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Una nuova voce dal Perú: "Radio città perduta" di Daniel Alarcón

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Radio città perduta
di Daniel Alarcón
traduzione di Stefano Valenti
Einaudi 2011, pp. 313
"La città dovrebbe essere il luogo perfetto per l'anonimato, un luogo in cui scomparire, così indistinto da dimenticare al posto tuo". (145)
Radio città perduta di Daniel Alarcón, scrittore peruviano residente negli Stati Uniti, si potrebbe riassumere con questa frase. La città che fa da sfondo a questo suo primo romanzo è anonima, come il Paese di cui è capitale. Nel suo cuore però pulsa una radio che trasmette il programma Radio città perduta, condotto da Norma, vedova di un ribelle della LI morto nella giungla alla fine di una sanguinosa, quanto silenziosa, guerra durata 10 anni e finita da altrettanti. Nel suo programma Norma legge liste di nomi di persone scomparse che arrivano alla redazione dai villaggi della giungla: la speranza è che lo scomparso stia ascoltando la radio e si metta in contatto con Norma per ricongiungersi ai suoi cari.
Il romanzo si apre con l'arrivo in radio di Victor, un ragazzino proveniente dal villaggio 1797 -ogni luogo è contraddistinto da un numero, i nomi sono stati banditi- con una lunga lista di nomi di persone scomparse. È accompagnato da Manau, il suo maestro e l'amante di sua madre, morta da poco tempo. Per Norma l'incontro con Victor significa fare i conti con l'assenza del marito, Rey, botanico che aveva stabilito proprio nel villaggio 1797 la sua base per le ricerche sul campo. Norma tiene viva la speranza che suo marito sia ancora vivo, speranza che si ravviva quando vede sulla lista il suo nome "incognito". Da questo momento la narrazione intreccia il passato di Norma, quello di Rey e quello di Victor con il presente; la vicenda vera e propria dura in realtà pochissimi giorni, durante i quali la protagonista scopre che il ragazzino della giungla è il figlio di Rey che, prima di essere ammazzato dall'esercito, aveva avuto una relazione con la madre.
La tensione narrativa oscilla tra una città soffocante quanto anonima e una giungla dove alle asperità fa da contrappasso l'umanità dei suoi abitanti. La città e la giungla arrivano ad assomigliarsi:
"La città era un mistero, enorme e impenetrabilmente densa" (87)
Le stesse parole possono essere utilizzate per descrivere la giungla; Alarcón ci ripropone l'opposizione tra civiltà (città) e barbarie (giungla) continuando, in certo senso, il lavoro del suo conterraneo Mario Vargas Llosa e, soprattutto, di José María Arguedas, l'altro grande peruviano del XX secolo.
Gli spazi, ma soprattutto il tempo, che sospende la narrazione in un non-tempo. Più che l'anonimato della città, dei suoi abitanti, è l'impalpabilità del tempo a dare al lettore l'inquietudine necessaria a tenerlo incollato alle sue pagine. L'uomo ha colonizzato la Luna che è diventata una prigione dove fare le peggiori cose. Una Guantánamo del futuro dove Rey finisce da giovanissimo e da dove riuscirà a tornare. Allo stesso tempo, però, niente televisioni e soprattutto niente internet. La radio è il vero mezzo di comunicazione, quello che dà fastidio al Governo, quello da cui il potere autoritario deve difendersi. Un futuro-passato, quindi. Un'epoca indefinibile a metà strada tra il "domani" e l' "oggi".
Radio città perduta è il primo romanzo di Daniel Alarcón e ciò sorprende ancora di più il lettore che si trova tra le mani un romanzo di grande spessore. Sullo sfondo, e ora lo sveliamo, probabilmente c'è la guerriglia che insanguinò il Perú negli anni '80, tra lo Stato e il gruppo rivoluzionario maoista di Sendero luminoso. Ma Alarcón riesce a non cadere in una banale allegoria, la metafora rimane sullo sfondo e tra le righe sono tangibili tutti gli orrori che l'incapacità dell'uomo di convivere pacificamente può causare.