RileggiamoConVoi - editoriale e prima puntata

Con l'inizio del nuovo anno, in Redazione abbiamo avuto un po' di nostalgia per i primi pezzi, per quelle recensioni, inviti alla lettura, eventi che ci avevano tanto colpito e che sono stati poi seppelliti sotto il nostro quasi-migliaio di post all'attivo. Un peccato, sì, sapere che solo qualche click curioso si imbatte in interventi che per noi hanno rappresentato tanto, di cui siamo andati e ancora andiamo fieri... 
Così ci è venuta un'idea: perché non suggerirvi qualche titolo alla fine di ogni mese? Ebbene sì, non si tratterà di riproporre i pezzi migliori del mese (dai, già sentito...), ma di lasciarvi qualche link da "ripescare", a vostro piacimento, tra gli esordienti e/o tra gli inviti alla lettura.

Da qui nasce il progetto di "RileggiamoConVoi": alla fine di ogni mese troverete un consiglio di lettura, cinque o sei pezzi di un CriticaLetteraria un po' più giovane, ma allo stesso modo motivato.

Meglio non dilungarsi oltre e lasciarvi con le letture! 
La Redazione 
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TRA GLI EMERGENTI...

TRA I SEMPREVERDI...
Buona riscoperta!

La teoria dell'1% di Frédéric Fajardie

La teoria dell'1%
Frédéric H. Fajardie
Aìsara, Cagliari 2011


Normandia, agosto 1944. Nella Francia collaborazionista del governo di Vichy, un giovane soldato tedesco viene turpemente ucciso e mutilato dalla popolazione del piccolo villaggio rurale di Pourceauville. Il pesante sipario della storia sta per calare sugli orrori della seconda guerra mondiale. Dopo lo sbarco delle truppe americane in Normandia, nel giorno più lungo della storia d'Europa, i tedeschi sono costretti a ritirarsi dai territori francesi.
Normandia, settembre 1979. Un uomo avvolto in un lugubre mantello nero, percorre a grandi passi le campagne di Pourceauville. Un velo deforma i tratti del suo volto come per effetto di una deturpante malattia della pelle. Sotto il mantello e il cappello nero a larghe falde che gli copre quasi tutto il viso, l'uomo indossa un'uniforme della Wermacht. Accompagnato dal tintinnio metallico di una campanella attaccata al petto e dal tonfo sordo dei suoi stivali da soldato, unici rumori della placida campagna normanna immersa nella notte, l’uomo misterioso porta con sé un’inappellabile sentenza di vendetta e morte. Una sentenza dolorosa, scritta nei minimi dettagli, in cui ogni particolare è calibrato al millimetro. Un verdetto con un solo vincitore, che non ammette errori e si consuma, lentamente, sul palcoscenico della notte.
"Gli piaceva agire di notte. Perché gli piaceva la notte, certo, ma anche per via della calma, della vita che brulicava, invisibile, tra i boschi e le foreste…
Quelle lotte mortali tra insetti, quei duelli dall’esito scontato tra rapaci e piccoli roditori.
Ripugnante e ingiusto.[…]
E infatti quella tela di fondo frusciante, intuita, sotterranea e conflittuale, agiva da costante richiamo.”
La sete di giustizia e vendetta

Caro Michele: gli Indifferenti della Ginzburg


Caro Michele
di Natalia Ginzburg
Einaudi Tascabili, Torino 2001

Con prefazione di Cesare Garboli
9.50
pp. 186

1^ edizione: Mondadori, Milano 1973

Con Caro Michele siamo lontani anniluce dal romanzo familiare che dieci anni prima aveva proclamato la grandezza della Ginzburg: il “lessico familiare” di Caro Michele non ha mai un gergo affettuoso e caldo da nicchia ristretta; semmai è l'esatto contrario. Le lettere che compongono il romanzo sono l'attestazione annichilita di quanto sia difficile (perlopiù impossibile) comunicare davvero: autoreferenzialità, opportunismo, lamentele vittimistiche, preghiere inascoltate e senza risposta, in quella che Garboli definisce giustamente  
«una famiglia dispersa e divisa senza alcuna ragione. Simili a schegge, a frammenti scagliati nel vuoto da un'esplosione così silenziosa da sembrare piuttosto una inspiegabile malattia, i personaggi di Caro Michele non sanno e non possono più riconoscerci». 
In questa perdita di identità o, meglio ancora, di obiettivi, i personaggi si muovono quali indifferenti di una borghesia sterile e priva di valori negli anni '70 (sarà un caso che il Michele del titolo porti lo stesso nome del protagonista moraviano?). In questo clima di spaesamento generale, è impossibile portare avanti sentimenti autentici e, qualora ci si provi, non si trova riscontro nell'altro. È il caso di Adriana, ad esempio, che scrive spesso lunghe lettere al figlio Michele, senza arrendersi davanti alle misere e rare risposte di lui, piene di pretese economiche e prive di reale interessamento alla vita della madre e delle sorelle. A un egoista Michele scrive anche Mara, unico personaggio per cui si può provare una qualche tenerezza: giovane ragazza-madre, ingenua e poco acculturata, non sa se il figlio è di Michele, e che cerca una salvezza dalla povertà estrema in cui si trova. Ma a Michele scrivono anche le sorelle, Angelica e Viola, più o meno disperate all'idea di dover gestire la depressione della madre Adriana; e poi c'è Osvaldo, amico fidato di Michele, forse amico intimo, che cerca di aiutare Mara a trovare un tetto sopra la testa. Non resta che affidarsi alla “strana, gelida, desolata consolazione” della memoria, da sempre fondamentale rifugio per la Ginzburg, e lasciare che i personaggi rimarchino nelle lettere e nei dialoghi l'importanza del ricordo, soprattutto quando non restano altre manifestazioni di felicità a cui aggrapparsi (“Ci si abitua a tutto quando non rimane più niente”, sostiene Angelica verso la fine del romanzo): si leggano a tal proposito le frasi in chiusura del romanzo, affidate a Osvaldo. 
 
A questi personaggi principali si aggiungono comparse minori, come la zia Matilde o Ada, l'ex moglie di Osvaldo: tutte piccole tessere che vanno a dare forma a un puzzle dagli agganci narrativi mai forzati, ma sempre magistralmente gestiti dall'esperienza della Ginzburg.
Risulta particolarmente acuta la scelta di lasciare ai singoli personaggi l'occasione di esprimersi direttamente con le lettere, e di ridurre al minimo le parti dialogiche e narrative (gestite, in ogni caso, da un narratore di terza persona non intrusivo). In questo modo non ci sono filtri, né interpretativi e contenutistici né linguistico-stilistici: i personaggi si esprimono con i loro mezzi, con le ripetizioni, i costrutti, le zeppe e gli anacoluti tipici dell'oralità. Tutto si muove con la giusta misura: non ci sono stereotipi eccessivi, né si percepisce il trucco letterario. Spontaneità e crudeli ritratti psicologici garantiscono al romanzo di scampare a qualsiasi già detto. 
Gloria M. Ghioni

Colazione da Tiffany

Colazione da Tiffany  (Breakfast At Tiffany's)
di Truman Capote
Garzanti, 2009


Questo titolo è talmente conosciuto, talmente radicato nel parlare e nel sentire comune, che si presenta da solo. E’ il seme da cui è sorto il famoso film in cui Audrey Hepburn fuma con un lunghissimo bocchino e coccola il suo Gatto rosso. Ha dato origine a riutilizzi e rivisitazioni, come nel caso del racconto breve di Joanne Harris Colazione da Tesco. Influenza ancora oggi la cinematografia: nel recentissimo Capodanno a New York (2011, regia di Garry Marshall) una dei personaggi ha aggiunto, nella propria lista di cose da fare a New York per Capodanno, proprio la celebre “colazione” davanti alle vetrine di Tiffany, scena con cui si apre il film con la Hepburn sulle note di Moon River
Proprio per questa eccezionale fama, non è necessario che riassuma puntualmente la trama, ma risulta utile fare riferimenti al film, forse più conosciuto della versione cartacea e che permette un ottimo metro di riflessione. Ho avuto il piacere di vederlo anni fa e quando ho aperto lo smilzo volumetto di Capote mi aspettavo di trovarmi davanti alla sceneggiatura del film, quasi che il romanzo fosse venuto dopo per sfruttare ancora di più lo straordinario successo avuto su pellicola. 
Qualcosa del film si intravede: c’è questa ragazza, Holly Golightly, professione “mantenuta” e a tratti caratterizzata da un garbato cinismo che qui si legge meno naive che su pellicola. C’è il suo curioso vicino che la osserva, la ama e la descrive, anche se si legge meno “maschio” che su pellicola. C’è la brillante, sfaccendata, chiassosa compagnia che ruota intorno alla personalità di Holly e la osanna e vezzeggia. C’è il Gatto, Tiffany, e tutti (o quasi) gli elementi che hanno animato il film. 
Giunta al finale che, e questo devo proprio dirlo, non ha nulla dell’edulcorata versione hollywoodiana, mi sono resa però conto che tra libro e pellicola c’è la stessa differenza che può esistere tra un quadro originale e il poster che lo raffigura e sta nei bookshops fuori dai musei. Il primo ti emoziona, ti ammalia o, perché no, può anche suscitare repulsione. Il secondo è una cosina carina che si porta a casa e si degna ogni tanto di un’occhiata, giusto se si deve spolverare il vetro della cornice. Anche se, ammetto, per me Holly avrà sempre il volto di Audrey Hepburn (anche se Capote avrebbe molto da ridire in proposito). Ciò che mi ha colpito non sono i personaggi, per quanto Holly sia irresistibilmente affascinante, né la storia in sé, anche se la liason con il vecchio spacciatore in prigione che usa Holly come portaordini per i suoi traffici è esilarante. 
Ciò che colpisce è l’eleganza: la classe senza inutili fronzoli e orpelli che trasuda da ogni pagina. È la prima opera di Capote su cui poso gli occhi, non saprei dire se questa sia una sua caratteristica: se lo è, non può che suscitare amore a prima vista. Lo stile rifinito e puntuale ha quasi il sapore di un vino bianco strutturato, un Arneis direi, e quindi suggerisco di leggere il volumetto in un caldo e fermo pomeriggio di metà estate e lo consiglio caldamente anche al pubblico maschile che, forse influenzato dall’onnipresente film, in genere, all’udire questo titolo, alza le spalle con disinteresse. 
E comunque, al cornetto sgranocchiato davanti alle vetrine di Tiffany, continuo a preferire una bella colazione da Starbucks. 

Giulia Pretta

Pillole d'autore - Emilio Cecchi di AMERICA AMARA




Non c’è bisogno di dilungarsi in presentazioni per Emilio Cecchi (Firenze, 1884- Roma, 1966) uno dei grandi maestri della critica letteraria del Novecento in particolare della letteratura italiana e anglosassone. Scrittore e saggista, svolse anche un’intensa attività giornalistica caratterizzata da estrose osservazioni dei fenomeni culturali e America amara (1939) ne è una testimonianza, insieme a Messico (1932), Et in Arcadia ego (1936), Appunti per un periplo dell’Africa (1954).

In America amara sono raccolte, come scrive lo stesso Cecchi, “impressioni, osservazioni e memorie di due miei soggiorni abbastanza lunghi negli Stati Uniti e nel Messico”. Ed è ancora lui a rivelarci il perché del titolo: 
“Mi sedusse, per il titolo, un’allitterazione cui davano abbrivo: Amica America di Jean Giraudoux, Amusante Amérique di Adrien de Meeus, America primo amore di Mario Soldati. Seguitando per quella strada, e con nell’orecchio anche il maremma amara d’una canzone del vecchio bracciante toscano, ho forse finito per trovare un’assonanza ormai in ogni senso più esatta.”
Impressioni che si fanno letteratura, osservazioni che ci ricordano quanto l’America conservi ancora oggi del suo carattere descritto in queste pagine. Gli Stati Uniti che credono ancora ci sia un west ad attenderli e quel Messico violento sorvolato ancora da zopilotes, gli avvoltoi che si cibano di polvere e morte.

(Edizione di Riferimento: Emilio Cecchi, America amara, Franco Muzzio Editore, 1995)
Da sinistra: A. Bartoli, R. Longhi, E. Cecchi


GRATTACIELI
“Fu Bernhard Berenson che giungendo dal mare a Nuova York e scorgendo i primi grattacieli, li paragonò alle torri di San Gemignano. […] Ma un altro pellegrino americano, Henry James, che aveva con l’America un fatto personale, alla vista dei primi grattacieli non rattenne il sarcasmo e disse che a lui il profilo di Nuova York faceva solo venire in mente -un pettine che ha perso molti denti- […] Caddero la torre di Babele, le moli di Ninive e di Babilonia; e cadranno i grattacieli.”

IL PRESIDENTE E I SUOI SCUDIERI
“Quando gli scioperanti o disoccupati americani si mettono di picchetto davanti alle ditte e agli stabilimenti, sia per una semplice manifestazione di sciopero […] la polizia riconosce il diritto di manifestare a una rappresentanza di sette o otto e ordina agli altri di sciogliersi. […] Rabbiosamente il discorso cadeva di continuo su questo ritornello - Quattordici dollari alla settimana per mantenere tutta una famiglia- […] E dalle vetrine e sui marciapiedi l’ammasso dei prodotti e gli avvisi pubblicitari del sapone da barba, dei busti , delle calze e della salumeria, proclamano a vivace ottimismo l’incrollabile ottimismo dell’industria americana […] che vuol persuaderci della sua incrollabile volontà di servire. Il nostro ideale è di render felice il cliente.”

INTELLETTUALI E DILETTANTI
“Quando nel dopoguerra, Clemenceau tornò da un viaggio in America, i cronisti sulla banchina di Le Havre gli chiesero la sua opinione degli americani. […] egli se la sbrigò in due battute : - Non hanno idee generali. E fanno un pessimo caffè- […] Gli americani non hanno idee generali, ammettiamolo. Ma nessun popolo è così persuaso d’averne. […] Nulla, d’ordinario, riesce più misero, monotono e più denutrito d’una conversazione americana […] Quando sono prudenti e servili, la loro evasività arriva ad un punto che vi scoraggia e disarma. A un’obbiezione che manda all’aria tutte le loro difese, rispondono con un sorriso […] non la raccolgono. […] Sentirsi sicuri mentalmente e materialmente: questo è il grande quesito, l’unico e vero ideale americano”

DOMENICA IN HARLEM
“Triste la domenica in terra puritana. […] Fortunatamente, al quartier negro la domenica non viene presa in un senso così letterale. Nelle prime ore del pomeriggio, in certi bracci di strade chiuse ai veicoli, si organizzano grandiose partite di hockey su pattini. Sui marciapiedi assiste una folla d’ogni colore […] sono fisionomie, specialmente di donne, pur giovani, che in una loro umiliata immobilità serbano qualcosa di pazzo e vociferante; quasi che i volti siano rimasti paralizzati, nell’atto d’urlare, senza che più si senta la voce.”

PICCOLA BORGHESIA NEGRA
“Circa trent’anni fa, con le loro musiche e danze, i negri cominciarono ad affermarsi nei locali di moda. Ed effettuarono così una grande conquista. Parlo degli svariatissimi ritrovi di Harlem , frequentati in massima parte da negri urbanizzati. I quali sono ormai incapaci ad accogliere la loro stessa musica e danza, senza le alterazioni che le resero gradite agli americani, eppoi in Europa; mentre sembra che, agli autentici negri che vivono in Africa, la musica del jazz riesca pochissimo accetta. Si tratta di una corruzione reciproca, fra servi e padroni. […] Nei teatrini di Harlem, si pensa ai negri del sud, che hanno a un dito dal collo la corda di canapa: si pensa a loro come a gente, nella sua miserabile dignità e solitudine, in confronto beata.”


DONNE AL RISTORANTE
“Un’intera mitologia si è ispirata, e in parte continua a ispirarsi, alla prepotenza, all’intrepidezza e alla volontà di dominio della donna americana.[…] In realtà converrebbe parlare anche della tristezza e umiliazione della donna americana […] Sono le legioni delle donne rimaste a mezzo: le donne che non hanno una casa e che sarebbero riuscite splendidamente se ne avessero avuto una. Quelle che pagano le spese dell’immenso sciopero familiare americano, che scontano l’universale paura della schiavitù domestica […] Sono le muliebri popolazioni della sessualità spostata, imperfetta, inibita, frustrata. […] Nell’attrazione sessuale, il puritanesimo scorse soprattutto i pericoli della carne e gli inviti del vizio. […] E ancora oggi, specialmente negli Stati dell’est, ogni moto di sentimento e sensualità è prevenuto e circondato di tali sospetti […] La dignitosa zitella […] con il suo lavoro mal retribuito, con la sua malinconica rinuncia […]Meglio forse essere sfruttata e battuta dal più immondo degli amanti; ma con l’orgoglio d’aver tentato di credere in qualcosa e qualcuno all’infuori di sé. […] E le tre vecchine […] che solevo ritrovare in un ristorante […] e disse ad un tratto una : Last night I had a vision of China

I GIARDINI DELLE MAGNOLIE
“Da Washington a Charleston, nel Carolina del Sud, sono circa millecento chilometri, pari a venti ore d’autobus tutte filate. […] Intanto, sotto ai vostri occhi, l’America cambia fisionomia. Sembra che chilometro dietro chilometro essa risalga nel proprio passato. Gradatamente i bianchi diminuiscono e i neri si moltiplicano[…] M’ero svegliato di colpo per lo scossone della fermata […] e m’accorsi che ormai nell’autobus s’era in pochi. […] questo è l’ordine dei posti: le donne bianche nella prima fila di sedili; in mezzo, come una compatta guardia del corpo, i bianchi dell’altro sesso; e dietro, maschi e femmine, la gente di colore. Era notte alta. Trasudava nell’aria rinchiusa quel caratteristico sentore dei negri, afoso e lievemente ferino […] I negri non lo avvertono. Ma, in compenso son più che sicuri di sentir esalare da noi bianchi un caratteristico e gelido odorino di morto.”

DONNE ALLA FINESTRA
“Non ho mai capito perché, a Città del Messico, la strada sopra tutta sventurata e disonorata, debba proprio intitolarsi al più puro e antico eroe nazionale. “a la grande alma di Guatimozino”. […] Le facciate dei casotti sono a tinte violente: giallo, verde, viola, celeste. […] D’accordo con i regolamenti di polizia, ciascun casotto è fittato per un periodo d’alcune settimane ad una donna. Per regolamento è vietato alle donne d’uscire sulla strada; ma le guardie chiudono un occhio […] Più di solito le donne aspettano affacciate alla finestra, sporgendosi come busti in altorilievi e dipinti […] Nessuna che manifestasse una ricerca di bellezza; non un nastro, un fiore, una collanina d’un soldo; ma accettandosi con la propria sorte […] segnate come galeotti dal numero sul muro, accanto alla porta.”

FIESTAS
“Come avesse nome il paesino dove vidi la festa degli uomini che cavalcavano i tori (in messicano la chiamano jaripeo) ho ancora da saperlo esattamente. […] La strada era profondamente incassata tra filari d’eucalipti e macerie; e nessuno avrebbe pensato che dietro ci fosse una chiesa e un piazzale pieno di gente. […] D’un tratto proprio mentre si passava, scoppiò selvaggiamente una fanfara di trombe e tromboni. […] Era come aver alzato il coperchio d’una scatola. […] O come quando in campagna da bambini si sollevava una pietra e sotto si vede un formicaio, con gli anditi che si incrocicchiano […] Era un villaggio poverissimo […] pieno d’un sentore imporrato, ruinoso, splendidamente catastrofico […] qualche cosa di simile all’odore luttuoso di fiori putrefatti, che rimane in una camera mortuaria. E in contrasto: l’affermazione di una vitalità così prepotente e primordiale.”

RITORNO
“ … il transatlantico venne assalito da sciami e nuvole di coleotteri della forma di maggiolini […] Si posavano i maggiolini sui bianchi bastingaggi; entravano fra il collo e la camicia alla gente; si aggrappavano con gli zampini fra i capelli alle donne che strillavano. […] Quando il piroscafo ebbe fatta altra strada, i maggiolini non volavano più. Gran parte erano ormai spiaccicati sulle tavole del ponte ormai semideserto. Vennero i marinai con i loro buglioli e accuratamente lavarono le tracce di cotesto massacro"

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Introduzione e selezione a cura di Maria Teresa Rovitto

CriticaLibera - Quattro versi. Gli ultimi giorni del duemiladodici e l’oltraggio.


Quan le mond ne serà pa plù, di la flurìst a le con de la rù, ochià ashtèr di flùr, paschè le mond ne serà pa plù, san rancùr. / Duemiladodici. Si scrive così? Sì, anche se io lo pronuncio “Duemilaedodici”, con la e in mezzo. Ma perché pronuncio la e? Come quel problema dei verbi messi alla fine: “Vieni a casa mia?”, oppure: “È buono!” Così dovrei dire. E invece: “A casa mia vieni?”, e: “Buono è!”. È scorretto. Chissà, mi mancheranno. Comunque, poco importa. Qui, qui quello che veramente importa è che questo sarà l’ultimo anno dell’umanità. L’ho sentito dire in giro, non ricordo esattamente dove. L’ultimo anno. Mai più: «L’atomo è la più piccola quantità di un elemento che può essere presente nei composti soltanto come multiplo intero[1]», o: «[…] volevo fare l’uomo forte e non scriverti subito, ma a che servirebbe? Sarebbe soltanto una posa. Ti ho mai detto che da ragazzo ho avuta la superstizione delle “buone azioni”?[2]», o ancora: «L’Italia è una penisola… I am, you are, he is… L’acqua bolle a centro gradi…», e basta così. In realtà, ci resta meno di un anno, perché la scadenza è fissata, secondo chissà quali calcoli, per il 21 di dicembre, ma non mi hanno detto l’ora; spero solo che non sia all’ora di pranzo. Meglio se di notte. O la mattina presto, prima di svegliarmi, altrimenti non avrebbe senso. O dopo essere stati assunti a nero. Insomma, ci restano gli ultimi giorni. / So che frega a pochi della fine dell’umanità. Sicuramente, molti a riguardo penseranno: «Meglio, vada a farsi f*****e! Tanto il mondo faceva così schifo che l’unico modo per migliorarlo era spegnerlo». Anche se quelli che lo diranno, cercheranno un posto per nascondersi; la scena: l’urlo di un mostro mette al muro un verme, che si fa piccolo piccolo e si stringe in se stesso, tremando tra la sua m***a. Chi non lo dirà, andrà in Islanda per osservare il paesaggio del mondo mentre si accartoccia, e strapperà le tasse non pagate, la moralità e il calendario 2013 pieno di pubblicità. Io ho fatto alcuni ragionamenti e… e devo ammettere che il nostro mondo, anche se non era proprio un gioiello, anche se faceva davvero schifo, aveva i suoi lati positivi; e mi dispiacerà un po’ perderli. Quali sono i lati positivi a cui mi riferisco?

Sono una vecchia comunista!



Sono una vecchia comunista!
di Dan Lungu

Aìsara, 2012

179 pp., 16 €


La storia della letteratura insegna che un buon libro non dà soluzioni ma crea problemi: non offre risposte, pone domande. Così l’ultimo romanzo di Dan Lungu, mio primo e folgorante incontro con la letteratura rumena. Sono una vecchia comunista! è un titolo esclamativo, duro e perentorio, ma in realtà nasconde proprio una domanda che giace al fondo dell’esperienza personale e collettiva.
«Di quante persone felici dovresti circondarti per meritare il diritto alla felicità?» si chiede spesso la protagonista Emilia Apostolae. In una discussione con sua figlia Alice, che ha da tempo lasciato la Romania per il Canada, lei risponde senza remore: sì, sono una vecchia comunista. L'affermazione spiazza Alice e tutti i successivi interlocutori di Emilia: è possibile che una persona possa rimpiangere un regime totalitario – la dittatura comunista di Ceauşescu – che ormai appartiene al passato, soltanto in nome di una «vecchia» ideologia?

In questo bellissimo romanzo, Dan Lungu sfiora il nucleo delle ideologie senza fare discorsi ideologici, entra nella storia senza soffocarla di retorica né cedere alla strumentalizzazione del ricordo, con un tocco di ironia fresca e metallica come il ferro della fabbrica in cui Emilia ha lavorato per una vita. Tuttavia sarebbe riduttivo consigliarne la lettura soltanto per la sua dimensione nazionale. Il romanzo è questo, ma non solo. Sono una vecchia comunista! è una matura lezione di umanità: Emilia ripercorre la sua storia personale, il suo viaggio dalla campagna alla città, il lavoro e le amicizie, l’intima felicità del vivere giorno dopo giorno insieme. Questo, d’altronde, è il comunismo per Emilia: un ricordo di energia, giovinezza e lavoro, dopo il quale si è sentita relegata ai margini della vita.

Emilia è una narratrice forte, schietta e senza fronzoli, e la sua storia, nel confronto tra passato e presente, tocca questioni critiche dell’intera società occidentale: il contrasto tra città e campagna, l’apparente riscatto delle classi sociali, le contraddizioni dei sistemi economici a confronto. Questioni attualissime, che Dan Lungu riesce a incarnare con asciutta maestria nei suoi personaggi. Ognuno di essi – Tuçu, Emilia, Alice, Rozalia – è portavoce della sua «microstoria» che, a ben vedere, non è che lo specchio della «macrostoria» del gruppo sociale a cui appartiene. Il grande interrogativo di Emilia, il cui centro è l’inesausta ricerca della felicità e la legittimità di questa di fronte al mondo, fa emergere tutte queste relazioni in cerca di una risposta.

Giunta all’ultima pagina di questo romanzo, ho pensato a un passo sciasciano in cui un personaggio, Candido, sostiene che il comunismo è una cosa semplice, come fare l’amore con la propria ragazza. Per Emilia, comunismo è giocare a backgammon coi suoi amici in pausa pranzo, è abbandonare la puzza del tizic per una città di smalti per unghie e acqua calda. Candido ed Emilia, nonostante la distanza geografica e cronologica che li separa, mi sembrano come fratelli.

Laura Ingallinella


Dan Lungu (Botoșani, 1969), scrittore, drammaturgo, docente di sociologia presso l’Università Al. I. Cuza di Iași e membro dell’Unione degli Scrittori della Romania, è considerato uno dei maggiori scrittori romeni contemporanei. Redattore della rivista Au Sud de l’Est, è tra i fondatori del gruppo letterario Club 8 (1996). I suoi libri sono tradotti in Francia, Ungheria, Spagna, Austria, Polonia, Turchia, Bulgaria e Slovenia. Al romanzo Sono una vecchia comunista! si ispira un lungometraggio in corso di produzione per la regia di Stere Gulea e per la sceneggiatura di Lucian Dan Teodorovici.

Le ombre gotiche di Massimo Padua

L'ipotetica assenza delle ombre
di Massimo Padua
Voras Edizioni, 2009

Pp. 256
14,00 euro



Dopo la parentesi più intimista de "L'eco delle conchiglie di vetro", Massimo Padua torna alle atmosfere gotiche già accennate in "La luce blu delle margherite", proponendo un noir intenso e coinvolgente. Se avete letto con attenzione queste poche righe introduttive già vi sarà saltato agli occhi un particolare: i titoli dei romanzi di Padua sono una promessa, un'anticipazione, di ciò che racchiudono. Mistero, eleganza, suggestione. Perchè non è solo la storia a catturarvi, ma anche la scrittura ricercata e che richiama le atmosfere degli autori romantici tedeschi e inglesi.
Il protagonista de "L'ipotetica assenza delle ombre" è Marco, giovane scrittore in crisi creativa, giornalista squattrinato, timido e introverso, tormentato dalla morte improvvisa della sorella Anna da cui stenta a riprendersi; riceve una inaspettata e misteriosa eredità: un certo Newman, pittore, che Marco non conosce, gli ha lasciato una inquietante villa in campagna. Marco ci si trasferisce e assieme a Bea, amica con cui instaura un legame sempre più intenso e importante, scopre gli inquietanti ritratti di cui Newman ha disseminato la casa ed esplorando stanza dopo stanza riporta alla luce i misteri celati nell'abitazione. Misteri che lentamente disveleranno legami sempre più stretti con il passato di Marco e delle persone a lui più care. Un romanzo dal ritmo incalzante che si legge tutto d'un fiato, travolti nel gorgo sempre più nero che sta inghiottendo Marco e Bea.

Massimo Padua, ravennate, è nato nel 1972. Ha compiuto studi artistici ed è stato cantante di pianobar e attore teatrale. Ha pubblicato La luce blu delle margherite (Fernandel, 2005 - Premio Opera Prima Città di Ravenna 2005 - Premio Àncora 2005), L'eco delle conchiglie di vetro (Bacchilega, 2008 - Premio Tammorra d'argento 2009 - Premio della Giuria Associazione Akkuaria 2009) e il noir L'ipotetica assenza delle ombre (Voras, 2009 - Premio Perelà 2010; 2° Premio Portus Lunae 2010; Selezione Premio AlberoAndronico 2010). Inoltre è tra gli autori del romanzo collettivo Byron a pezzi (Fernandel, 2008). È presente in varie antologie, tra le quali Racconti nella rete (Nottetempo, 2008), Corpi d'acqua (Voras, 2009) e Io mi ricordo (Einaudi, 2009).

Carla Casazza

Io non ci volevo venire qui di Angelo Orlando Meloni

Io non ci volevo venire qui
di Angelo Orlando Meloni
Del Vecchio Editore, 2010

€ 14.00

È il caso di dirlo: io non ci volevo venire qui. A causa di questo libro, infatti, ho saltato la mia fermata del treno, scendendo a due dopo, evento mai accaduto in anni da pendolare.
Io non ci volevo venire qui è il primo romanzo di Angelo Orlando Meloni (qui il link a speraben, il suo blog): un libro che ti viene voglia di inviare, letteralmente scagliare contro molte persone, coloro che troppo facilmente associano il proprio nome all’Arte, che pensano essa sia alla portata di chiunque e pretendono di raggiungere risultati senza studio e dedizione. Certamente il loro ego è gonfiato dai molti messaggi che, da un lato, moltiplicano le possibilità di esposizione, ma dall’altro, costituiscono delle armi pericolose per chi pecca di autostima. 

Io non ci volevo venire qui è l’autobiografia di un personaggio immaginario, un giovane privo di ogni talento che, contro la sua volontà, si ritrova a vivere improbabili esperienze artistiche: performances teatrali, concorsi di cinema, fino alla partecipazione alla prestigiosa quanto dubbia scuola di scrittura creativa Harold Frescon. Il protagonista si cala in contesti popolati da pseudointellettuali che nelle sue invettive assumono queste caratteristiche:
“E la sera cominci a frequentare gente pacifica, e rottami i vecchi sodali della sbronza cattiva per individui inoffensivi, remissivi, di una cordialità sospetta.
Per lo più maschi con pochi capelli e petti villosi, i cui peli irti fanno capolino dai colletti delle t-shirt bianche, indossate sotto le camicie per paura dell’ascella pezzata. Uomini dalle braccine secche, con il fisico a pera da soffiatori di minestra, sempre pronti a inginocchiarsi ai piedi di primedonne veneratissime dalla personalità bizzosa e il culo grosso. In qualsiasi momento incombe un brano dell’Enrico 4 nel tentativo di fare colpo sulla tettona dagli occhi neri, una maggiorata che tutti amano disperatamente. O che la tettona si produca in un acuto degno della Callas e venga meno chiedendo i sali.
È gente così. Non ci si crede, ma non hanno niente di meglio da fare che riempirsi la bocca di Rimbaud e Baudelaire, ne parlano come se li avessero conosciuti, come se fossero i loro alleati segreti”.

Il libro coglie alla perfezione quel mood votato all’arte che ci avvolge: l’arte viene declinata in tutte le sue varianti, anche quelle che non le appartengono, fino a svilirla, a renderla materia per tutti, abbassandone, così, il livello. 
Ad esempio, chi frequenta gli ambiti umanistici, saprà che le aule delle facoltà di Lettere e filosofia sono frequentate da inquietanti personaggi, personalmente potrei fare numerosi nomi! Tutta gente che, come nel libro di Meloni, ha qualcosa da dirti, non sai come, ma ha sempre qualcosa da dirti sulla loro vita di poeti, pensatori, aspiranti registi e che spesso finisci per guardare con ammirazione. Ti basterà approfondire la conoscenza per renderti conto che la sostanza non è all’altezza dell’ostentata apparenza. Certo, chiunque coltiva aspirazioni e ritengo che il libro rifletta in maniera indiretta le frustrazioni di chi l’arte vuole davvero farla, forse non quelle di un personaggio come l’odioso Biagio Patanè, conosciuto con il nome d’arte di Igor Bio, il cui ultimo corto “parla dello spaesamento sociale nella contemporaneità, o della perdita dell’io nella società tecnologica”. Il corto in questione si intitola Pensieri perduti non molto lontano da il Sogno perduto, romanzo incompiuto del protagonista. Quest’ultimo viene fagocitato dal mondo dell’arte e quando insieme ad un gruppo di amici partecipa ad un concorso di cinema, ecco che cosa prova:
“Il senso di onnipotenza cancella il senso della realtà. In breve consideri Teoria generale del montaggio di Sergej M. Ejzenstejn un testo divulgativo opera di un buon dilettante. Dopo qualche giorno la parola “panoramica” non indica più il viale della tua città dove gli insospettabili vanno a caccia di marchettari, e “dolly”, non si riferisce alla prima pecora clonata. Il tuo vocabolario si colma di gergo tecnico e nel momento in cui scopri che puoi sintetizzare macchina da presa con “m.d.p” ti senti in possesso del sapere d’un iniziato”.
Il concorso è un fallimento e dopo di esso ritroviamo il protagonista alle prese con altre avventure nel tentativo di seguire e contemporaneamente fuggire il richiamo dell’arte. Il giorno del diploma alla Harold Frescon è finalmente una liberazione. Un fischio all’amico Alfio e… “niente di più semplice. Niente di più bello. Andate a casa di amici. Mangiate e bevete, ma non c’è birra, e non ti senti in vena di beveroni. Stai troppo bene, per festeggiare meglio un chinotto”.

Io non ci volevo venire qui è un libro divertente dall’ironia tagliente, ma a mio parere è anche una prova sofferta nella quale lo scrittore sottolinea difficoltà e ostacoli del perseguire questa professione in una realtà dove chiunque sembra coronare sogni di gloria senza molti sforzi. Offre uno sguardo ironico e distaccato con l’intelligenza di chi sa bene che cosa significhi il mestiere dell’autore, complice un tratto che, a mio parere, distingue questo libro da molti esordienti, cioè una lingua veloce ed incalzante, che emerge spontanea dalla penna dello scrittore.
Il libro di Angelo Orlando Meloni è una delle opere più interessanti da me scoperte di recente, a metà tra un romanzo e un saggio di sociologia e che vedrei benissimo in una trasposizione cinematografica, magari meglio realizzata dell’impresa filmica del protagonista!

Martina Pagano

Editori in ascolto - Henry Beyle, ovvero una relazione sentimentale

Uno dei volumi di Henry Beyle

Quartiere Bovisa, periferia nord di Milano. Nebbia fitta, freddo, il passaggio del tram scandisce la giornata di quest'angolo di città. La Henry Beyle occupa un appartamento al piano ammezzato della palazzina al numero 52 di Via Maffucci. Due stanze separate da un corridoio, in ogni angolo libri antichi e nuovi, edizioni rare, di pregio e su un tavolo di vetro le pubblicazioni della casa editrice. Vincenzo Campo ce le mostra con orgoglio, l'orgoglio di chi ha curato ogni minimo dettaglio di questi libri che, parole sue, devono «essere piacevoli come oggetti e al contempo raccontarci una storia».
Il nome Henry Beyle rimanda chiaramente a Stendhal. Può raccontarci la storia di questo nome?
Intanto il nome così come lei lo legge nelle copertine, con la “y” , non esiste, perché il vero nome di Stendhal è Marie Henri Beyle, quindi con la “i” e non con la “y”. Nella produzione di Stendhal, però, esiste un testo, considerato da molti stendhaliani come il suo vero capolavoro, Henry Brulard. Nel nostro nome confluiscono dunque due anime: il vero nome di Stendhal con una piccola smagliatura che rimanda a un'opera di Stendhal stesso. Va poi detto che lo scrittore francese odiava il suo vero nome e che Stendhal non fu il suo unico pseudonimo, ne aveva molti, usati per nascondere e camuffare la sua identità. Noi abbiamo fatto il contrario: abbiamo utilizzato un nome vero, tenuto nascosto, per nascondere un nome reale. Ricorrendo ad un’opera di Tabucchi lo potremmo definire un gioco del rovescio: un nome vero che viene utilizzato come pseudonimo, come nome editoriale e letterario. È un gioco, ecco, poi ovviamente in Stendhal trovo motivi di piacevolezza che non trovo in altri scrittori.
In un'intervista al «Corriere della Sera» lei non si è definito né un editore, né un tipografo. Viene quindi spontaneo domandarle qual è il suo mestiere.

Lesley Downer: il fascino misterioso del Giappone - Invito alla lettura



LESLEY DOWNER: IL FASCINO MISTERIOSO DEL GIAPPONE
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I libri di Lesley Downer, siano essi saggi accuratamente documentati o romanzi che guardano al passato, sono senza alcun dubbio una dichiarazione d’amore immenso verso il Giappone e la sua storia.
Di madre cinese, la Downer è cresciuta con l’Asia nel cuore ma è in seguito ad un viaggio in Giappone nel 1978 a rimanere completamente stregata dal Sol Levante e a decidere più o meno consapevolmente di rendere omaggio a quella cultura misteriosa dedicandovi anni di studio e ricerche al fine di aprire anche per noi occidentali uno spiraglio sulla tradizione nipponica. Oltre ad aver presentato diversi programmi per la Bbc incentrati sulla cultura e le tradizioni nipponiche, la Downer si è dedicata alla saggistica e alla narrativa in cui ha riversato con passione tutto l’amore che nutre per il Giappone di primo Novecento, ponendosi come uno degli autori occidentali più autorevoli sul tema.

Per scoprire l’autrice e tentare di svelare l’universo misterioso ed affascinante della Geisha, è bene cominciare quindi dal saggio “Geisha: storia erotica del Giappone raccontata dalle maestre del piacere”, edito in Italia da Piemme, che si pone come un’analisi puntuale e dettagliata non solo dell’enigmatica figura della Geisha ma anche di quel “mondo fluttuante” (cioè lo stile di vita ricercato dei quartieri del piacere, ben lontano dalla realtà quotidiana) entro cui si muove, ripercorrendone la storia dalle origini fino ai giorni nostri. Una storia lunga quattrocento anni, fatta di sacrifici e sofferenza, rituali e tradizioni difficili da comprendere fino in fondo per noi occidentali ma di cui la Downer è stata spettatrice diretta nei quartieri delle Geishe di Kyoto e Tokyo. Un’opportunità fondamentale per gettare uno sguardo su un mondo per moltissimi tempo inaccessibile e riservato, velato di mistero, di cui ancora oggi sono pochi gli occidentali entrativi in contatto. In questo senso il saggio della Downer è superato forse solo da “Geisha” di Lisa Dalbay la prima occidentale ad essere diventata geisha.
La ricostruzione della storia di queste figure leggendarie

Simone Rossi: Croccantissima

Croccantissima
di Simone Rossi

illustrazioni di Francesco Farabegoli
autoproduzione 2011



l'udito serve a orientarsi, a sapere dove sono i pericoli, è per questo che nelle orecchie c'è il labirinto, è per questo che certe chitarre sono un suono bugiardo, le senti e non sai da dove vengono, o dove ti stanno portando, ti perdi, ti farai sbranare, cacciatore, occhio.
Questo insolito e spiazzante romanzo assume, già dalle primissime pagine, la forma di un valzer in controtempo, sostenuto da una musicalità volutamente slabbrata e da un andamento ritmico incostante, che si abbevera alla fonte contaminata di un linguaggio straniante e concreto.
Supportato da un'empatica espressività che tende a sommuovere le corde più viscerali del pensiero critico socializzato, adagiandosi però sul personalissimo susseguirsi di ripetute attitudini quotidiane, Simone Rossi racconta, in questa sorta di ballata rarefatta e demistificata, una qualunque storia di una qualunque vita.
C'è l'amore, corrisposto prima, poi non più ricambiato, forse poi tardivamente riscoperto e rimodellato sotto una nuova luce, quella della consapevolezza parossistica del saper stare al mondo, specialmente quando questo mondo riesce a svelarsi, ormai, crudelmente inospitale, amaramente infettivo, in fin dei conti respingente.
C'è la precarietà, perciò, non solo dei rapporti interpersonali, ma anche, ovviamente, delle mancate e sbiadite occasioni lavorative, degli stralunati contatti, soggettivi e progettuali, con un sovraimpresso, infinito tempo determinato.
C'è l'insofferenza verso una certa, programmatica continuità esistenziale, ideologica e fattiva, tassativamente imposta dai più disparati e disperanti regimi comportamentali imborghesiti e scorretti.
C'è la passione, che è passione dei sensi, in quanto nutrimento sostanziale per l'innata curiosità organolettica, e soprattutto afflato intellettuale verso ogni forma fisica e metafisica di interminabile determinazione artistica.
Ecco spiegate le inserzioni fumettistiche, i bozzetti illustrativi minimalisti.
Ecco spiegata, dunque, la succitata musicalità debordante che trasuda dalle pagine di questo acerbo, ma già ben compiuto, romanzo di neo-formazione umanistica disintegrata, ad opera di un ragazzo presto adulto, giocosamente saggio, apprendista malinconico della scrittura surrealista materializzata. 

Ti limiti a riverniciare il soffitto mentre i tuoi coetanei stanno rinominando le stelle, vedi di darti una mossa: se vuoi essere un martire ci vuole un po' più d'impegno.

Francesca Fiorletta

Tra le carte di Satta: l'esperienza sanatoriale



La veranda
di Salvatore Satta
a cura e con prefazione di Aldo Maria Morace
Ilisso,Nuoro 2002
pp.  186

Trattare con le donne, al di fuori del più e del peggio, è cosa molto difficile, ed io sono convinto che i più di costoro, una volta aperte le porte, finirebbero col ritornare alle carte e alle biglie, che danno piaceri più schietti, e non mettono nell'imbarazzo.
(p. 140)


Profondamente ingiuste, alcune bocciature ai premi letterari, specialmente quando in commissione un testo di valore passa sotto gli occhi di grandi quali Croce e Moretti, e questo non assicura la premiazione né la segnalazione del libro. Ma, si sa, concorrono molti elementi a segnare l’affermazione o meno di un’opera. E così il romanzo primo di Satta è tornato nel cassetto dell'autore dove, anni dopo la sua morte, è stato fortunatamente e fortunosamente ritrovato. Infatti, dopo la stroncatura Satta aveva abbracciato la carriera giuridica e aveva ignorato l'invito di Moretti, negli anni '40, a riprendere quel libretto sul sanatorio e a pubblicarlo. Pur apprezzando le attenzioni del poeta, Satta aveva rifiutato raccontando di aver bruciato il manoscritto. Sulla scia del successo del suo Giorno del giudizio, una caccia agli inediti ha invece rivelato che il manoscritto della Veranda era ancora in casa Satta, ben nascosto, e negli anni '80 ne è stata curata la pubblicazione postuma.

Perché la bocciatura?

LETTERE A CLIZIA: l'occasione di un amore perduto


Lettere a Clizia
di Eugenio Montale
Arnoldo Mondadori, 2009

€ 25
pp. XLV-376

Un amore sbocciato dietro una scrivania, tra scaffali di libri e riviste, un amore raccontato in due lingue, inglese e italiano; nascosto nel sottoscala dei timori, negli eccitamenti da ragazzini che cercano di non tradire né gli altri né sé stessi ma che finiscono col tradire qualunque certezza, qualunque apologia alla vita fatta precedentemente; un amore portato avanti all’ombra di un suicidio, accresciuto dai baci e dalle lacrime di 156 lettere. Tante le missive che Eugenio Montale inviò a Irma Brandeis, giovane studiosa americana, esperta dantesca e italianista che raggiunse l’Italia dal lontano continente nel 1933 per intervistare e conoscere l’autore di Ossi di seppia, da poco direttore del Gabinetto Scientifico Letterario Viesseux. Tra i due nacque subito quell’intesa destinata a trasformarsi in passione e a sopravvivere, pur boccheggiando nella distanza, per sette lunghi anni. Le prime lettere, scritte dopo che Cupido aveva scoccato la freccia e colpito i cuori di entrambi con un solo lancio, contengono già parole malinconiche, speranze e preghiere per un prossimo incontro o lamentazioni in previsione di dodici mesi di solitudine. Irma aveva dovuto lasciare l’Italia alla fine dell’estate, dopo aver trascorso dolci giorni in compagnia del poeta.

Montale è sopraffatto dalla presenza di quella donna nel suo pensiero. “Sto tutto il giorno in tua compagnia”, le scrive.

Pillole d'autore: Funes o della memoria di J. L. Borges

Funes o della memoria” (“Funes el memorioso”, tratto da Ficciones, 1944) è un amaro racconto di Jorge Luis Borges nel quale si narra la storia, ambientata in Uruguay a fine Ottocento, di un giovane, Ireneo Funes, la cui condanna è quella di avere una prodigiosa memoria che gli permette di cogliere ogni dettaglio di tutto ciò che lo circonda. Il “cronometrico Funes” è un giovane uruguayano dai tratti indiani, un tipo bislacco e taciturno, la cui vicenda viene resa da un narratore identificabile con l’autore. Se da un lato Funes riesce a ricordare ogni cosa con estrema facilità, dall’altro non è in grado di formulare idee generali, la sua memoria registra solo particolari e non concetti compiuti. Questa condizione lo conduce, infine, all’isolamento e all’incomunicabilità: 
“Aveva imparato l’inglese, il francese, il portoghese, il latino. Sospetto, tuttavia, che non fosse molto capace di pensare. Nel mondo sovraccarico di Funes, non c’erano che dettagli, quasi immediati”.
Funes è una riflessione sulle incertezze della memoria, l’uomo, infatti, non può ricordare tutto, pena la fine, come Funes, che muore realmente per congestione polmonare, ma simbolicamente schiacciato dal peso dei suoi ricordi:

CriticaLibera: Fantasmi dell'editoria. 3. Contini e Pasolini

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3.   Contini e Pasolini

Gianfranco Contini

L’esperienza personale che grazie a criticaletteraria.org ho potuto fare mi spinge a dire che 8 casi su 10 la pubblicazione a pagamento non è altro che un sibilo per dire “io ci sono”. La qualità dei testi è decisamente scarsa, a volte insulsa. Un caso diverso è invece quello dell’autopubblicazione (per altro ecologicamente più onesto): non si stampano copie che non verranno mai vendute e la spesa per l’autore è relativamente modesta. E paradossalmente venendo a mancare l’esborso economico consistente, i testi nel complesso sono migliori, più necessari, se non al lettore, almeno all’autore. Insomma: io pago perciò pubblico ciò che voglio; viceversa, non pago o pago poco, perciò pubblico ciò che sento necessario, per me, se non per la comunità. 

Pier Paolo Pasolini
Il popolo degli scrittori della domenica esiste, ha le sue ragioni d’essere, le sue necessità e, quasi invertendo quella che potrebbe essere una sua funzione, la pubblicazione a pagamento e (in misura minore) l’autopubblicazione lo allontanano sempre di più dall’editoria nazionale o riconosciuta, perché da un lato lo contentano subito (basta pagare), gli fanno interrompere una ricerca tematica o stilistica che magari potrebbe portare a risultati migliori, dall’altro l’editoria ufficiale, non sentendo bussare alla sua porta con quell’insistenza che sarebbe necessaria in caso di bisogno reale e impellente smette di fiutare, di cercare quel testo o quell’autore o autrice per cui valga la pena di assumere un rischio d’impresa. In più pubblicare a pagamento o autopubblicarsi ha mantenuto dell’antico stato di cose la stimmate dello scrittore o della scrittrice “bruciata”, non più riciclabile dall’editoria nazionale o riconosciuta. In questa situazione distorta, non fisiologica, in cui chi raggira fa un favore a chi è raggirato, le piccole, spesso microscopiche, case editrici, numerosissime (delle quali questo sito sta fornendo con la rubrica “Editori in ascolto” una specie di mappatura geografica e tematica) hanno scarsa possibilità di far valere le loro scelte, di imporre livelli minimi di qualità, di promuovere i loro testi o i loro autori.
Eppure tra autopubblicazione e piccola editoria qualcosa di buono, a volte di ottimo, è possibile incontrarlo, solo che rarissimamente riesce a bucare la nube d’insulsaggine che lo circonda.

Chiaroscuri, di Alessandro Castagna

Chiaroscuri
Alessandro Castagna
puntoacapo Editrice, 2011
pp. 64

L’esordio poetico di Alessandro Castagna è all’insegna di una delicatezza che raccoglie le diverse sollecitazioni, le diverse tonalità dell’esperienza (l’epifania del paesaggio, la ferita momentanea di un’incomunicabilità, la dedica a figure care o scomparse, la riflessione scaturita da un viaggio), il più possibile senza alterarne la prima percezione, o risonanza, nel soggetto poetico.
Soggetto e oggetto convivono, smussati, in un chiaroscuro le cui gradazioni dicono di una reticenza al giudizio, alla volontà di modificare che è propria della ragione: qui la scrittura si affida spesso a un’osmosi sensuale, al contatto prima della sua rielaborazione intellettuale. A tal proposito, nella sua bella prefazione, il poeta Stefano Maldini parla a ragione di una “volontà di non arrestarsi mai a un’impressione definitiva” e di “spazi nuovi, assolutamente fluidi”, che sono “luoghi privilegiati di transito e di trasformazione su cui spesso si concentra l’attenzione dell’autore”.
Chiaroscuri come presenza sfumata di diversità dunque; ma anche, più concretamente, come indice di sensibilità pittorica già nel titolo del libro e dell’eponima sua prima sezione. Sensibilità rilanciata anche dalla seconda sezione, Acquerelli, dove si concentrano i testi più ancorati al paesaggio: quello delle colline toscane, dove l’autore si reca di frequente; ma anche di realtà metropolitane, benché còlte nei loro aspetti meno stranianti: un giardino a Milano, stilizzato dal ricordo, o le “ombre ballerine” a far visita al cimitero ebraico di Berlino.
In particolare, una miscela riuscita di evocazione lirica e risalto dell’immagine è in Moncigoli:

A Moncigoli, il sole preme vasto
sui silenzi, gli ulivi oltre le siepi.
Il mio cane e io, sul ciglio strada,
solo la luce contro.

Il Salotto: Intervista a Francesco Gioé

La magica terra siciliana, dai colori vivaci e dai mille deliziosi profumi, ci regala un giovane talento tutto da scoprire: Francesco Gioé. Nato a Palermo nel 1977, scrittore, articolista e web writer, Gioé esordisce nel panorama letterario con il romanzo “L’eredità di Iside(trovi qui la recensione).
Uno scrittore dotato di un innato eclettismo, capace di analizzare aspetti critici della società moderna con uno spirito immune dal condizionamento di ideologie ipocrite e di comodo.
Ecco il testo della breve intervista che l’autore ha rilasciato a Critica Letteraria.



Maurizio Dianese, Gianfranco Bettin, La strage

La strage: Piazza Fontana. Verità e memoria
di Maurizio Dianese e Gianfranco Bettin
Feltrinelli, Milano 1999

€ 6,71
pp. 224

Questo libro ricorda la prima vera grande strage del dopoguerra italiano, quella della Banca dell'Agricoltura di piazza Fontana a Milano, una strage che inaugura un decennio di terrore nella vita italiana.
Per questa strage non c'è mai stata una sentenza di condanna definitiva, di fronte perciò al dolore dei familiari come viene riportato nel libro "é inutile fare pianti o scene isteriche è utile piuttosto fare dell'altro", questo affermava la vedova Spinelli in un'intervista a Giampaolo Pansa, ovvero occorre "la ricerca della verità".

Il giornalista veneziano Dianese e lo scrittore Bettin, partendo dall'inchiesta del giudice Salvini, cercano attraverso una documentata ricostruzione di tracciare un'ipotesi di responsabilità dell'attentato da parte di gruppi neofascisti veneti di quel tempo.
Il racconto che inizia come un romanzo nella "Tokio fine degli anni novanta" con il ritratto di uno che "in tanti indicano come un protagonista centrale della stagione delle bombe" si snoda attraverso la storia italiana di quel tempo, in particolare di quella politica italiana.
Questo perché in base agli ultimi accertamenti, sembra che "un gruppo di picchiatori neri della provincia veneta" abbia agito con la complicità di "livelli occulti degli apparati di stato" , cercando di depistare, come viene descritto all'inizio del racconto dettagliatamente, le indagini dall'iniziale ipotesi di una responsabilità da parte di elementi di estrema destra verso gli ambienti anarchici.
Il filo delle inchieste apre quindi uno scenario ampio che si sviluppa "lungo la storia italiana di questo dopoguerra, che è una storia in parte ancora sommersa, buia, non rivelata perché forse non rivelabile".
Uno scenario talmente ampio che si inserisce nel contesto internazionale di quel tempo di "una guerra chiamata fredda ma in effetti, su certi fronti, rovente e combattuta come qualsiasi altra, senza esclusioni di colpi".
Una storia di sangue di tante vittime innocenti alcune note, come il suicidio dell'anarchico Pinelli ed in seguito all'assassinio del comissario Calabresi accusato di essere responsabile della morte del primo.
Ma anche altre storie che gli autori hanno voluto raccontare dedicando il libro "alla memoria di Pasquale Juliano, commissario di polizia, e di Alberto Muraro, portinaio, ex carabiniere, e a Guido Lorenzon, insegnante. Tutti testimoni e cittadini esemplari". Raccontando la propria disavventura professionale, il comissario Juliano, le cui intuizioni iniziali sono state dichiarate solo in seguito fondate, afferma infatti che:
"solo dieci anni dopo ha ricevuto giustizia, ma quel che ho patito in quel periodo non lo auguro a nessuno".
Un libro che va letto soprattutto dalle nuove generazioni che non hanno vissuto quel periodo perché la strage di piazza Fontana che è stata soprannominata la "strage" per antonomasia è una ferita ancora aperta della storia italiana degli ultimi cinquantanni, per la quale da troppo tempo i familiari delle vittime aspettano che sia fatta giustizia.
Oltre all'interessante trasmissione di Lucarelli che racconta l'accaduto con tutti i suoi risvolti, facendoci vivere la vicenda anche attraverso la storia delle vittime, questo libro è un contributo alla memoria di questo doloroso fatto di sangue.

Lucia Salvati

Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa




Il Gattopardo
di Giuseppe Tomasi di Lampedusa
Edizione tascabile Feltrinelli

7,50 €


C’è chi dice che Il Gattopardo sia una risposta ai Viceré di De Roberto, e una frase che Tomasi di Lampedusa scrisse in una delle sue ultime lettere sembra confortare quest’ipotesi:
Mi sembra che [il romanzo] presenti un certo interesse perché mostra un nobile siciliano in un momento di crisi (che non è detto sia soltanto quella del 1860), come egli vi reagisca e come vada accentuandosi il decadimento della famiglia sino al quasi totale disfacimento; tutto questo però visto dal di dentro, con una certa compartecipazione dell'autore e senza nessun astio, come si trova invece nei Viceré.
Quel che è certo è che i romanzi di entrambi gli autori raccontano la decadenza di una famiglia nobile: I Viceré da un punto di vista morale e fisico, Il Gattopardo da quello economico e politico, in estrema sintesi e senza rendere giustizia a queste due opere.
Il romanzo del Gattopardo comincia una placida mattina di maggio del 1860, la stessa in cui i Mille sbarcarono a Marsala. È affascinante scoprire quante corrispondenze ci siano tra il romanzo di Lampedusa e la storia della sua vita: la nobile, aristocratica famiglia di cui racconta la decadenza porta il nome di un’isola siciliana, proprio come la sua, ossia Salina; il protagonista del romanzo, però, fa il bagno con le spugne che gli sono state gentilmente inviate da Lampedusa.
Il suo nome è Fabrizio, proprio come il bisnonno di Lampedusa, cui si ispirò per il suo “Principone”; sono entrambi appassionati di astronomia. Come amo spesso ripetere, Luchino Visconti rubò i cannocchiali al bisnonno di Lampedusa, tutt'ora custoditi all'Osservatorio Astronomico di Palermo, per metterli in mano al suo Fabrizio, Burt Lancaster.
Fabrizio Salina assiste impotente all’avvento della Repubblica italiana e al disfacimento della sua classe sociale, dei suoi feudi, vecchi retaggi medioevali di cui rimarranno solo le cartine appese nelle "stanze dell’amministrazione", quelle dedicate alla conta – fattasi sempre più breve - dei beni della famiglia. Lui però ignora quei numeri, ignora pure certi appartamenti disabitati del suo palazzo palermitano, perché un palazzo di cui si conosca ogni ambiente non è degno di essere abitato. Il principe rappresenta un mondo, una classe sociale e un modo di vedere le cose che sta per sparire, che si è già estinto, incartapecorito come l’aspetto della famiglia Salina dopo il lungo e polveroso viaggio verso la residenza estiva, Donnafugata, scena resa in modo magistrale dal Luchino Visconti.

Anche la figlia di don Fabrizio, Concetta, è una perfetta Salina, così altezzosa e di buone maniere, ma i personaggi che incarnano il cambiamento di quel periodo storico sono molti altri, a partire dall’amato nipote del principe, l’affascinante Tancredi, cui è messa in bocca la frase più famosa del romanzo:
Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi.
Tancredi è giovane abbastanza per saltare sul carro della repubblica senza troppe remore, e poi si innamora del personaggio che più d’ogni altro emana spregiudicatezza: Angelica, anche lei rappresenta il futuro. Del resto è figlia di uno che sa quantificare, monetizzare, in un modo tale da dare la nausea a Fabrizio, il sindaco don Calogero Sedara. Fabrizio e Calogero, l’aristocratico e il borghese, il ricco di famiglia e l’arricchito, l’uno dai possedimenti rarefatti rispetto a certe vecchie cartine, l’altro proprietario terriero dell’ultim’ora. Il passato e il futuro.

Nelle pagine del ballo viene scongiurata la possibilità che Fabrizio si innamori di Angelica, sublimato quell’amore nel capitolo che l’autore non inserì nella versione definitiva.
Angelica è bellissima, sensuale, a tratti volgare, aderisce nel modo migliore allo spazio degli aristocratici solo quando Tancredi la istruisce a dovere, dicendole che deve riservare solo a lui i suoi modi di fare più espansivi e chiassosi, mentre per tutti gli altri dev'essere la futura Principessa di Falconeri, "superiore a molti, pari a chiunque".

Poco si parla degli ultimi capitoli del romanzo e della penosa vicenda delle reliquie religiosamente custodite dalle anziane sorelle Salina, zitelle cui vengono portate via quei falsi, polverosi resti, un ultimo boccone amaro per la loro famiglia decaduta, benché Angelica continui fino alla fine ad essere raccontata mentre sale le scale della villa, a rimarcare la sua umile origine.
Il capitolo della morte di don Fabrizio rivela particolari toccanti che restano impressi a chiunque conosca quelli della morte dell’autore. Sia Fabrizio che Tomasi di Lampedusa muoiono in luglio, l’uno in un albergo – nel più impersonale degli ambienti, in barba a come aveva signoreggiato i suoi luoghi – l’altro altrettanto lontano dalla Sicilia, a Roma. È come se Lampedusa avesse proiettato la sua condizione sul suo personaggio: aveva perso la casa natale durante i bombardamenti nel 1943, sapeva che non vi sarebbe morto, come aveva sempre pensato, e la stessa sorte tocca al Principe del Gattopardo.

Dalle pagine del romanzo si intuisce chiaramente l’importanza che Tomasi di Lampedusa attribuisce allo spazio, ai luoghi. Gli ambienti interni sono descritti con molti particolari: saloni, biblioteche, giardini, sale da ballo, sono luoghi piacevoli per chi li abita: c’è un rapporto molto positivo tra i Salina e le loro dimore, si avverte serenità e ognuno si trova a proprio agio. Il principe, in particolare, dimostra di dominare lo spazio, che si adatta al suo padrone – l’impiantito che trema al passaggio di Fabrizio, ma tace sotto la tonaca di padre Pirrone. Questo rapporto così positivo si incrina con l’arrivo di Angelica, per poi precipitare negli ultimi capitoli, in cui le vecchie Salina vengono descritte in quello stesso palazzo ormai decadente, dal parato scolorito, sdrucito, obsoleto.

Il romanzo presenta inoltre un ritratto fedele e spietato del carattere dei siciliani, storicamente sempre colonizzati, governati da popoli stranieri e per questo sempre diffidenti rispetto ai governi di qualunque natura, proprio perchè sentiti ostili e di qui l'anarchia, lo sprezzo per l'ordine sociale che ne è derivato, l' arroganza sprezzante delle novità, il rifiuto di ogni idea di rinnovamento.
Per tutti questi motivi, per ogni sua sfumatura, Il Gattopardo si conferma sempre un romanzo dalle molte chiavi di lettura, scritto in uno stile che, per usare una definizione lampedusiana, è grasso, ricco di particolari, molto diverso rispetto a quello degli autori che amò di più e che definì “magri”, come Stendhal, così essenziali nel loro modo di narrare.

Lorena Bruno


Pagine oltre il dolore

Alcune parole per Alice
di Michele Toniolo
Galaad Edizioni, 2011

€ 5
pp. 48


«Accade che a volte, quando sa che resta, una malattia ti prepara da subito, vuole che tu la conosca» (p. 19)

Poco più di un racconto, quasi un requiem, questa quarantina di pagine che l’anonimo io narrante dedica ad Alice, madre che accompagna la malattia del figlio, l’ictus che – quasi innominato, più volte alluso, ma onnipresente nel tessuto narrativo – travolge e stravolge quella personalità che era convinta di conoscere a memoria. E il narratore capisce che per ricostruire l’approssimarsi della morte, unico processo che interessa ad Alice («Solo la morte interessa ad Alice, la modalità della morte. Il modo in cui essa si presenta», p. 12), non si può procedere per un narrare disteso, né per episodi, perché ci sono solo continui strappi, violenti peggioramenti e ancor più crudi dubbi che assillano. Dunque non si può avanzare che per parole-chiave, scandite dal narratore onnisciente, o meglio padrone e orchestratore solo di quella parte di realtà che Alice decide di condividere. Il narratore si fa allora mediatore di una verità che si può portare sulla pagina per riflessioni e sincopi, tra raziocinio e amore innato. E così le parole delitto, autunno, debolezza, croce, amore, salvezza, fuoco, colpa…  si spogliano del significato letterale, per assumere una connotazione personale, in questa lotta a tratti feroce, a tratti arrendevole. 
Possibile o impossibile reagire alla malattia di un nostro caro? E come? Non si pensi che in queste poche pagine si trovi una guida; ma un’Esperienza, sporca di quell’amore che a volte porta a trasfigurare la realtà, a costo di negare i fatti, come si scoprirà nelle ultimissime pagine.
Struggente, condivisibile fino alle lacrime: un passaggio per la malattia in punta di piedi. Per gli spiriti più sensibili. 

Gloria M. Ghioni

Storia del libro e della lettura


Dal manoscritto all'ipertesto.
Introduzione alla storia del libro e della lettura
di Jean-François Gilmont
Mondadori Education

€ 16.5


La prima volta che ho fatto il mio ingresso in una sala manoscritti ho avuto la percezione di qualcosa di fantastico. Passando da un corridoio breve e buio sono arrivato improvvisamente alla radiosità alogena della sala. Mi sono guardato intorno e ho percepito, in un'interminabile frazione di secondo la “voce” di quelle venerande reliquie di un passato così vivo e presente. Sentivo le pergamene vergate nel passato che mi si presentavano potentemente dinnanzi agli occhi con la forza dei loro contenuti. Ho percepito il valore dello scritto e della dignità di tutti quegli autori, copisti e rilegatori che hanno assicurato alla mia modernità il frutto e la base di un'eredità spesso dimenticata dai più ma in placida attesa di essere continuamente scoperta e maturata. Più volte sono tornato a quell'evento e mi sono sempre reso conto di quale verità sia insita nell'affermazione che la grande rivoluzione del nostro evo è stata proprio la stampa. Ho ripensato a quei manoscritti, a quelle fonti incanalate da uomini eccelsi, come il Plantin, i Manuzio, il Bodoni etc..., nelle vie dei torchi che hanno trasformato le antiche scritture in libri sempre più leggibili ed accessibili, fino ai giorni nostri. Un flusso continuo di idee e scritti che dagli scriptoria alle scuole cattedrali, dai stazionari delle Università alla lettura digitale hanno permesso all'uomo di fermarsi e di far crescere la propria mente, di farci progredire in un incessante rifluire di ricerca ed esposizione. Tutto questo perché con l'invenzione della stampa siamo giunti ad un oggetto, il libro, che ha rivoluzionato il nostro modo di vivere e di imparare. Dai rotoli ai corali, dai codici miniati all'eleganza umanistica, dalle letture “proclamate” si è arrivati alla lettura silenziosa mentre il metrò attraversa la città, mentre siamo nell'intimità di noi stessi, in strada, alla posta, in poltrona, ovunque. 

Bibbia (Bibbia di Borso d'Este)
Manoscritto Lat. 422-423
MS.V.G.12 della Biblioteca Estense di Modena

Accostarsi alla storia del libro e della lettura significa incontrare un mare di pubblicazioni di diversa natura ma che hanno come linea guida quella di far percepire il valore e l'importanza del libro per l'uomo nella sua dignità culturale. Il rischio può essere quello di perdersi, di disperdersi. Jean-François Gilmont, professore emerito all'Université Catholique de Louvain-la-Neuve e membro dell'Académie Royale des Sciences, des Lettres et des Beaux Arts de Belgique ha il pregio di aver composto una piccola opera enciclopedica, quasi una mappa concettule della storia del libro che con l'immediatezza e la precisione delle notizie, con l'aiuto di bibliografia ragionata alla fine di ogni argomento, permette allo studioso piuttosto che al semplice appassionato di districarsi con facilità nello studio di una storia affascinante. L'opera, con la cura di Edoardo Barbieri, parte dall'analisi del manoscritto, passando per i torchi manuali e meccanici fino alle raffinatezze tecnologiche e computeristiche moderne. Il pregio è quello di avere sotto gli occhi un atlante storico del libro. Il difetto è che l'attenzione spesso viene concentrata sull'editoria francese o francofona. Non mancano gli accenni all'esperienza editoriale italiana, ma sono sempre fugaci riferimenti. In questo senso la strada rimane ancora aperta ad una ricerca capace di far sviluppare un volume simile che sappia presentare le potenzialità che l'Italia ha avuto nella produzione delle idee, della cultura e del suo mezzo di diffusione. 

Francesco Bonomo