Colazione da Tiffany

Colazione da Tiffany  (Breakfast At Tiffany's)
di Truman Capote
Garzanti, 2009


Questo titolo è talmente conosciuto, talmente radicato nel parlare e nel sentire comune, che si presenta da solo. E’ il seme da cui è sorto il famoso film in cui Audrey Hepburn fuma con un lunghissimo bocchino e coccola il suo Gatto rosso. Ha dato origine a riutilizzi e rivisitazioni, come nel caso del racconto breve di Joanne Harris Colazione da Tesco. Influenza ancora oggi la cinematografia: nel recentissimo Capodanno a New York (2011, regia di Garry Marshall) una dei personaggi ha aggiunto, nella propria lista di cose da fare a New York per Capodanno, proprio la celebre “colazione” davanti alle vetrine di Tiffany, scena con cui si apre il film con la Hepburn sulle note di Moon River
Proprio per questa eccezionale fama, non è necessario che riassuma puntualmente la trama, ma risulta utile fare riferimenti al film, forse più conosciuto della versione cartacea e che permette un ottimo metro di riflessione. Ho avuto il piacere di vederlo anni fa e quando ho aperto lo smilzo volumetto di Capote mi aspettavo di trovarmi davanti alla sceneggiatura del film, quasi che il romanzo fosse venuto dopo per sfruttare ancora di più lo straordinario successo avuto su pellicola. 
Qualcosa del film si intravede: c’è questa ragazza, Holly Golightly, professione “mantenuta” e a tratti caratterizzata da un garbato cinismo che qui si legge meno naive che su pellicola. C’è il suo curioso vicino che la osserva, la ama e la descrive, anche se si legge meno “maschio” che su pellicola. C’è la brillante, sfaccendata, chiassosa compagnia che ruota intorno alla personalità di Holly e la osanna e vezzeggia. C’è il Gatto, Tiffany, e tutti (o quasi) gli elementi che hanno animato il film. 
Giunta al finale che, e questo devo proprio dirlo, non ha nulla dell’edulcorata versione hollywoodiana, mi sono resa però conto che tra libro e pellicola c’è la stessa differenza che può esistere tra un quadro originale e il poster che lo raffigura e sta nei bookshops fuori dai musei. Il primo ti emoziona, ti ammalia o, perché no, può anche suscitare repulsione. Il secondo è una cosina carina che si porta a casa e si degna ogni tanto di un’occhiata, giusto se si deve spolverare il vetro della cornice. Anche se, ammetto, per me Holly avrà sempre il volto di Audrey Hepburn (anche se Capote avrebbe molto da ridire in proposito). Ciò che mi ha colpito non sono i personaggi, per quanto Holly sia irresistibilmente affascinante, né la storia in sé, anche se la liason con il vecchio spacciatore in prigione che usa Holly come portaordini per i suoi traffici è esilarante. 
Ciò che colpisce è l’eleganza: la classe senza inutili fronzoli e orpelli che trasuda da ogni pagina. È la prima opera di Capote su cui poso gli occhi, non saprei dire se questa sia una sua caratteristica: se lo è, non può che suscitare amore a prima vista. Lo stile rifinito e puntuale ha quasi il sapore di un vino bianco strutturato, un Arneis direi, e quindi suggerisco di leggere il volumetto in un caldo e fermo pomeriggio di metà estate e lo consiglio caldamente anche al pubblico maschile che, forse influenzato dall’onnipresente film, in genere, all’udire questo titolo, alza le spalle con disinteresse. 
E comunque, al cornetto sgranocchiato davanti alle vetrine di Tiffany, continuo a preferire una bella colazione da Starbucks. 

Giulia Pretta