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L'adolescenza crudele di "Gap", romanzo Neo. firmato Placido Di Stefano

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GAP
di Placido Di Stefano
Neo., maggio 2025

pp. 240
€ 17 (cartaceo)
€ 7,99 (ebook)

Sono preso male. Preso male vuole dire tante cose, lo so, ma in questo caso vuol dire proprio quella cosa lì, tipo che sento una stretta qua, nello stomaco, e faccio fatica a respirare, eccetera. Forse per ripigliarmi devo fare come il Moro, estraniarmi e pensare a altro o pensare di essere altro, altrove. (p. 10)
È interessante capire come ci fanno stare i libri, mentre li leggiamo e una volta abbandonati, e non saprei stabilire quanto Gap di Placido Di Stefano mi abbia svuotato, incupito, persino irritato: allora inizio da come abbia richiamato in me due testi, uno recente, l'altro no. 

Gap ha qualcosa a che fare con Tender di Federico Riccardo (Edizioni Effetto, 2024), per l'atmosfera un po' trasognata e paranoica, la deriva a cui i personaggi vanno incontro (quello che compiono somiglia a un movimento autolesionista e magnetico, inevitabile). 

In Gap risuona anche A scanner darkly di Philip Dick (1979), a causa forse del consumo di sostanze alteranti e delle distorsioni che comportano; e poi per la doppia vita a cui i personaggi si espongono.

Conviene andare con ordine.

Gap racconta un sedicenne che somiglia a un attore morto e porta il nome di Dostoevskij per scelta della madre, morta anche lei. Fedor abita in una zona appartata di Milano ed è amico del Moro, impegnato, tra sperimentazioni e copioni estenuanti, a mettere su un cortometraggio che deve dimostrare la sua consacrazione al cinema. 
Per farla breve, tutto parte dal prof di multimediali. Come compito per le vacanze estive ha chiesto al Moro e ai suoi compagni di creare un corto o un videoclip, insomma un filmato, possibilmente con un plot, di una durata variabile dai tre ai cinque minuti, e il Moro questa cosa l'ha presa sul serio, molto sul serio, voglio dire, l'ha colta come un'opportunità per darsi anima e corpo a quella che per lui è un'ossessione. (pp. 11-12)
Fedor ha bisogno di soldi per il Fentanyl: ne è ormai dipendente.
Il problema dei soldi. La questione dei soldi, vale a dire la mancanza di soldi, è un'altra di quelle cose che mi fanno prendere a male, mi fanno venire l'ansia, mi tolgono letteralmente il respiro. (p. 13) 

Uno sconosciuto gli offre una soluzione istantanea: entrare in un giro di incontri, gestito da uomini benestanti a caccia di giovani con cui lasciarsi andare insieme, evadere. Questi adulti si travestono, mutano la voce, inscenano situazioni grottesche – diventano ciò che non possono essere – e chiedono a ragazzi come Fedor di reggere il gioco, alimentarlo, prendere iniziative.

Lo/la fisso e vedo lui/lei frantumarsi, davvero, come se la sua faccia si stesse disgregando mentre rompe gli argini, trema, si lascia andare a un pianto convulso che lo scuote, lo abbatte fin quasi allo sfinimento. (p. 70) 

A questo proposito, e dando spazio a un'altra similitudine cinematografica, si riscontra più di un aspetto in comune tra l'uomo del primo incontro e Frank, criminale perverso, macabro e imprevedibile di Velluto Blu (David Lynch, 1986) che, al cospetto di Isabella Rossellini tremava, guaiva, strisciava. Traslocava in qualcuno che non era lui.

Come Fedor, che si trasforma. Incontra quegli uomini come se quello non fosse lui.  

Mi piazzo nella vita chiusa, però al lato opposto rispetto a dove stanno gli altri ragazzi, e mi elevo da me stesso e lassù, nel mio immaginario altrove, provo a crearmi un alter ego, un Fedor due. (p.65)   

Anche il Moro vuole essere un'altra persona, di certo un grande regista, parla come Oliver Stone, filma alla maniera di Von Trier. E filtra tutto attraverso scene già viste nei film: il cinema è tuffo nell'illusione, nell'artificioso, per scappare da una realtà scadente, per dirla alla Schisa (È stata la mano di Dio, Sorrentino, 2021), una realtà che riguarda giovani e anche adulti.

Il Moro, quando ci troviamo in situazioni particolari, nelle quali non ci sentiamo a nostro agio o che facciamo fatica a capire, dice di attizzare i sensi e provare a pensare in quali film abbiamo visto quella stessa situazione e ricordarci come hanno reagito i personaggi, cosa prevedeva la drammaturgia. (p. 22) 

Cosa si deve dire di Gap?

Credo che questo sia un libro spaventoso. Nel senso che ci porta in un piano di realtà che mette i brividi, e suggerisce la necessità di cercare sfogo in vite alternative. Di Stefano mostra con potenza e ottima cifra stilistica un'adolescenza senza sbocchi, ne coglie i tratti stagnanti, inespressi: l'adolescenza è una faccenda crudele. Senza morale, regole. E l'autore la mette in connessione col mezzo di evasione cinema, elemento concreto e simbolico del testo (in Gap recitano tutti, al di là della situazione in cui sono impegnati, come visto).

Ma esiste una via d'uscita per ragazzi come Fedor, orfano di una periferia al collasso? 

Forse Fedor la trova in Selene, ragazza coinvolta nelle riprese e subito etichettata come un'altra, anche lei, Juliette Lewis di Natural born killers (Oliver Stone, 1994). C'è ancora un po' di margine di umanità.

E' stato quando ci siamo sdraiati sull'erba che ci siamo presi per mano, ma è stata una cosa graduale, non immediata, un gesto che ha implicato una certa sofferenza: cioè, mi sono trovato lì con le mie dita vicino alle sue, e non mi decidevo ad avvicinarle fino ad arrivare al punto di contatto, una situazione straniante, alla Wes Anderson. (p.104)   

Analizzando infine Gap tecnicamente, si segnala un montaggio che alterna flussi di pensieri, ricordi, estratti di sceneggiature realizzate dal Moro. Questa scelta è efficace e rende Gap dinamico, mutevole e straniante, contribuendo a quelle sensazioni scombussolanti di cui si parlava in apertura.

Daniele Scalese