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Profeti in Patria. Bernardo Atxaga e le storie di Obaba: "Obabakoak"

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Obabakoak
di Bernardo Atxaga
traduzione di Sonia Piloto Di Castri
21 Lettere, 2020

pp. 400
€ 19 (cartaceo)
€ 9,49 (ebook)



Con colpevole ritardo e pungolata dalla notizia della serie tv HBO - già uscita in Spagna a fine settembre 2020, ma ancora senza data di programmazione per l’Italia - avevo finalmente spuntato dalla lista dei libri da leggere Patria di Ferdinando Aramburu. 

Pubblicato nel 2016 da Guanda e subito divenuto caso letterario (ne abbiamo parlato qui), Patria racconta la storia di due famiglie amiche, poi divise, in una cittadina basca dove l’ETA, l’organizzazione dei separatisti, sta attaccando duramente il Paese con una serie di attentati. Un intreccio trascinante di vicende personali e politiche che ha il pregio di ribaltare e mettere in discussione ogni nozione di giusto e sbagliato. 

Con ogni probabilità non avrei badato al fatto che la casa editrice 21 Lettere  - piccola realtà modenese nata da poco ma dai titoli molto interessanti - avesse appena pubblicato Obabakoak, raccolta di racconti di Bernardo Atxaga, se non fosse che il profilo di questo scrittore, considerato il maggior scrittore basco vivente, ricorda moltissimo un personaggio di Patria, Gorka, il sensibile fratello letterato di Joxe Mari e Arantxa. 

La letteratura è fatta (anche) di fili di narrazione immaginaria che vanno da un libro all’altro, coincidenze alle quali, altrimenti, non avresti dato peso e che ti fanno scoprire cose che forse non avresti scoperto.
E così mi piace a pensare che questa sorta di Calvino basco, e la sua Obaba, che non avrebbe sfigurato nel novero delle Città invisibili, siano venuti a cercarmi. 
La cosa assurda è che, dopo aver finito di leggerlo, ne sono ancora più convinta. 

Obabakoak [...] è stato scritto in diverse case e in diversi paesi, 
e il suo unico tema è la vita in generale. 
Obaba è Obaba, un luogo, uno scenario; 
Ko sta per “di”, A è il determinante; K, il plurale; 
La traduzione letterale: gli o le di Obaba.
La traduzione non letterale: Storie di Obaba.
(E per un prologo, con ciò è tutto) 

La raccolta è articolata in tre grandi macroracconti che, come in un gioco di scatole cinesi, contengono all’interno di una cornice diverse narrazioni e novelle. 

Il primo "pacchetto", Infanzie, dal sapore vagamente gotico e inquietante, con le sue storie di padri gelosi, maestre solitarie e ragazzini infelici, è forse il meno riuscito dei tre.
Si entra invece nel vivo della raccolta con Nove parole in onore del paese di Villamediana, che dopo una prima scena di ambientazione vagamente gotica, quasi retaggio del racconto immediatamente precedente, pian piano si sposta su un versante memorialistico.
La visita di uno scrittore a un vecchio amico internato in un ospedale psichiatrico, perché la sua memoria si è «cancellata come si cancella un nastro magnetico»  e la conversazione col direttore della struttura sul valore e i limiti della memoria, «una diga che dà vita al nostro spirito, ma ha bisogno di canali di scolo per non straripare» («Allora, quanto si deve ricordare?» «Nè poco, nè molto. Nove parole.») sono il pretesto per raccontare il periodo trascorso nell’isola di Villamediana.
Un'isola assolata ma solitaria, popolata perlopiù da corvi e pecore e da un piccolo mondo di paesani.  Oltre a loro, un gruppo di malvisti pastori e un intero quartiere di case vuote, nel quale abita solo un malinconico nano poeta. 

Una menzione a parte spetta invece alla terza parte, quella denominata sotto il titolo In cerca dell’ultima parola - una riflessione sul valore del racconto e sulla sua necessità.
Ogni movimento di progresso all’interno della storia apre piccole pause digressive costituite dalle novelle lette, scritte o ascoltate dai personaggi. Un inseguimento all'ultimo racconto, di matrice chiaramente borgesiana, che mette in scena tutti (o quasi) i modelli stilistici possibili, dai miti greci a quelli scandinavi, le mille e una notte e i viaggi di Marco Polo, Cuore di tenebra, Moby Dick, persino Dante e la Commedia.
Fino ad arrivare a postulare un canone di autori tanto più autorevoli quanto maggiore è la capacità di essere "adattabili" facendo sì che questo non risulti volgare plagio, ma un gioco raffinatissimo di intertestualità

"Si tratta di questo: noi scrittori non creiamo nulla di nuovo, scriviamo tutti una stessa storia. Come si suol dire, tutte le belle storie sono già state scritte, e se non sono state scritte, vuol dire che erano brutte. Il mondo ora non è altro che un'immensa Alessandria d'Egitto, e noi che ci viviamo dentro possiamo solo commentare quanto è già stato creato. E basta. [...]"
"Allora, perché scrivere? Se tutte le belle storie sono già state scritte..."
"Perché, come dice qualcuno che non ricordo, l'uomo dimentica. E noi, i nuovi scrittori, glielo ricordiamo. E questo è tutto." 

Collaterale, per Atxaga, è la riflessione sulla cultura basca, «un'isola che ha bisogno di parole e scrittori che parlino la sua lingua» e che può trovare in questa nozione di plagio una spinta fortissima a far proliferare Euskal Herria (il popolo basco caratterizzato dalla sua lingua ufficiale, l'euskera). 
Anche la scrittura, soprattutto in questo caso, è una forma potente di militanza. 

Infine, anche la vicenda editoriale di Obabakoak, come ci racconta nelle ultimissime pagine Sonia Piloto Di Castri, che lo tradusse per la prima volta nel 1991 per Einaudi e ne ha curato la revisione per questa ripubblicazione, sembra essa stessa una storia di Obaba. 
D'altronde, non possiamo dire che su questo punto l'autore non ci avesse messo in guardia. 

Giulia Marziali