In Giappone, tra spettri (yōkai) e divinità locali (kami) con Lafcadio Hearn e Benjamin Lacombe: alla scoperta di "un senso del tragico inscindibile dalla speranza"

 

Storie di fantasmi del Giappone
testi di Lafcadio Hearn
illustrazioni di Benjamin Lacombe
traduzione di Ottavio Fatica e Margherita Botto
L’ippocampo, 2021

pp. 192
€ 25,00 (cartaceo)


Spiriti & creature del Giappone
testi di Lafcadio Hearn
illustrazioni di Benjamin Lacombe
traduzione di Ottavio Fatica e Margherita Botto
L’ippocampo, 2021

pp. 172
€ 25,00 (cartaceo)


Se c’è una parola che ben si presta a esprimere in estrema sintesi la cifra esistenziale di un personaggio come quello di Patrick Lafcadio Hearn (1850-1904), questa parola è la parola “straniamento”. Come definire altrimenti lo stato d’animo che evidentemente accompagnò per tutta la vita questa singolare figura di giornalista, scrittore e traduttore che subito sperimentò l’assenza di radici data dalla condizione di orfano, dal rifiuto da parte della famiglia e dai continui trasferimenti che dall’Irlanda lo condussero in Inghilterra, in Francia, negli Stati Uniti e infine in Giappone, dove per la prima volta, e più forestiero che mai, si sentì finalmente a casa? Sotto quale altra stella illuminare il cammino di questo irregolare in piena regola, fuori posto persino in materia di istituto matrimoniale, dal momento che dopo le prime nozze americane del 1874 con una donna meticcia (unione illegale, che gli costò l’impiego di reporter per conto dell’«Enquirer» e il passaggio al concorrente «Cincinnati Commercial»), nel 1896 prese in sposa la figlia di un samurai, convertendosi al buddhismo e assumendo nel contempo un nuovo nome (Koizumi Yakumo) e una nuova cittadinanza? E che dire, poi, di quel suo problema alla vista dato dalla perdita precoce di un occhio (aveva appena sedici anni), che al posto di menomarlo gli valse una percezione raddoppiata, una rara capacità di osservare dentro e fuori di sé che lo rese un raffinato intenditore di una tradizione e di una cultura folkloristica che non erano le sue?

Oggigiorno popolare e omaggiato dalla letteratura, dal fumetto, dal cinema e dalla televisione, Lafcadio Hearn non aveva probabilmente previsto il futuro successo degli scritti in cui, negli anni del definitivo soggiorno giapponese in cui fu anche nominato professore all’Università di Waseda, raccolse con cura e rispetto un patrimonio a lui del tutto sconosciuto di storie, leggende e miti dell’Estremo Oriente. E sì che aveva agito proprio con lo spirito documentaristico di chi percepisce l’imminente scomparsa di quanto sta trasponendo in parole, e dunque con l’intenzione di tramandare ai contemporanei e ai posteri la testimonianza di un mondo che da pochi decenni appena era entrato in contatto diretto con i partner europei e americani. Ma poco importa: l’eredità delle sue opere, già conosciute in Italia tramite il lavoro di Ottavio Fatica per Adelphi, rivive oggi ancora una volta in una coppia di volumi recentemente edita da L’ippocampo – Storie di fantasmi del Giappone e Spiriti & creature del Giappone – in cui quelle stesse prose, evocative di atmosfere e credenze lontane, di spettri (yōkai) e divinità locali (kami), figurano mirabilmente accompagnate dalle illustrazioni di Benjamin Lacombe, uno dei più importanti illustratori francesi viventi.

Pubblicati nell’anno in corso a distanza di qualche mese l’uno dall’altro, questi due volumi, così dialoganti tra loro e risultanti come un vero e proprio dittico, alleggeriscono nella resa finale quella che sarebbe stata l’eventuale pesantezza di un unico tomo. Precedute rispettivamente da un’introduzione di Francis Lacassin e da una prefazione di Matthias Hayek, entrambe le raccolte conducono il lettore occidentale all’interno di un mondo in cui la razionalità e la logica non dominano l’orizzonte, e in cui il rapporto con l’elemento naturale e sovrannaturale è una convivenza e un’evidenza di fatto che si perpetua nel rispetto di norme, regole e ritualità millenarie; un mondo in cui la paura da parte degli esseri umani, quando c’è, non è data dalla consapevolezza in sé dell’alterità, ma dall’eventuale trasgressione di una legge che la riguarda o dalla provocazione volontaria o involontaria di una reazione ostile da parte di un’entità benigna non meno che maligna. Scrive bene Francis Lacassin in apertura del primo volume:

«in un paese dove l’abbigliamento e le consuetudini, l’arte e le tradizioni, l’arredamento e i fiori creano a ogni istante e a ogni passo una festa dei colori e un’atmosfera magica, il fantastico è da sempre di casa, dispensato da quelle irruzioni e brusche incrinature che sgomentano la ragione nelle società occidentali. Quando il fantastico impregna in modo così profondo la vita giapponese, il soprannaturale da cui emana è solo una delle sorprese che la natura riserva all’uomo. Il fantastico è troppo vicino ai giapponesi perché si preoccupino del cerimoniale misterioso e insidioso destinato a intimidire gli occidentali e a condizionare immaginazioni troppo cartesiane. La morte stessa si è spogliata dei sinistri e spaventosi ornamenti di cui si riveste in Occidente per trasformarsi in un intercessore familiare disposto a socchiudere volentieri, e in entrambe le direzioni, le porte dell’aldilà» (p. 10).

Se dunque, come si è detto, le storie e le leggende amorevolmente censite da Lafcadio Hearn non rappresentano in sé una novità editoriale, ciò che in questo caso le propone in una chiave nuova e accattivante è la snellezza di formato dei singoli libri in cui sono state raccolte e la presenza, al loro interno, delle illustrazioni di Lacombe, che fin dalle rispettive copertine rigide finemente lavorate si annunciano in tutto il loro protagonismo. Così, mentre già l’impaginazione ricorda in qualche modo la consuetudine calligrafica giapponese (l’ampiezza dei quattro margini indirizza difatti il flusso di testo in una stretta colonna centrale, di modo che ampio spazio bianco sia lasciato libero per i capolettera decorati o eventuali disegni), la maestria tecnica e la sensibilità dell’artista francese hanno modo di farsi apprezzare non solo nelle tavole colorate a tutta pagina (singola o doppia, talvolta esaltata da giochi di sovrapposizioni con fogli di carta opaca) ma anche nei frontespizi che annunciano le varie storie, in cui un cartiglio con ideogrammi e caratteri latini appare sempre incastonato all’interno di uno sfondo il cui fitto pattern rivela un’attinenza esplicita con l’argomento della vicenda in questione; difficile non venire conquistati da quella che fin dal primo sguardo si impone come una colonna visiva di carattere, capace di farsi riconoscere pur nel rispetto del dettato e nell’omaggio esplicito alla tradizione artistica giapponese. Nota Matthias Hayek nel suo contributo incluso nel secondo volume:

«l’apparenza degli yōkai quali noi ce li rappresentiamo forse non è altro che un’illusione, prodotta in parte da generazioni di artisti. Lacombe, che qui ci dà la sua interpretazione della “cultura degli yōkai” del Giappone, s’iscrive pertanto in una lunga tradizione, a partire dagli autori dei “dipinti su rotolo” (emaki) del Medioevo (XIII-XVI secolo) fino a Mizuki Shigeru (1922-2015), passando per gli artisti del periodo Edo (1603-1868), quali Toriyama Sekien (1712-1788) o Utagawa Kuniyoshi (1798-1861) e i suoi discepoli. Tutti, a modo loro, hanno contribuito a forgiare l’immagine dei non umani giapponesi, integrandoli nel proprio universo artistico. Il disegno di Benjamin Lacombe ci trasporta in un mondo colorato e onirico, dove gli yōkai di Hearn s’inseriscono a pieno titolo» (p. 15).

Come se Lacombe, insomma, replicasse l’approccio di Hearn nel suo farsi tramite di una cultura non propria ma assorbita e assimilata per immersione progressiva, con una dinamica ben espressa anche dalle citazioni epigrafe “meditative” apposte in qualità di prologo e di epilogo in ciascuna delle raccolte, tratte da testi di Ambrose Bierce («Fantasma. Segno esteriore e visibile di un’intima paura», Il dizionario del diavolo, 1906), Guy de Maupassant («Quando restiamo a lungo soli popoliamo il vuoto di fantasmi», L’Horla, 1887), Victor Hugo («L’avvenire, fantasma a mani vuote, che tutto promette e nulla ha») e, non da ultimo, da un esaustivo proverbio orientale: «La vita è un sonno e la morte è il tempo del risveglio, e l’uomo cammina tra l’uno e l’altro come un fantasma».

Perfetta per bambini, adolescenti, giovani adulti e adulti, questa coppia di volumi ha tutte le caratteristiche per piacere a ogni fascia d’età purché si apprezzino le storie illustrate, si abbia interesse (dalla vaga curiosità al radicale fanatismo) per il Giappone e si sia ben disposti a superare il prevedibile gap linguistico e culturale consultando le note in coda; purché insomma, e in ultima analisi, ci si senta di condividere in qualche modo l’atteggiamento dello stesso Lafcadio Hearn, il cui amore per un mondo che non corrispondeva al suo di origine ebbe modo di nascere e crescere in circostanze eccezionali, che finirono per trasformare in inclusione e appartenenza l’iniziale e totale estraneità. Forse, se davvero esiste un modo maturo e coinvolgente per sfogliare queste pagine – e di certo un approccio che vada oltre la fascinazione tutta esteriore e superficiale per un patrimonio folkloristico come quello nipponico – questo consiste proprio nell’immedesimazione con l’autore. Sebbene la sua vicenda biografia rappresenti un unicum degno di trattazioni e trasposizioni artistiche a sé, tutti noi, presto o tardi e a vario grado e livello, ci siamo sentiti come lui, ovvero soli, abbandonati, incompresi, marginalizzati e rifiutati dal nostro contesto; al punto da trovare più compagnia, accoglienza, empatia, coinvolgimento e accettazione in qualcosa di radicalmente altro, e che proprio nella sua diversità è riuscito a valorizzare la nostra. Tenendo a mente questo dato, anche gli animi più suggestionabili capiranno che tra queste pagine non c’è davvero fantasma, spirito e creatura che possa nuocere più della cattiveria umana, e anche il lettore più in crisi avrà scoperto un nuovo personaggio di riferimento a cui ispirarsi per fronteggiare con auspicabile successo i propri spettri.
 
Cecilia Mariani