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Marco Bini: Conoscenza del vento

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Conoscenza del vento
di Marco Bini

Giuliano Ladolfi Editore, 2011




«Nell’inverno lo stile è tutto». Si apre con la citazione di un celebre verso di Roberto Roversi, la raccolta poetica di un giovane esordiente, Marco Bini, classe 1984, laureato in letteratura presso l’università di Bologna e già molto attivo nell’ambiente emiliano e lombardo, con varie pubblicazioni in antologie e riviste culturali specializzate.
La prima sensazione che si riceve, leggendo i suoi versi, è senza alcun dubbio la sorpresa.
Sorpresa di trovarsi davanti al lavorio, serio e intelligente, di una scrittura che potremmo definire già quasi ‘classica’. Con questo, non intendo una particolarmente smaccata tendenza al lirismo formale, o una ridondanza obsoleta di contenuti già noti e lungamente metabolizzati dalla società culturale passata e presente. Al contrario, infatti, il linguaggio utilizzato da Bini risulta anche sperimentalmente piano, vivacemente concettuale e non certo privo di ironia; gli stilemi dei suoi componimenti sono soliti variare metricamente, con una piacevole alternanza semantica che a tratti osa slabbrare le immagini proposte, diluendone così l’attesa prospettica,  altre volte, invece, le ricomprime strettamente, conferendo spessore e solidità alla riflessione etica ed estetica che sta alla base del suo stesso fare poesia.
In cosa risulta classica, dunque, la scrittura fervida di Marco Bini?
Leggiamo intanto un estratto dalla prima parte del libro, Stanze del fiume e dell’atlante:
Stavo nel mezzo, tra invenzione ed ansia
di nominare, inseguendo corsivi
e stampatelli lungo continenti,
chino per imparare a menadito
vocali e consonanti, nomi e strane
corrispondenze; poi cambio di pagina
e rotta verso casa. Lì, al suo posto
una certezza, sempre: inamovibile.
Il ritmo è pacificante e pregno di senso: l’autore spiega al lettore, come in primis a se stesso, quale sia il suo modus operandi, applicabile nel vivere quotidiano e, in special modo, nella concezione (im)materiale della propria produzione artistica. E lo fa, avvalendosi di un primo, grande quadro metaforico: l’atlante geografico, un supporto tecnico innovativo per gli anni della sua infanzia, che si presume donatogli dal padre, tradizionale figura di riferimento, sia sul piano affettivo che, come in questo caso, gnoseologico e di apprendimento .
Sfogliando le pagine di quest’atlante, Bini si immagina astronauta, e comincia a nutrire una spiccata curiosità per i più variegati aspetti del mondo. L’autore, dunque, sotto l’egida di un maestro - che sono poi molti maestri, e che è, quindi, la tradizione tutta! - si sente libero di acquisire la strumentazione necessaria, atta a sperimentare la propria, personalissima, posizione su questa terra, sia dal punto di vista umano che perciò da quello più strettamente letterario.
La forza del carattere sperimentale della scrittura di Marco Bini, quindi, è proprio il senso di inamovibilità delle proprie radici, storiche e sociali, che gli consentiranno, alfine, di spaziare profondamente fra i diversi ambiti della conoscenza intellettiva e pragmatica, non cedendo però il passo a quella sorta di torpore paralizzante, che troppo spesso attanaglia in special modo i giovani, soprattutto, poi, durante questo infausto periodo di profonda stasi economica e di incertezza politologica conclamata.
Se i suoi colleghi contemporanei, dunque, sentono di aver perso qualunque riferimento, e gridano allo sbando più netto e dissonante, sia nelle abitudini di vita che, soprattutto, nella debordante moda delle scritture ‘della disperazione’, Marco Bini riconosce attentamente quei canoni e quegli insegnamenti, non dogmatici ma ragionativi, che ha ben presto saputo metabolizzare, evidentemente, grazie alla lettura e alla scoperta di sé dell’altro da sé. Egli può quindi cimentarsi in uno stile verbale di chiara marca novecentesca, rivisitando i suoi versi con sincera e studiata armonia, avvalendosi di un’acuta chiave linguistica ‘senza strilli’, senza spericolatezze, e solo apparentemente leggera, dacché volatile, appunto, come quel vento che l’autore stesso, già dal titolo, ci pone all’attenzione quale oggetto della sua indagine artistica.
Questo, proseguendo, è il suo modo di intendere e trasporre, oggi, il  Costo del lavoro:
Decelerazione, arresto, dondolio delle masse.
Un passo fuori e l’aria è un traffico di elettroni da non credere
all’esistenza degli interi ma allo scontro tra gli inerti
buttati a manciate nel vento di ronda sui viali.
Solo lo slalom dei fari colonizza la troposfera
e ogni cosa impazzisce per raggiungere il suo zenit.
Non si scherza con il sole: di questi tempi è il più costante
tra i custodi; fa un giro vasto attorno al globo
a controllo e protezione del prossimo suo pasto.
Le ultime due sezioni del libro, Il costo della vita e Chiusura degli indici, ripercorrono alcune tappe evolutive fondamentai, sia per la storia personale di Bini, che soprattutto per la nostra società odierna (basti pensare ai due componimenti sul 10 e sul 12 settembre: anche qui, un plauso notevole al modo innovativo di inquadrare un problema importante, perimetrandone con calviniana levità le sfaccettature laterali del quotidiano), e ricollocano il cerchio dell’analisi comportamentale e culturale intrapresa dall’autore, con un moto di ragionata speranza nel futuro.
Vorrei però concludere con un testo-quesito, largamente esemplificativo del carattere già ben elevato della poesia di Marco Bini, presente proprio nella sezione centrale dell’opera, appunto Conoscenza del vento.
Se il vento è, palesemente, il caos odierno, con tagliente ironia e, ancora una volta, sorprendente lucidità, l’autore riflette, e noi con lui:
Quand’è che abbiamo smesso di cercare
da dove viene questo odore di rottami?
Ne è già passata di acqua sotto i ponti
senza sosta da quando dentro il punto
di domanda ci accucciammo, in attesa
di qualcosa in procinto di accadere.