfugge alla pedanteria degli umanisti quando si tratta di rilevare la giustezza di una citazione latina o greca. Allora perché questa reticenza a citare un’opera d’arte? Con finezza, François Rigolot (in Les Métamorphoses de Montaigne, Puf, 1988) ci suggerisce l’influenza del neoplatonismo. Un residuo della severità aristocratica rispetto alle rappresentazioni artistiche destinate ad adulare i sensi e non a cercare la verità.

E a noi, non capita anche a noi d’avere la nausea davanti a questo profluvio artistico? Già André Suarès, da buon condottiero [corsivo nel testo, N.d.T.], soffocava uno sbadiglio davanti a queste matrone che aprivano verso il cielo occhi enormi per non vedere nulla, attorniate da una congerie di santi, questa profusione di putti con le dita tese a mostrare il vuoto. Davanti a questo Nettuno, quest’Ercole, questo Giove antichi dei quali si indovina la carne bianca e molle come il ventre dei pesci morti, a dispetto dei doppi pettorali e della doppia banda dei muscoli delle braccia. Era veramente necessario guardare e poi citare tutte queste opere? Non sarebbe confondere Montaigne con Dominique Fernandez [scrittore francese contemporaneo, N.d.T.]? Siamo tenuti a nominare tutte queste opere con il rischio di “fare” l’Italia o di “fare” i musei, con il rischio di essere i turisti in serie? Chi di noi non è stato asfissiato dalla noia davanti alle sale I, II, III, IV…dove s’affollano maestri minori? Chi di noi non ha pensato almeno una volta a Degas, che proponeva di scoraggiare le arti e che pestava contro questa folla d’artisti che, nelle epoche “giuste”, fanno press’a poco tutti la stessa opera abile e sapiente? Talvolta ci prendono tentazioni iconoclaste.

Come ha detto Suarès, Matteo Civitali, Garofalo, Benedetto da Maiano, se fossero solo vissuti non mancherebbe nulla all’arte. Eppure, i musei dei più piccoli borghi del Lazio rigurgitano delle loro opere. Ma c’è un’altra ragione per questo silenzio pesante. In ogni caso, rotto, a volte, ad esempio quando Montaigne si sofferma sul Mosè di Michelangelo, o ammira, a Firenze, le celebri tombe dei Medici. E questa ragione è la stessa che scava l’assenza del Partenone, comunque l’orgoglio del secolo di Pericle, nei Dialoghi di Platone, proprio quando Socrate e i suoi discepoli passano più volte al giorno davanti al monumento. È che Montaigne e il suo caro Socrate hanno incontrato durante il cammino qualcosa di più bello di una cattedrale o di un tempio, di più profondo di un dipinto o di una statua: l’uomo. Ed è forte di questa certezza che l’autore dei Saggi rientra in Francia, infinitamente più “emancipato” dei suoi confratelli umanisti, e noi, lettori, con lui. Può ormai dire a se stesso: «L’Italia non è affatto in Italia. È ovunque sono io».

Il Salotto: Incontro con Pino Imperatore




Questo è il suo romanzo d'esordio. Le va di presentarlo ai nostri lettori e spiegare come le è venuta la voglia e il desiderio di scrivere un romanzo?

L'idea ce l'avevo da anni: raccontare la camorra in modo differente da quanto fatto finora. Negli ultimi anni, infatti, è stata raccontata in due diversi modi: il modo "Saviano", che ha mostrato all'opinione pubblica fatti e aspetti della criminalità che conoscevamo poco ed ha acceso i riflettori su un fenomeno estremamente diffuso e pericoloso, e favorendo anche importanti operazioni della Magistratura e delle Forze dell'Ordine.
L'altro modo è stato quello con cui film e serie televisive, sia italiani che stranieri, hanno messo in luce, secondo me in modo sbagliato, varie figure di malavitosi che sono quasi diventati "eroi positivi". A dimostrazione di ciò vi è il fatto che a Napoli, ma non solo a Napoli, a seguito degli arresti di alcuni boss, alcuni ragazzini hanno messo sui desktop dei loro computer e sui display dei loro telefonini le immagini di questi delinquenti.
Io, invece, ho voluto far che capire che i camorristi sono personaggi ridicoli, da quattro soldi, che campano con la paura addosso di venire ammazzati o arrestati. Del resto, è un dato che questi personaggi vivono la metà degli anni di una persona normale. E questo dovrebbe far riflettere, come dico ai ragazzi ogni volta che vengo invitato a presentare il mio libro nelle scuole o in associazioni culturali.

Nel suo romanzo abbiamo riscontrato dei riferimenti a Eduardo e a Pirandello. Lo condivide? Quanto questi autori hanno influenzato la sua carriera?

Chi scrive testi comici o umoristici non può prescindere dai grandi autori del passato: Wodehouse, Jerome e Twain, ad esempio. Nel mio caso, ho tenuto anche conto della straordinaria tradizione partenopea: Totò, Eduardo, Troisi, Viviani, Petito, Scarpetta. La tradizione letteraria è importante.  È da lì che bisogna partire. Ma bisogna innestare nella tradizione la modernità. Anche per questo definisco il mio stile Realismo Comico.

Lei descrive la camorra in maniera ironica e quasi surreale. Ritiene che questo modo di descriverla sia più efficace dei testi dove, al contrario, la si definisce quasi invincibile? Si definirebbe un "antisaviano"?

No, un antisaviano assolutamente no. Apprezzo tantissimo Saviano per il suo lavoro. Io ho semplicemente scelto una strada alternativa. Quella della letteratura comica che fa ridere, ma anche pensare. Nel mio romanzo "Benvenuti in casa Esposito" non vengono citati nomi reali, ma descritti modi di vivere. I tanti lettori che hanno apprezzato il mio libro, soprattutto quelli che vivono a Napoli, hanno riconosciuto umori, comportamenti, contesti sociali. Ne sono molto contento, perché era esattamente il mio obiettivo: descrivere cioè la camorra dall'interno, e capire se proprio nei suoi spazi più oscuri vi sia qualche possibilità di redenzione. Del resto, non è un caso che uno dei personaggio più emblematici del romanzo sia proprio Tina, la figlia di Tonino, che svilupperò nel sequel del romanzo.