in

Scrittori in Ascolto - Linn Ullmann e il film della memoria

- -



Milano, 29 Ottobre 2013. Un incontro assai denso quello con Linn Ullmann alla sede editoriale di Milano, in occasione dell’uscita del suo nuovo romanzo La ragazza dallo scialle rosso (Guanda,2013). Il titolo originale norvegese è Det dyrebare, termine intraducibile che significa “qualcosa d’inestimabile, che non può assolutamente essere perso”. Ad andare perduta è proprio Mille, la diciannovenne dallo scialle rosso, che scompare misteriosamente durante la festa di compleanno di Jenny, nonna di Alma e Liv, due ragazzine alle quali la giovane faceva da baby sitter. Da questa scomparsa, poi risolta tragicamente con il ritrovamento del corpo due anni dopo (come anche dal party, che si trasforma per l’anziana Jenny, festeggiata contumace, in un’occasione solitaria per riprendere il vizio dell’alcoolismo) partono sequenze di eventi e ricordi: un figlio di Jenny annegato accidentalmente nello stagno vicino a casa, mentre era affidato alla sorella maggiore, Siri, divenuta poi madre di Alma e Liv; la crescita difficile di Alma, i suoi maldestri tentativi di elaborare ciò che è avvenuto prima della sua nascita, ma in qualche modo la riguarda e l'ossessiona; i problemi coniugali di Siri e Jon, scrittore in crisi creativa; le dimore alienate per far fronte alle crescenti difficoltà  economiche; giochi di bambini, laghi, foreste, momenti di panico e dolcezza, luoghi cambiati nel tentativo di domare le inquietudini e ritrovare la creatività – se non fosse che, come scriveva Seneca a Lucilio, «non loci, sed animus mutandus est». La struttura del libro, denso di rimandi interni e di riferimenti rituali e simbolici (come la strana caccia al tesoro alla rovescia, in cui i bambini sotterrano il loro oggetto più caro e prezioso, il loro dyrebare, con la clausola di non cercarlo mai più; o lo scampolo di stoffa che passa di generazione in generazione come “mantello dell’invisibilità”) è ancora più complessa di quanto non appaia in una prima lettura.

Come giustamente è stato rilevato nella prima parte dell’incontro, il libro resiste alle definizioni troppo rigide: non semplice thriller psicologico, né romanzo famigliare in senso stretto (benché vi si incontrino tre generazioni con irrisolti problemi). E proprio dal tema della comunicazione transgenerazionale sono partite le domande all’autrice, che ha risposto in inglese, con garbo e intelligenza, attraverso un’efficiente interprete trilingue.

D. Un tema del libro sembra essere l’incontro-scontro fra generazioni, in particolare per quanto riguarda la difficoltà di comunicazione. Quanto pesa questa problematica generazionale nell’economia del racconto?
R. Volevo scrivere un libro che parlasse di silenzi, di non detti, di segreti e bugie. La scomparsa di una ragazza innesca una catena di ricordi, di storie non solo accadute ma anche raccontate nel corso delle generazioni. I punti di vista si moltiplicano, al punto che non c’è una storia sola: ciascuno ha la propria, anzi è la propria storia.

D.  Carofiglio ha affermato di recente che «scrivere è un corpo a corpo con la parola». Quanto è devastante per lei scrivere?
R. Non dimentichiamo che una delle figure principali, Jon, è uno scrittore in crisi creativa. Da questo fatto molto dipende, sia per lo svolgimento delle vicende, sia per la struttura della narrazione. Mio padre diceva che l’arte è per il 99 per cento disciplina e soltanto per l’un per cento ispirazione. Se non la si esprime, essa diventa persecutoria. Scrivere è un lavoro come un altro: bisogna esercitarlo ogni giorno in maniera sistematica e rigorosa, come si fa con qualunque arte o artigianato. La scrittura, inoltre – lo diceva sempre mio padre – richiede «occhio freddo, cuore caldo e grandi orecchie»: non si scrive scavando dentro se stessi, ma al contrario aprendosi al mondo, ascoltando. Altrimenti si rischia di cadere nel sentimentalismo e nella banalità.


D.  Colpisce la continuità, la fluidità di questa storia, che pure è raccontata da punti di vista multipli. Sembra che la storia si snodi come un nastro, per quanto intricato di anticipazioni e di flashback, e nulla venga tagliato: quasi un “piano sequenza”. Quanto ha influito sulla sua scrittura l’essere nata e cresciuta nel cinema?
R. Moltissimo, né poteva essere diversamente. Quando scrivo penso sempre ai vari aspetti del set: la luce, la voce dei personaggi – me li immagino muoversi nello spazio, parlare – e la posizione della telecamera, del narratore: tanto più che questo libro non è soltanto una storia, è una storia di storie raccontate. Non mi è mai interessata la narrativa tradizionale, perché la vita non va in linea retta, ma procede a scatti, a ondate. Io non penso le mie storie linearmente; le costruisco componendole a mosaico, montandole, proprio come in un film.

D. A questo proposito, sembra molto importante nel libro il rapporto fra tempo e memoria. E per questo bisogna pensare alla fine del libro, che non riferiamo per lasciare un po’ di sorpresa…ma alla fine il libro sembra quasi, raccontando una nuova storia, poter ricominciare.
R. Proprio così: le storie non sono mai lineari, si rinnovano attraverso il racconto d’altri. Il tempo influenza la memoria, seleziona alcuni episodi e ne ingigantisce altri: d’altra parte, la memoria cambia il tempo, lo fa sembrare più o meno lontano. Il libro è tutto costruito su questa relazione.

D. Episodi simili a quelli di questo libro si trovano anche in un suo libro precedente: il mantello dell’invisibilità e la madre che spinge i bambini a stare all’aria aperta per almeno due ore al giorno. Che significato hanno questi episodi, dato che sono ripetuti?
R. Il time out si riferisce a un ricordo d’infanzia: ero spesso affidata a mia zia, quando i miei genitori erano completamente assorbiti dal lavoro sul set. L’abitudine norvegese, che mia zia faceva propria,era quella di tenere i bambini all’aria aperta da mezzogiorno alle due, come Alma e il fratellino. Non ho ricordi spaventosi legati a questo fatto, a parte la difficoltà di orientarmi nel tempo quando non sapevo ancora leggere le ore; certo, in entrambi i libri questo comportamento degli adulti finisce per avere conseguenze drammatiche sui bambini. Ma l’arte della scrittura è proprio questo: prendere ricordi personali per trasformarli in qualcosa di completamente diverso, che non appartiene più soltanto a noi. Anche il gioco del seppellimento del tesoro nasce da un ricordo infantile. Sull’invisibilità, poi, posso dire che è sempre stato un mio desiderio molto forte quello di vedere senza essere vista…e lo è ancora!

D. C’è una grande attenzione all’adolescenza, all’età incompiuta.
R. L’adolescenza è un esempio, ma non è l’unico. Conosco persone di ogni età e nessuna è totalmente risolta, neppure da adulta. Viviamo nell’incompiutezza. Non mi interessa scrivere storie di cose perfettamente riuscite, di persone completamente sagge (e neppure l’opposto, che è altrettanto poco reale). I protagonisti di questo libro non sono né eroi né malvagi: non lo è neppure il protagonista maschile più importante, Jon, pur con tutte le sue debolezze. Il matrimonio fra lui e Siri non è perfetto: è un amore incrinato da screzi, inganni e bugie, ma ha anche momenti di dolcezza. La vita è fatta così, come la memoria: non è lineare.

D. I suoi romanzi sono sapientemente costruiti. Qual è il rapporto fra mente e cuore, per uno scrittore? 
R. Non esistono barriere fra mente e cuore. Chi scrive deve essere capace di molta empatia, che significa disponibilità verso il mondo e comprensione per gli altri (il "cuore", per così dire), ma nello stesso tempo coltivare una certa freddezza di sguardo, per poter osservare lucidamente tutto questo e raccontarlo (la "mente"). Occhio freddo e cuore caldo, come dicevo prima. Senza lucidità non c’è scrittura e forse neppure empatia, c’è soltanto un intimismo banale, che non mi interessa. 

D. Che rapporto ha il titolo originale con la traduzione italiana?
R. Posto che non esiste una parola paragonabile al titolo norvegese (la parola “tesoro”, per ovvie ragioni letterarie, non è utilizzabile) abbiamo pensato a questa perifrasi per indicare Mille, la ragazza scomparsa, uccisa e ritrovata morta due anni dopo. Mille non scompare una, ma parecchie volte: tutti vogliono da lei qualcosa che non è, a partire dalla madre, che le scattava fotografie in cui sognava una bambina forse diversa. Eppure questo personaggio, apparentemente poco presente, è importantissimo perché fa da “domino”. A partire dalla sua scomparsa - a volte casualmente, a volte come conseguenza diretta - ciascuno estremizza un particolare lato di sé, che può essere anche il lato più oscuro. E questo, in qualche modo, catalizza la narrazione.

D. Un libro in cui conta molto la scomparsa, la perdita, dunque.
R. Volevo scrivere un libro che parlasse anche di questo. Come si fa ad andare avanti quando è accaduto l’irreparabile? Come ci si può perdonare quando abbiamo perso il dyrebare? Più che il perdono, forse, conta l’espiazione. Vivere nelle incrinature, con la memoria che continuamente dà alle cose un senso diverso da prima. Le scompone e ricompone, in maniera mai uguale a se stessa. Le trasforma e le fa ritornare.