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CriticaLibera - Dante a Palermo (2)

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Dante a Palermo (2)
(Verosimile al 50%)

4. Dicono che l’ospite sia come il pesce. Dante è stato mio ospite per molto tempo, eppure non ha puzzato affatto[1]. Pesava. Perché le bocche da sfamare erano due: la mia e la sua; e lo stipendio non esisteva. Comunque, si tirava[2] avanti. Male, ma si tirava. Mi rallegrava il fatto di vivere con un genio. Un genio! Annotavo ogni suo verso inedito (che il Poeta pronunciava a mo’ di aforisma) senza che egli si accorgesse di ciò, e ogni tanto mettevo tutto insieme fino a produrre un sonetto. Ne è nato un libro. Sì, un libro di sonetti. Fa strano anche a me. L’ho intitolato “Amore e morte”. Dedica: “a Beatrice… sangu miu[3]”. So che non è proprio originale, ma ogni volta che lo leggo mi vengono i brividi. Non l’ho mai proposto alle case editrici… non so perché. Odio l’editoria. E comunque, dubito che un editore qualsiasi, oggi, sia interessato ai sonetti: a chi importa ormai di un bel contenuto in una bella forma? Oggi è di moda altro (anche se non ho capito bene cosa sia di moda). Passiamo avanti. Dante iniziava a pesare, dicevo. Però una sera, il Sommo, mentre guardavamo un servizio giornalistico in tv sul precariato, mi chiese se, in qualche modo, egli si sarebbe potuto rendere utile all’economia delle mie tasche (nota personalissima: ritengo che si fosse deciso di lavorare perché era stufo di cibarsi di scatolette). Rispose per me Fulippu Ogghiu Friutu, che poveretto non se la passava tanto meglio di un clochard, esclamando un assordante «Certo!», che immagino anche Stalin, il topolino che vive nel pozzo luce, sicuramente sentì. Spiegai a Dante che un lavoro avrebbe migliorato non solo le mie, ma anche le sue tasche; tuttavia, aggiunsi a ragione che il periodo storico in cui -stranamente- ci si trovava entrambi era profondamente complicato. Gli prestai alcuni film, al fine di aggiornarsi; per esempio: gli ultimi del regista britannico Ken Loach, “I vitelloni” di Fellini, “Umberto D” di De Sica e Zavattini, “Silvio Forever” di Roberto Faenza e Filippo Macelloni, i documentari “Blunotte” di Carlo Lucarelli, i “Simpson” e qualche altro. Mi promise che li avrebbe guardati (ma non lo fece). La mattina successiva la sua richiesta, ritenni utile tentare la fortuna. Il Poeta e io andammo, infatti, a cercare lavoro (lui per la prima volta, io per la milionesima). Fulippu non volle venire con coi, perché gli dolevano i calli dei piedi. Durante quel “pellegrinaggio”, notai che: non puoi fare il pizzaiolo se non sei magrebino, non puoi fare il lavapiatti se non sei albanese, non puoi fare il badante se non sei rumeno, non puoi fare il fruttivendolo se non sei bengalese… insomma, non puoi lavorare se sei autoctono. Ma qualcosa che gli autoctoni possono fare ci sarà?, domandò Dante. E poi, continuò il Sommo, questa gente è contenta di lavorare in Italia? Risposi che è poco contenta[4]; sul lavoro degli autoctoni non saprei[5] (non sono mai stato bravo nelle risposte). Per strada, ritornando a casa senza speranze, lessi l’assurdo titolo di un quotidiano[6] esposto sulla bacheca dell’edicola. In quel momento, una fatina svolazzante, con la bacchetta luminosa, mi entrò nel cervello dall’orecchio sinistro ed espose ai miei stanchi neuroni specchio questo concetto: «Dante, lo sappiamo, si è dedicato “all’arte di dire parole per rima[7]” all’età di diciotto anni. Dunque, se il mio ragionamento patafisico non è errato, il Sommo potrebbe lavorare con chi si occupa di parole, ovvero la stampa». La stampa! La fatina aveva perfettamente ragione. Mosso da questo pensiero, e dai neuroni specchio che si agitavano come bollicine dentro una bottiglia di gassosa[8], andai insieme a Dante di redazione in redazione a presentare i (non “il”, poiché anche io ero interessato) curriculum.

5. E presentammo i curriculum. Dante lo compilò in meno di un’ora. Scrisse di sé ciò che tutti noi sappiamo (inclusa una vasta bibliografia). Una domanda: chi avrebbero mai potuto scegliere tra un individuo senza alcuna qualità, che non ha mai pubblicato un libro, terrone, di tendenze leopardiane, e un uomo che ha scritto la Divina Commedia, che è sui “due euro” italiani e sa incatenare le parole[9]? Anche se la risposta si scriva da sola, la aggiungo ugualmente: ovviamente non il primo. Dante fu assunto da una testata giornalistica locale, di cui non ricordo il nome, che si occupava di cultura, gossip e calcio (traduco: oggi “cultura” sta per “spettacoli e stupidaggini varie”, “gossip” sta per “maschietti e donnine nude”, “calcio” è la sintesi delle prime due mischiate alla pubblicità sportiva). Mi telefonarono una mattina chiedendomi: «Buongiorno, le chiamo dalla redazione ****. Potrei parlare con il signor Alighieri Dante da Firenze?». Sì, risposi con un po’ di invidia, e diedi il telefono al Sommo (che come al solito era davanti la tv a guardare telegiornali e talk show). Poi mi nascosi e ascoltai la telefonata. So che non si fa, ma la curiosità era grandissima. Dicevano al Poeta che il suo curriculum era da capo redattore, che anzi non c’erano in giro capi redattori con cotanto valore, ma che avrebbe dovuto cominciare dal basso, da correttore di bozze, perché questa era la “dura legge della stampa”. Il Sommo si consultò con me per un pomeriggio intero, passeggiando dalla Stazione Centrale al Giardino Inglese, dal Giardino Inglese alla Stazione Centrale, e viceversa (non avevo mai fatto tutti questi chilometri in un giorno). Alla fine, intorno ora di cena, decise di accettare l’incarico. La sera festeggiammo la sua assunzione in piazza Garraffello mangiando panelle e crocchè insieme a Fulippu Ogghiu Friutu, la sua fidanzata (che quella sera si rivelò utilissima. Poi spiego perché), Stalin il topolino con guinzaglio e papillon, uno sconosciuto dall’accento bulgaro che dicevano fosse un pittore famoso (a me, da come mangiava le panelle, dette l’impressione di essere un barbone affamato), quattro ragazze svedesi che si denudarono dopo aver bevuto una bottiglia di vino, una folla di punkabbestia con i loro cani, i miei colleghi di facoltà, la comunità LGBT, le attempate del latinoamericano, la redazione del quotidiano con cui Dante avrebbe lavorato e una ragazza bellissima vestita da pierrot che, forse visitata da una musa, si aggrappò a un tratto alla fontana del Gagini[10] e declamò i versi del poeta Antonio Veneziano[11] (non avendo una buona memoria, purtroppo li ho dimenticati). Che versi! Fu davvero una bella serata: sentivo la mia pelle in armonia con l’aria[12]. L’indomani, Dante iniziò la sua carriera di correttore di bozze. Io, invece, mediante la raccomandazione della fidanzata di Fulippu[13], fui introdotto in una sorta di “corsia preferenziale” che mi permise di essere assunto con una sola telefonata[14], cioè senza curriculum e colloquio, da un grande centro commerciale[15]. L’unico problema fu che la ragazza, a causa di una distrazione, dimenticò di comunicare all’ufficio delle risorse umane la mia “natura”, e coloro che si occuparono della raccomandazione, non sapendo chi fossi (o meglio, cosa fossi), mi inserirono nel primo posto disponibile: commessa in un negozietto di intimo femminile. A fine serata del primo devastante giorno di lavoro, avendo venduto soltanto un paio di calzini, le mie colleghe, con una gentilezza tenerissima e degna di ammirazione, decisero di impartirmi delle lezioni di “intimo e marketing”, di cui, fino ad allora, possedevo conoscenze basilari. La paga mia e quella del Sommo erano le stesse: nonostante io vendessi mutande e lui scrivesse elegantissima prosa, ci dissero che avremmo dovuto ricevere al mese una somma che si aggirava sui duecento euro (duecentodieci quando ci andava bene… ma la prima mensilità sarebbe stata pagata dopo sette o dieci mesi), ovviamente senza contributi e con la possibilità di venire licenziati da un momento all’altro (e la Costituzione a che serve?). Mi spiegarono, dopo, che questa situazione era stata provocata della crisi. Dante e io pensavamo fosse colpa nostra. No: pochi giorni dopo si iniziò a discutere sulla cosiddetta “Manovra[16]”.

6. Durante la festa di assunzione di Dante avvenuta al Garraffello, nacque un’amicizia molto interessante. Una nota su quella festa e altro. La carriera del Sommo come correttore di bozze naufragò insieme alla testata giornalistica. Proprio così. Il Poeta collaborò all’attività della redazione per un paio di settimane. E in quel breve periodo, egli fece sì il suo lavoro, e lo fece anche bene, ma in maniera distruttiva: volse i pezzi dall’italiano contemporaneo al volgare fiorentino, mandandoli in stampa senza che nessuno si accorgesse di ciò (mi chiedo: è possibile che la redazione non leggesse il proprio quotidiano? Sì, è possibile). Le vendite crollarono vertiginosamente, perché i lettori non riuscivano a comprendere il contenuto degli articoli, e il quotidiano, che pochi giorni prima aveva firmato un prestito per pagare le bollette e acquistare una nuova macchinettà per il caffè, fu costretto a chiudere. È proprio vero: la lingua è (un’entità?) viva! Forse non muore mai. Forse non è nemmeno nata. È da sempre. O probabilmente, la lingua “è” da quando fu pronunciata per fare il mondo. Ma questi sono discorsi da professoroni con cattedre da cinque mila euro al mese e più (veri intellettuali!), non da venditori di mutande. Tuttavia, Dante ritornò un comune disoccupato, un mangiatore di scatolette e pane duro, frequentatore di mercatini dell’usato. Ripagò le spese della festa impastando, la notte e la mattina presto, la farina di ceci per i panellari con cui era in debito. Ma dicevo di un’amicizia interessante. Quella sera, essendo rimasto solo (Dante era al centro della scena!), mi sedetti sulle scale della fontana dedito alla mia occupazione preferita: osservare la gente. Dopo qualche minuto di contemplazione (ero quasi arrivato al samādhi), venne accanto a me una donna piuttosto… strana, tutta vestita di nero, capelli rasati brizzolati, secchissima e con due occhi infuocati. Aveva voglia di parlare (non so come, ma queste cose si capiscono). Finsi che ella avesse una piuma tra i capelli e chiesi di poterla togliere. Da lì, ebbe inizio il canto di una sirena androgina, ammutolita dalla vita o da un’altra insensibile mostruosità. Fu un canto che mi piacque molto ascoltare, forse perché al suo interno c’erano dei concetti che da tempo volevo incontrare. Ella raccontò di essere una professoressa di matematica in pensione, di origini settentrionali, spostatasi nell’entroterra siciliano per dedicarsi alla pittura. Aveva conosciuto Roman Opałka ed Esther Ferrer, e alcuni suoi lavori erano esposti a New York, Parigi, Londra, Atene e Madrid[17]. E raccontò molto altro ancora, come se non lo avesse mai fatto[18]. Non sapendo dove dormire (era tarda notte), Dante e io decidemmo di ospitarla in casa, da Fulippu Ogghiu Friutu, che fortunatamente si intrattenne in quel periodo alla sede del partito della fidanzata per questioni di intimità. La donna, infine, risedette con noi una settimana, ripagando l’alloggio cucinandoci straordinari piatti padani. Ma sentendosi ugualmente in debito, ci invitò per le vacanze estive nella sua casa di campagna immersa tra i monti Sicani. Non ci pensai a lungo: chiesi le ferie e partii con il Poeta. La donna aveva davvero una bella villetta, disposta su un piano, con camino, in mezzo a due tummini[19] di terreno, acquistata con la retribuzione del TFR (quando la liquidazione ancora esisteva). Tutte le ferie le passai vagando la notte tra le campagne e valutando i dipinti della donna. Le mie uniche conoscenze a riguardo, risalivano agli studi fatti su Raffaello e la lettura di un testo regalatomi dal mio professore di Poetica, “I fondamenti della critica letteraria”, di I. A. Richards. Ritengo che la donna sentisse il bisogno di ricevere delle critiche da chi di arte, semplicemente, non ne capisce nulla. Accadeva questo: lei disponeva le tele in giardino, tra gli aranci e i limoni. Sullo sfondo, una vallata di campi coltivati a grano, che terminava dopo alcuni chilometri a mare. Dalla mattina, alle diciannove in punto, le uniche “armonie” udibili erano le api, le cicale e un trattore. Di fronte ogni quadro, quando ella mi chiedeva di studiarlo, accarezzavo la barbetta sul mento (poiché tale atteggiamento dà un senso di serietà) e ripetevo nella mia mente:
«[…] Nell’analizzare le esperienze delle arti visive, la prima cosa essenziale da fare è di evitare l’uso del verbo “vedere”, il quale trae in inganno per la sua ambiguità. […]»[20],
ed esponevo fino al tramonto della luna (questo il tempo concessomi), delle analisi totalmente folli ed errate, che però suscitavano il riso alla pittrice e a Dante. In fondo, sentirli sorridere era ciò che mi importava. Arrivò il giorno in cui dovemmo lasciare la donna. Preparai un lungo documento di critica e lo inserii in una busta, poggiandolo accanto un quadro. Dante scrisse un poemetto di un centinaio di versi e lo appiccicò con lo scotch sul camino. La pittrice ci preparò per il viaggio della polenta arrostita, e ci regalò alcuni suoi lavori. Ci salutammo sull’uscio di casa. Per strada, notai gli occhi lucidi di Dante (se ne stava in silenzio e sospirava). I poeti sanno.


[1] Il proverbio ci assicura che l’ospite comincia a puzzare dopo tre giorni.
[2] Quando a un siciliano chiedi: «Come va?», la risposta che ricevi è: «Tiramu avanti», o: «Tiramu a campari». Il mio “si tira avanti” è la traduzione in italiano delle proposizioni in dialetto poste sopra, il cui significato potrebbe essere: “non mi lamento”.
[3] Ovvero: “sangue mio”. È un’esclamazione tipicamente palermitana, utilizzata soprattutto dalle donne per esprimere affetto (un affetto estremo, quasi da tragedia greca) nei confronti della persona amata. Significa all’incirca: “colui/colei che amo è come il mio sangue, senza il quale io non sarei viva”. Gli uomini siciliani non si azzardano a usarla, perché li renderebbe “deboli” (la verità è che gli uomini hanno paura dei sentimenti).
[4] Davvero poco. Gli stranieri, e mi attengo a quello che mi hanno raccontato, vorrebbero ritornare al Paese di origine.
[5] A partire dal 2012 ne sapremo di più. E non sarà divertente.
[6] Il titolo era: “Marito fedifrago si difende: è colpa della feniletilamina”.
[7] Cfr. Vita nuova III.
[8] Gli studi sui neuroni specchio, una scoperta tutta italiana (mi si perdoni questo passaggio patriottico -evviva i ricercatori universitari!-. Scusate ancora…), sono in corso. Il modo in cui ne tratto nel racconto è totalmente errato.
[9] La terzina detta “dantesca”, a rima incatenata, presenta questa struttura: a b a, b c b, c d c, ecc.
[10] Costruita dal Gagini alla fine del 1500.
[11] Poeta siciliano (Monreale 1543, Palermo 1593).
[12] Così dissi a Dante quando mi domandò: «Che hai?». In realtà, era una strana sensazione. Simile a quella che si manifesta nei momenti in cui veniamo coccolati dalla note di Chopin o Mozart.
[13] La ragazza fa parte dell’esecutivo di un partito ed è, dunque, molto, molto influente. Abita a Roma e possiede addirittura un portaborse.
[14] Avvenuta la sera stessa dei festeggiamenti. E poi dicono che la politica non sia efficiente.
[15] Preferii non festeggiare. Quell’assunzione non aveva nulla di eccezionale. Fu, anzi, un vincolo: nei prossimi mesi mi sarei dovuto impegnare per portare voti al partito.
[16] Abbiamo ancora le idee poco chiare.
[17] Ma adesso anche a Palermo, nella mia stanza!
[18] Probabilmente, fino a quel momento, aveva tenuto dentro ogni cosa.
[19] Antica unità di misura siciliana. Una tummina di terreno equivale a 2444 metri quadrati. Probabilmente, la misura cambia da terreno a terreno. Questa è l’equivalenza calcolata da un contadino del luogo.
[20] I. A. Richards, I fondamenti della critica letteraria, traduzione di Elio Chinol e Franco Marenco, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 1961, pag. 138.

Dario Orphée