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Il "salotto": intervista ad Alberto Mossino

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Grazie Alberto per aver accettato la nostra intervista. Innanzitutto ti rinnoviamo, a nome di tutto lo staff, i complimenti per il traguardo raggiunto con un libro davvero interessante (Clicca qui per leggere la recensione). Essere finalisti al premio Calvino non credo sia da tutti. Cominciamo subito...

In che misura ha inficiato la tua esperienza personale sulla stesura del libro? Ossia quanto di Alberto Mossino è possibile ritrovare nel personaggio di Franco?
Il personaggio di Franco è molto meno autobiografico di quanto si possa pensare. Sicuramente ci sono dei riferimenti a situazioni vissute direttamente (che però non svelerò mai...). Va da sé che occupandomi di immigrazione, tratta e prostituzione da più di 10 anni, molti episodi del romanzo sono ispirati a fatti veramente accaduti, fatti che ho potuto documentare con quella che si potrebbe definire “osservazione partecipata”. Nella vita faccio l'operatore sociale, coordino l'attività di PIAM onlus, un'associazione laica di Asti che offre protezione ed inserimento sociale alle donne che si sottraggono al racket della prostituzione. Franco, il protagonista del romanzo, invece è un allegro puttaniere che tira a campare in modo “leggero”, cioè senza farsi troppe domande e cercando sempre la soluzione più conveniente all'occorrenza.

Sappiamo che la tua compagna, come tu stesso riferisci, è "una bellissima nigeriana". L'idea del libro in che modo è legata a lei? Qual è stato il tuo primo approccio alla "Nigeria italiana"?
Sono sposato da 5 anni con Princess, una bella nigeriana che fa la mediatrice culturale ad Asti. E' stata lei, più di 10 anni fa, ad introdurmi nella comunità dei nigeriani in Italia, a svelarmene i segreti, i luoghi e la cultura. Poi quando ci siamo sposati siamo stati anche più volte in Nigeria, dove ho incontrato un'altra realtà ancora, veramente difficile da descrivere, per certi versi quasi inimmaginabile. Per quanto riguarda l'approccio alla Nigeria italiana, è stato difficoltoso, ho dovuto gradualmente demolire tutte le mie certezze e iniziare a comprendere che esistono altre culture, lontane da nostro eurocentrismo, culture che hanno codifiche e riferimenti completamente diversi dai nostri. Per dirla come Franco: “Mi accorgevo, di racconto in racconto, di confrontarmi con qualcosa che mi era ignoto fino a quel momento… Internet, la televisione, i magazine ed i libri letti non erano serviti a niente, solo ora, che mi trovavo a tu per tu con questa bella ragazza africana, iniziavo a capire che nel mondo esistevano altri mondi che avevano tradizioni, culture, cucine, sapori, gusti e quant’altro, completamente diversi da quelli occidentali.”

La tua scrittura appare frammentata, spontanea e stesa di getto, senza troppi fronzoli e praticamente sempre in discorso indiretto libero. Prima che io inizi a blaterare di modelli joyciani, salingeriani, sveviani o chissàqualealtroautorenovecenteschiani, hai tratto un qualche spunto da autori del passato? Qual è la tua posizione nei confronti di chi ti ha preceduto? Hai qualche preferenza di lettura in particolare?
Quando ho inviato il manoscritto al Premio Calvino, nella lettera di presentazione ho scritto questa frase: “Ho cercato di scrivere questa storia in modo semplice, così come si raccontano le storie al bar o alle cene fra amici.” Ho puntato su uno stile che si avvicinasse il più possibile alla parlata quotidiana fra amici, al modo in cui si pensa e si ragiona fra sé e sé, senza voler imbarcarmi in funanbolismi letterari, cosa che, ammesso ne fossi stato capace, avrebbe rallentato il ritmo della storia. Fra gli scrittori che amo e in qualche modo hanno condizionato il mio modo di scrivere, ci sono sicuramente Simenon, per la limpidezza nella costruzione della frase e Sciascia, per la capacità di raccontare storie serie ed impegnate con una semplicità esemplare. Rimane anche la passione per alcuni autori africani come Emmanuel Dongala, Ken Saro Wiwa, Ahmadou Kourouma e su tutti l'angolano Pepetela autore di “Jaime Bunda, agente segreto”, un autentico capolavoro.

"Quell'africana che non parla neanche bene l'italiano" dà nettamente l'impressione di essere una resina spontanea sgorgata da un albero di tante esperienze. In quanto tempo hai concepito e partorito questo libro?
L'idea di scrivere una storia è di circa 3 o 4 anni fa. Lavorando con gli stranieri, spesso clandestini, incrociavo sovente storie e situazioni paradossali, divertenti, spiazzanti. Mi dispiaceva che tutto questo bagaglio di vissuti ed esperienze andasse perso, così in una sorta di “operazione memoria” ho iniziato a fissarle su carta un po' alla volta. Alla fine mi sono accorto di aver raccolto una bella quantità di materiale interessante, che poteva essere l'ossatura di una storia vera e propria, bastava solo inventarsi un canovaccio e qualche personaggio che surfasse su queste storie. Così ho iniziato a documentarmi, a cercare tutti i riferimenti per rendere il romanzo credibile e sono partito. La stesura definitiva mi ha impegnato per circa 5 mesi.

Come mai hai deciso di terminare il libro privandolo di una "happy end" nel senso tradizionale del termine, cioè con un bel matrimonio e "tutti vissero felici e contenti", come poi sembra essere accaduto nella tua vita personale? Prevedi un seguito per la tua narrazione?
Uno dei miei motti è: “il lieto fine esiste solo nei film americani, nella vita reale quasi sempre le cose non vanno come uno vuole”. In “Quell'africana...” ho tenuto fede questa convinzione, d'altronde nella vita di tutti i giorni, di storie di stranieri e clandestini con l'happy end ne ho viste davvero poche. Alcuni editor di case editrici importanti mi hanno fatto proprio pressioni in questo senso, volevano un bel lieto fine o l'introduzione di un detective che arrestasse tutti. Comunque a me non sembra che manchi il lieto fine, forse non è proprio in linea con la morale comune, però tutti i protagonisti del romanzo alla fine ne escono bene, ognuno a modo suo ha dato una sferzata importante alla propria vita. Per il resto non ci sarà un sequel, questa storia è nata così ed ognuno a modo suo può fantasticare sul proseguo.

Che cosa pensi dello stato attuale dell'integrazione in Italia, anche alla luce dei fatti di Rosarno? Le istituzioni intervengono adeguatamente?
In Italia non esiste un processo di integrazione pianificato e supportato dalle istituzioni politiche. Dal 2003 abbiamo la Bossi-Fini, una legge che limita fortemente i diritti dei migranti, peggiorata ulteriormente dal delirio leghista del pacchetto sicurezza nel 2009. Queste leggi sono l'espressione dell'ignoranza della politica sul fenomeno migratorio e della volontà di controllo ed esclusione su chiunque non sia italiano. Viviamo in un Paese che disciplina i diritti ed i doveri dei cittadini su base etnica, un po' come il Sudafrica ai tempi dell'Aparteid. Se le cose continuano così non ci resta che sperare in un Mandela italiano. Comunque per documentarsi approfonditamente sulle condizioni dei migranti in Italia, consiglio di leggere il libro “Gli africani salveranno l'Italia” di Antonello Mangano, che tra l'altro è anche il mio editore.

A giudicare anche dal tuo precedente libro, nato dall'incontro con il subcomandante Marcos, e che mi auguro di leggere e recensire prossimamente, la tua è essenzialmente una letteratura impegnata. Concordi? I due concetti di letteratura ed impegno sono inscindibili o ammetti eccezioni, con uno sguardo anche al trash-trash quotidiano?
A mio giudizio l'importante è avere una storia che valga la pena di essere raccontata e non scrivere tanto per farlo o per assecondare un editore. Le storie devono essere interessanti, comunicative ma non necessariamente impegnate. Non penso basti essere impegnati per raggiungere un buon risultato, anzi talvolta ci sono autori che si sforzano di essere “profondi” anche se poi alla fine non hanno nulla di interessante da dire. Mi piace la letteratura che prende spunti dal tessuto sociale, ma non disdegno la narrativa pura, quella di evasione e altri generi ancora. Il limite sta proprio nel raccontare qualcosa che alla fine resti nella mente del lettore, magari arricchendolo un pò, in questo senso vedo la differenza fra il trash-trash quotidiano, come lo definisci tu, che insegue le mode del momento ed i conseguenti profitti e la buona letteratura, che non ha bisogno di finire in classifica per essere ritenuta tale. Spero di essere stato esaustivo.

Ci mancherebbe! Grazie per la tua disponibilità, è stato un piacere ospitarti, seppur virtualmente. Arrivederci a presto!

intervista a cura di Adriano Morea