"Non c'è vicinanza senza distanza, non c'è scrittura senza lettura": parlando di Grazia Deledda con Veronica Galletta

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La madre
di Grazia Deledda

Prefazione di Veronica Galletta
Postfazione di D.H. Lawrence

pp. 160

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Nel centocinquantesimo anniversario della nascita di Grazia Deledda, il modo migliore di ricordarla è senza dubbio riportare in libreria le sue opere, da sempre tramandate grazie a editori indipendenti e attenti al valore letterario delle loro pubblicazioni; tra questi c'è Polidoro Editore, che ha pubblicato una curatissima edizione di
La madre (che avevamo recensito in passato per il progetto #paginedigrazia) proprio in occasione dell'anniversario. Nel volume, il romanzo è corredato da due pregevoli paratesti di due scrittori, Veronica Galletta e D.H. Lawrence, che aprono e chiudono il romanzo instaurando un dialogo che li vede nel doppio ruolo di scrittori e lettori, accomunati dallo stesso godimento nel leggere un'opera letteraria. Di confini tra scrittura e lettura, tra mare e terra, tra amore e rifiuto, abbiamo parlato con Veronica Galletta, autrice di Le isole di Norman (qui la recensione).

1) Scrittori che parlano di scrittori: l’opera di Grazia Deledda in quest’edizione speciale per il centocinquantesimo anniversario della nascita della scrittrice viene presentata assieme alla voce di due scrittori di due epoche diverse, che tendono un ponte tra il tempo di Deledda e il nostro. Tu dalla contemporaneità hai scritto una nuova prefazione inedita, mentre alla conclusione del romanzo troviamo la postfazione di D.H. Lawrence del 1928, che nella tua prefazione citi e commenti, in un dialogo che attraversa i secoli. Sempre più spesso vengono scelti paratesti di scrittori, anziché di accademici, allo scopo di presentare i classici nella loro forma originale, vivace e tagliente, come romanzi splendidi e non solo come oggetto di studio; in che modo tu, da scrittrice, hai percepito il tuo contributo nel presentare l’opera? 

Mi sono posta da lettrice, e questo è il primo punto. Nonostante io avessi letto diverse cose di Grazia Deledda, La madre mi mancava, e da lettrice, da lettrice pura che cerca di mantenere intatto lo stupore quando apre un libro, quando si approccia a un testo, ho gioito. È stato per me un mondo completamente nuovo, nel quale sono entrata senza chiedermi altro, solo leggere. Poi l’ho riletto una seconda volta, per prendermi degli appunti, e cercare di capire che taglio dare. Ma la prima lettura è quella, di chi si chiude in camera (io leggo prevalentemente a letto), apre un libro e dice addio mondo: ci rivediamo fra alcune ore. Una volta letto il romanzo (un romanzo scuro e luminoso come questo poi), è chiaro che vorresti parlarne con tutti, anche con D.H. Lawrence, e quindi mi è venuta naturale la forma del dialogo, diciamo così.

2) Grazia Deledda, centocinquant’anni dalla nascita; La madre, centun anni dalla prima pubblicazione. Se, come dice D.H. Lawrence, “sopportare il ricordo di emozioni risalenti a quindici o vent’anni fa è difficile”, mettendo a confronto la troppa pesantezza della letteratura a lui contemporanea e la distillata freddezza dei classici dell’Ottocento come Dickens e Austen, si può dire che la Deledda non sia mai diventata un classico, rimanendo – purtroppo – spesso fuori dai programmi scolastici e in alcuni casi anche dalle librerie. Questo, secondo te, ci consente di apprezzarla di più in quanto la leggiamo senza alcun pregiudizio, o è piuttosto un ostacolo alla fruizione di una delle più importanti scrittrici del Novecento italiano?

Essere letti poco non è mai un bene, e non fa un buon servizio a una scrittrice che è stata rivoluzionaria per moltissime cose, basti pensare alla maestria anche di romanzi non sardi, come L’argine, o a Cosima, la sua autobiografia (una autobiografia in terza persona, quanta modernità!). D’altro canto mi rendo conto dei rischi di certe letture scolastiche imposte, basti pensare a I promessi sposi, e che effetto claustrofobico ha avuto su decenni di studenti. Io, che lo lessi prima di iniziare il liceo (su proposta di mio padre), per fortuna ne ho un ricordo diverso. Quindi, in sintesi, non so cosa rispondere a una domanda del genere. Su Grazia Deledda però mi sono fatta un’idea: ha il dono di far sembrare naturale ciò che naturale non è, e questo forse, dico forse, viene scambiato a volte per poca complessità, quando è esattamente il suo contrario.

3) Dentro e fuori, paesaggi e psicologie, mondo reale e mondo specchiato; in Grazia Deledda ogni riga è carica di moltissimi significati, e nello spazio limitato di un romanzo non lunghissimo, il lettore viene messo di fronte a una vera e propria grandine di senso in cui ogni dettaglio ha molteplici interpretazioni. Le descrizioni dell’aspetto fisico dei personaggi si mescolano a quelle psicologiche e al paesaggio che li circonda, in continui “correlativi oggettivi”, come li definisci nella tua prefazione. Da scrittrice, quant’è difficile raggiungere questo tipo di concentrazione semantica, secondo te? Ci sono alcuni tra gli scrittori contemporanei italiani in cui ritrovi questa stessa virtù?

Quanto sia difficile non lo so, ho un rapporto con la mia scrittura in qualche modo primitivo, un modo che cerco di conservare, per riuscire ad aprirmi meglio quando serve, per attingere a pozze che non conosco fino in fondo. Io e la scrittura ci tocchiamo quando c’è da lavorare insieme, ma poi restiamo ognuno al posto suo. E anche a citare scrittori, è sempre enorme l’insieme di chi lasci fuori rispetto a quello che decidi di citare. Ti rispondo allora con il primo nome che mi viene in mente. Se dovessi dire qualcuno in cui riconosco questo travaso continuo fra mondo interiore e realtà che ci circonda, con una lettura sempre originale, mi viene in mente Elisa Casseri, ma forse perché ha un meccanismo che mi è in qualche modo affine per formazione culturale.

4) Anche nel tuo primo romanzo, Le isole di Norman, la figura della madre era centrale, così come lo era l’ambientazione insulare, su cui ha luogo quasi tutta la produzione deleddiana; una dimensione che anche tu, nata in Sicilia e cresciuta in Sardegna, conosci bene. In che modo nell’opera di Deledda si ritrova una dimensione insulare anche metaforica che parla anche a noi contemporanei, per cui l’amore è sempre mescolato alla distanza, alla difesa, alla necessità di imporre paletti e demarcazioni?

Una domanda difficilissima, a cui non mi sento di rispondere. È decisamente un affare da critici, più che da scrittori. Però posso lasciare qui, in conclusione, un appunto, una cosa minima che ho notato, e che in qualche modo credo riguardi gli insulari che decidono di parlare della propria terra in un certo modo, ed è un appunto che riguarda la distanza. Credo che io non avrei mai potuto scrivere Le isole di Norman se fossi rimasta in Sicilia, e Grazia Deledda, nel 1920, quando scrisse La madre, abitava a Roma da vent’anni. I paesaggi che descrive, quella precisione brillante con cui tratteggia i dirupi e le montagne, sono il frutto delle sue osservazioni di bambina. Tutto il resto, quel complesso meccanismo di vicinanza e distanza, di amore e rifiuto, che percepiamo declinato in tutto il romanzo, è forse il frutto di chi vive lontano, come affacciato a una finestra che sa di non potere più scavalcare.

Intervista a cura di Marta Olivi
Si ringraziano Veronica Galletta e la casa editrice Polidoro
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