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L'albero della vita, le regole della favola

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La ragazza delle arance
di Jostein Gaarder

TEA, 2004

193 pp.


Il caso cinematografico del 2011, The Tree of Life di Terrence Malick, ha suscitato allo stesso tempo entusiasmi e stroncature, dovuti entrambi all’accostamento di due tipi di narrazione: uno strettamente individuale (la morte di un giovane, e il racconto in forma di flashback della sua infanzia) e uno, per così dire, universale (l’origine della vita, il mondo astronomico, vegetale e animale nella sua sinfonica bellezza). Il trait d’union di queste due narrazioni è la preghiera di una madre che piange il proprio figlio morto, e cerca nel dialogo con un Dio-cosmo la ragione del ciclo di nascita e distruzione. Il film a mio parere è stato una grande occasione mancata, perché a una fotografia stupenda non si è saputo far corrispondere una distribuzione equilibrata delle parti narrative: resta comunque il tentativo di rendere, nella forma di un accorato requiem, l’idea tutta metafisica di una «conversazione» tra il singolo e l’universale, tra il microscopico e l’infinitamente grande.


Si tratta di un tentativo non isolato, specie in ambito letterario: d’altronde, per rifarci almeno a Calvino, un classico (ma mi si conceda la generalizzazione: una buona storia) è «un libro che si configura come equivalente dell'universo, al pari degli antichi talismani».

È un’idea che non dovrebbero dimenticare né il lettore, né lo scrittore. E in alcuni romanzi accade che la questione sia posta con limpidezza cristallina: La ragazza delle arance ne è un ottimo esempio. L’autore del romanzo, il norvegese Jostein Gaarder, è noto al grande pubblico per Il mondo di Sofia, un libro grazie al quale schiere di adolescenti – inclusa la sottoscritta – hanno imparato ad amare la filosofia e considerarla come cosa viva: probabilmente non c’è penna migliore della sua per spiegare a un cuore giovane la fragilità della vita e l’imprevedibilità della morte. Se Terrence Malick ha giocato la carta del requiem, dell’imponente forma sinfonica, Gaarder si muove su un terreno completamente diverso, dimesso e domestico, con una semplicità calda e disarmante. Alla fine dei giochi: vincente.

Georg ha quindici anni quando, nel suo vecchio passeggino in soffitta, viene trovata una lunga lettera scritta dal padre, che è morto molti anni prima lasciando di sé soltanto qualche vaghissimo ricordo d’infanzia, racconti e fotografie. Ci sono dunque due piani temporali: il tempo della lettera e il tempo della lettura. Lo iato è forte, e sottolineato quel tanto da potervi gettare un ponte: Jan Olav si rivolge a suo figlio immaginandolo uomo, cerca di costruire con lui un dialogo paritario, gli pone domande che esigono maturità e che, per effetto collaterale, finiscono proprio per costruirla. La carta vincente di questo romanzo è che lo strumento di crescita è, inaspettato, della favola.

La ragazza delle arance, infatti, è una lunga e bellissima favola d’amore. Con un dorato colpo di prestigio, Olav trascina Georg e noi lettori in una vera e propria quête amorosa. I protagonisti sono quattro: Jan Olav, giovane e folle come una figura ariostesca (Ferraù, non Orlando); la misteriosa ragazza delle arance, oggetto del desiderio e della ricerca, un’Angelica dal viso di scoiattolo; Georg, naturalmente, in quanto destinatario del racconto; e il telescopio spaziale di Hubble. Se un libro è un talismano che riproduce l’universo, infatti, niente di meglio per «mettere in prospettiva» il racconto che un occhio astrale fisso sull’ignoto e sulla favola. Proprio come in certe immagini del film di Malick, soltanto che qui le sequenze sono narrativamente giustificate, ed è tutta un’altra storia.

La lezione più importante che Jan Olav consegna a suo figlio è che la vita è una favola, ma ogni favola ha le sue regole. Nel caso della vita, le regole includono anche l’imponderabile mistero della fine e della finitudine. Mentre Olav scrive, il telescopio di Hubble è lanciato nello spazio. Al momento della lettura di Georg, il telescopio ha già consegnato all’uomo immagini fotografiche dello costellazioni più remote. Un padre malato, terrorizzato dalla prospettiva della morte, lancia al proprio figlio una domanda che spezza il cuore: vale la pena di vivere una favola in tutta la sua meraviglia, sapendo che questa dovrà pur finire? O è meglio non vivere affatto? Dopo un racconto del genere, di una tale rara, luminosa bellezza, la risposta di Georg potrà essere soltanto una.
La vita è una lotteria gigante dove si vedono solo i biglietti vincenti. Tu che stai leggendo sei uno di questi biglietti. Lucky you! 





Laura Ingallinella