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#CriticaNera - Jim Thompson, "L'assassino che è in me"

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L’assassino che è in me (The Killer inside Me, 1952)
di Jim Thompson
Harper Collins, 2020

Traduzione di Anna Martini

pp. 302
€ 14,25 (cartaceo)
€ 2,99 (e-book)



Lou Ford è il vicesceriffo di Central City, una delle tante invisibili cittadine perse nella immensurabile vastità del Texas. Tipo tranquillo e cordiale, Lou è un tutore della legge abbastanza singolare, che non porta armi di alcun tipo, neanche un semplice sfollagente, perché sostiene di poter gestire i conflitti con i pochi individui problematici che incontra usando semplicemente le sue capacità relazionali e di convincimento.

In effetti il deputy è parecchio logorroico, e già dalle prime righe del romanzo sorge il dubbio che qualcosa in lui non funzioni bene, perché sembra quasi che di proposito voglia inondare di parole l’interlocutore fino a confonderlo, come fa con il proprietario del diner dove lo vediamo all’inizio della vicenda intento a sciorinare le sue teorie filosofiche, mentre il malcapitato tenta disperatamente di sganciarsi e di essere lasciato in pace. Lou appare divertito nel vedere il crescere dell’imbarazzo nell’uomo, mentre al lettore regala un pensiero di rara profondità secondo cui peggio di una persona noiosa c’è solo una persona banalmente noiosa.
Insomma, il nostro Lou Ford pare sia fondamentalmente un tipo serafico e fin troppo accomodante, visto il lavoro che svolge; addirittura ci racconta della sua abilità a convincere in modo non violento i criminali a confessare, probabilmente prendendoli per sfinimento.
E invece no.

Lou Ford è in realtà un pazzo assassino, pericolosissimo proprio a causa della sua insospettabilità; uno psicopatico che gode nel torturare, nel picchiare selvaggiamente e nell’uccidere le vittime prescelte, nel sottomettere le donne a suon di cinghiate. Un assassino calcolatore, che pianifica gli omicidi in modo meticoloso assicurandosi sempre una via di fuga da qualsiasi sospetto, approfittando anche della sua posizione privilegiata di incaricato delle indagini.

Lungo le pagine del romanzo, il “vero” Lou Ford affiora poco per volta; soprattutto emergono piano piano alcuni momenti oscuri e inconfessabili del suo passato che aiutano a definire meglio il personaggio e a renderci conto che sì, cattivi si nasce, però ci si diventa anche, e che persino nelle famiglie apparentemente più irreprensibili si annidano segreti agghiaccianti e scabrosi, che in parte aiutano a capire come il male possa avere ramificazioni infinite e come possa perpetuarsi per generazioni.

L’assassino che è in me risale al 1952, ma potrebbe essere stato scritto oltre vent’anni dopo, a giudicare dalla modernità dello stile narrativo di Thompson, che rivela grande talento nell’esasperare la tensione facendo raccontare da Lou i momenti di violenza più selvaggia senza entrare nei dettagli ma dando al lettore tutti gli elementi per ricostruire la scena completa senza possibilità di errore. La modernità di Thompson è fatta di dialoghi asciutti, di grande ironia, di gestione superlativa della suspense, di una crudezza che stupisce, pensando al perbenismo di facciata dell’America di quegli anni in cui, come scrive Stephen King parlando proprio di questo romanzo, “potevi finire in galera – almeno sul piano teorico – se possedevi L’amante di Lady Chatterley”. Un’America che, al termine della Seconda Guerra Mondiale, si (ri)scopriva violenta e problematica nonostante il ruolo autoconferitosi di nazione democratica, giusta e sempre pronta a intervenire ovunque libertà e giustizia fossero in pericolo.

Jim Thompson, scomparso ormai dal 1977, aveva una predilezione per questo tipo di personaggi: eroi negativi, individui detestabili che però rivelano il lato oscuro dell’animo umano, la volontà di lasciarsi andare agli istinti più abbietti, il compiacersi della sofferenza inflitta e dell’impunità. Lou Ford ricorda un altro gigante del male, il Riccardo III shakespeariano, che secondo una lettura fatta da Al Pacino in un docu-film degli anni Novanta faceva proprio la stessa cosa: annunciava i propositi di morte (“tradirò Tizio, farò imprigionare Caio, ucciderò questo e quello”) e poi ne presentava al pubblico il risultato (“visto? sono stato bravo, no?”).
Le similitudini fra i due personaggi finiscono qui, sia chiaro: mentre Riccardo porta anche nel corpo l’evidenza stessa del male, nel suo essere "deformed, unfinished, sent before my time", tanto che i cani latrano al suo passaggio, Lou è un bel giovanottone cordiale e rassicurante, ma proprio per questo infinitamente più letale.

Romanzo a tratti sconcertante e mai facile, narrazione strutturata secondo la tecnica - efficacissima in questo caso - dell'inaffidabilità, L'assassino che è in me è l'opera che diede notorietà all'autore e che ne costituisce la cifra caratteristica. Jim Thompson è poco conosciuto nel nostro Paese ma alla sua scomparsa aveva all’attivo una trentina di romanzi e diverse sceneggiature per film e telefilm famosi, tra i quali Orizzonti di Gloria, Getaway, Ironside. Insomma, uno di quelli da riscoprire.

Stefano Crivelli





Personaggi deviati, violenti, dalla psiche martoriata e dal passato inconfessabile, affascinati dal male fino a goderne in un narcisismo perverso e mortale. I character che #JimThompson prediligeva sono questi, ben diversi da quelli in voga in quell’America degli anni Cinquanta che poco a poco svelava la propria natura crudele e problematica, ben nascosta sotto un tappeto di perbenismo ipocrita. Lou Ford, il protagonista di L’assassino che è in me, è forse uno dei primi personaggi totalmente negativi con un ruolo primario nella vicenda narrata. Un romanzo crudo, violento, realistico e sconcertante, una storia raccontata dallo stesso protagonista con diabolico e incredibile compiacimento. Il romanzo che esprime la cifra caratteristica di Jim Thompson, uno di quegli scrittori che vale la pena riscoprire. Nei prossimi giorni la recensione di @stefanocrivelli. #CriticaLetteraria #book #bookstagram #booklover #bookaddict #bookaholic #LAssassinoCheÈInMe #thekillerinsideme #instabook #instalibri #libri #libridaleggere
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