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Il dolore della memoria e le ferite di chi resta ne "La ragazza di luce" di Germano Antonucci

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La ragazza di luce
di Germano Antonucci
TerraRossa Edizioni, ottobre 2025

pp. 200
€ 16,00 (cartaceo)

«[…] i morti hanno sempre torto, tutti, sempre. Ma oltre ai morti c’è dell’altro. Non saprebbe descriverlo con una parola esatta. Ha a che fare con il senso di colpa. E lui lo sente benissimo: il senso di colpa di chi è rimasto vivo». (p. 37)

Con questa riflessione si potrebbe sintetizzare il nucleo narrativo de La ragazza di luce, esordio di Germano Antonucci, in uscita per TerraRossa Edizioni. Dopo l’esperienza da finalista al Premio Calvino Racconti 2024, l’autore si misura con un romanzo che mette al centro l’elaborazione del lutto e la difficoltà di crescere in un contesto segnato da una tragedia collettiva. Il paese immaginario di Lume, tre anni dopo la Catastrofe  una frana che ha spazzato via la maggior parte delle case  diventa il palcoscenico di una storia che alterna mistero e formazione. Gli abitanti vivono oggi in prefabbricati raccolti nel Quartiere Primavera, mentre la zona delle “Case Morte” è recintata e interdetta. È dalla cima del monte, nel punto in cui sorge la Croce, che nella notte del crollo qualcuno ha visto una luce intensa, interpretata da molti come l’apparizione di una figura femminile: “la ragazza di luce”. Ogni anno, durante la Commemorazione, il paese si riunisce per ricordare i nomi delle vittime e degli scomparsi, mantenendo viva la ferita.

Il romanzo segue tre tredicenni – Nina, Ruben e Niccolò – in una trama che all’inizio ricorda le atmosfere investigative di Super 8: sopralluoghi, indizi, sospetti, esplorazioni proibite. Tuttavia, più che la scoperta di una verità, ciò che emerge è il modo in cui questi ragazzi affrontano il dolore. Nina e Ruben, in particolare, rifiutano l’idea di dover accettare il destino imposto dagli adulti, «non volersi rassegnare a ciò che credono gli altri del loro dolore» (p. 65). Niccolò resta invece più marginale, compagno di avventure ma meno delineato sul piano interiore. Accanto a loro prende forma un mosaico di figure secondarie, ciascuna portatrice di un tassello della vicenda: la madre di Nina, soprannominata la strega, lo zio Ettore, il comandante Secca, il Santo, Rocco, Riccardo, la piccola Lucille e sua madre; ognuno conserva tratti distintivi e una funzione narrativa precisa. Lume appare così come un “puzzle di vite”, dove il trauma collettivo si intreccia a microstorie quotidiane. Non emerge l’immagine di un luogo fantastico, ma quella concreta di un paesino dell’Italia centrale, simile a quelli dell’Abruzzo o dell’Umbria, con le feste di paese, l’arrivo delle giostre, i sogni di fuga verso mete lontane, come «Il ponte di Brooklyn. La cima dell’Everest. Il deserto del Sahara. Parigi» (p. 155).

Dal punto di vista stilistico, Antonucci costruisce un intreccio solido, con capitoli brevi che mantengono il ritmo costante e lasciano spazio a momenti di sospensione. Flashback rapidi, segnalati dal corsivo, offrono spaccati del passato senza interrompere il flusso narrativo. In apertura di molti capitoli l’autore indugia sull’ambiente: descrizioni di monti, alberi, colori delle case, giochi di luce che attraversano la natura. Non appaiono come semplici riempitivi o meri abbellimenti: sono immagini curate che rafforzano il motivo centrale del romanzo, la luce come elemento che unisce perdita e possibilità di rinascita.

Il dolore, più ancora della morte, è il tema che attraversa la vicenda. Non tanto l’assenza dei defunti, quanto l'eredità che grava su chi sopravvive: 

«Ma come si fa? I morti non si possono più salvare. Sono solo fantasmi cattivi che lasciano i vivi a soffrire il peso del poco che resta». (p. 53)

In questo senso il libro di Antonucci dialoga idealmente con La vita di chi resta di Matteo B. Bianchi, dove al centro non c’è il momento della perdita, ma la capacità di chi resta di convivere con un’assenza che non si colma. La crescita coincide con la consapevolezza che non tutto può essere compreso o risolto, anzi «ci stanno cose che non dobbiamo capire per forza. Le dobbiamo accettare e basta» (p. 167).

Quello che colpisce di più, arrivando all’ultima pagina, è la capacità del romanzo di rivolgersi a chiunque abbia conosciuto l'esperienza della mancanza, restituendo la fragilità ma anche la forza di chi continua a vivere. Non è soltanto la storia di Nina, Ruben e Niccolò, ma il ritratto di chi cerca di non farsi schiacciare dal peso del ricordo, mentre la vita quotidiana procede con le sue piccole abitudini e le aspirazioni che guardano oltre i confini. In questo equilibrio tra dolore e desiderio di futuro si coglie forse il cuore del libro: la consapevolezza che il male non svanisce mai del tutto, perché serpeggia silenzioso, pronto a riemergere quando viene evocato o inseguito. È una presenza che non si dissolve, ma si deposita nell'animo e ristagna: 

«Ha capito che a volere troppo il male, poi quello ti rimane appiccicato addosso e non va più via». (p. 191)

Leonardo D'Isanto