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Sofi Oksanen, "Le vacche di Stalin"

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Le vacche di Stalin
di Sofi Oksanen 
Guanda, Parma, 2012 [Ed. orig. 2003]
pp. 484, 
€ 19,50, e-book, 13,99.



Recensendo La purga di Sofi Oksanen scrivevo “raramente si chiude un romanzo di 400 pagine già pensando a quanto sarà bello il prossimo” (leggi la recensione). In mancanza del prossimo, sul quale non ci sono ancora notizie, ho optato, come l’editore italiano, per il precedente, Le vacche di Stalin, romanzo d’esordio della giovane scrittrice, nata nel 1977, pubblicato nel 2003, cinque anni prima e anch’esso ben accolto dalla critica e dai lettori. Finlandese d’origine estone, Sofi Oksanen sfoggia, nelle poche immagini che la ritraggono, un look da rock-star, quant’altri mai lontano dall’immagine della compunta intellettuale. La giovane età; l’essere nata e aver vissuto l’infanzia e l’adolescenza a cavallo tra due culture e due modi di organizzare la vita materiale, quella capitalistica e quella del socialismo reale; l’espressionismo punk, ribelle, estremo, fino all’autoflagellazione simbolica e reale, sono elementi biografici che fanno da sfondo tematico e stilistico ai romanzi.



Le vacche di Stalin narra, in forma frammentaria e cronologicamente disarticolata, la storia di una giovane donna finlandese d’origine estone affetta da gravi disturbi alimentari, malattia che la voce narrante chiama bulimaressia. All’intreccio principale, costituito da episodi che vanno dall’infanzia all’adolescenza alla recente maturità, episodi per lo più dolorosi, cruenti, capaci di convincere la giovane che “non ci si può fidare di nessuno”, che le sue origini estere in terra finlandese e capitalistica la relegheranno per sempre nell’anfratto dell’estraneità, dell’esilio, della mancata inclusione nel mondo, a quest’intreccio, dicevo, se ne accompagna un altro, quello della conquista e dell’annessione dell’Estonia da parte dell’Unione Sovietica all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. Le due sezioni del romanzo, tipograficamente separate, procedono su due binari separati sul piano dell’ambientazione, del tempo narrativo e del tono, quasi a voler segnare una frontiera, un confine, una frattura che è all’origine della sofferenza della protagonista. La quale dunque rivive su di sé, sul suo corpo e sulla sua anima, i mali che la Storia infligge agli individui e ai popoli.

Già da questa sintetica presentazione si può vedere quanto sul piano tematico, dell’intreccio e dell’ambientazione i due romanzi abbiano in comune. Così come anche sul piano espressivo (stile e composizione) il romanzo d’esordio anticipa e annuncia scelte che nel romanzo successivo, La purga, saranno estremizzate e portate a un livello di assoluto valore. Ne riassumo i tratti salienti, ribadendo che in Le vacche di Stalin sono diluiti in un contesto più tradizionale, più immediatamente comprensibile: la correlazione tra tempi narrativi distanti, distanziati anche sul piano dell’espressione; la mobilità ed estrema sensibilità del punto di vista, che testimonia la volontà e la capacità di non mettere la scrittura e il suo titolare fuori dalla materia narrata, di non offrirla come un pacchetto già pronto e deglutito; l’ampio spettro emotivo sul quale la scrittura di volta in volta plasma la sua configurazione, spettro che va dalla statuaria denotazione informativa (“Stalin è morto”) allo scivolamento progressivo nella mimesis patetica (dopo aver descritto le molestie subite dai compagni della scuola elementare dall’esterno in qualità di voce narrate, pian piano si arriva a “andate via! Non potete! Vi tiro questo sasso, se non ve ne andate! Ve lo tiro davvero! Basta! No! Non potete…non potete!”). Sarà il caso di aggiungere che anche in questo romanzo Sofi Oksanen mostra una stupefacente conoscenza della vita materiale, pratica e quotidiana dell’Estonia comunista e che riesce a ricostruirla in dettagli che solo un ascolto e una contemplazione attenti ed empatici possono aver permesso. E che anche la descrizione degli stati compulsivi, dei ragionamenti e dei comportamenti lucidi e aberranti che nascono dalla bulimaressia sono plausibili e coinvolgenti.

La scrittura, decisamente originale, di Sofi Oksanen non ha un andamento lineare, argomentativo, non è una “bella scrittura”, non entra nei temi enormi che tratta con il bisturi del chirurgo; è, al contrario, una scrittura nervosa, frammentaria, emotiva, incide la realtà con il seghetto del falegname e non nasconde le slabbrature, le schegge, i residui irrisolti che gli inevitabili conti tra Storia e destino individuale lasciano. È una scrittura “igienicamente e consapevolmente faziosa” scrivevo nella summenzionata recensione a La purga, che fa sentire tutto il comodo, il banale, il superficiale di certe tesi universalistiche secondo le quali non ci sarebbe una “scrittura femminile, ma solo donne che scrivono” (come dire che non c’è una letteratura inglese o cinese ma solo inglesi o cinesi che scrivono…). È una scrittura che non fa sconti né agli uomini né alle donne, è una scrittura che non sorride e non ammicca. Con tutto il peso del suo corpo di donna (bulimico e anoressico, al contempo, “bulimaressico”), Sofi Oksanen fa sentire la differenza, la parzialità, la necessità di una visione del mondo non pacificata, non astratta, non cartesianamente mentale.


Paolo Mantioni