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#CriticaLibera - Arte come filo sottile a legare personaggi

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Se dovessimo pensare all’Arte come spinta per la scrittura, i percorsi da intraprendere sarebbero di sicuro vasti e forse fuorvianti. Di solito mi ritrovo a ripensare a questo argomento, facendo un grande distinguo tra scrittori che creano immagini e scrittori che creano concetti. Macro categorie e di sicuro non esaustive, ma propedeutiche alla visione di un mondo di scrittori che con l’arte ha avuto dimestichezza e che ne ha tratto ispirazione, per affermarsi o definirsi, o a volte per perdersi. 

In particolare se dovessimo affrontare l'argomento scegliendo alcuni romanzi, mi verrebbe da  pensare all’Arte come certezza o affermazione di un io scomposto e incompiuto, che solo superficialmente, attraverso il bello, l’oggetto e il suo possesso, si autoafferma e autodefinisce; partendo da questo assunto il personaggio che non posso non citare è Andrea Sperelli, il protagonista de Il Piacere di D’Annunzio. Andrea è combattuto tra due forme d’amore, tra due donne, e tra mille dubbi del suo stesso essere. Ama Elena e Maria, si sente incompiuto come amante e come uomo, e si aggrappa all’unico amore salvifico della sua vita: l’arte.

Il piacere, concepito e iniziato dal 1884, fu ufficialmente scritto tra il luglio e il dicembre del 1888, nel “Convento” di Francavilla in Abruzzo, la dimora dell’amico pittore Francesco Paolo Michetti. Il romanzo, inizialmente suddiviso in quindici capitoli più l’epilogo, fu ampiamente ritoccato nel 1894 in vista dell’edizione francese, modifiche che non ebbe nell’edizione italiana, in cui il poeta lo lasciò in quattro libri. Andrea Sperelli, bellissimo giovane di nobili origini, che, eredita, a 21 anni, una fortuna. Dall’Inghilterra si stabilisce a Roma prendendo dimora  a palazzo Zuccari, presso Trinità dei Monti. Egli stesso artista, poeta e incisore, persegue di ‹‹fare la propria vita come si fa un’opera d’arte››, dedicandosi interamente al culto della bellezza rara, artificiosa e raffinata. Ci somiglia all’autore questo protagonista,  che insegue il senso estetico invece del senso morale, ma del suo autore non dispone la spinta al sacrifico morale per l'arte, ed è per questo che D'anNunzio stesso, dopo un iniziale compiacimento per il suo protagonista, se ne discosta fino a condannarlo, in virtù dei suoi cedimenti che lo portano in una spirale di fallimento, dai proposito eroici alla bassezza.

Recuperare l’io attraverso l’arte e in questo senso cogliere la metafora dietro un avvenimento storico è compito invece di Vincenzo Consolo, che nel suo secondo romanzo, a tredici anni da La ferita dell’aprile (1963) porta in stampa Il sorriso dell’ignoto marinaio, ritagliandosi un posto nell’olimpo della scrittura. La vicenda parte dall’enigmatico quadro di Antonello da Messina custodito in casa del grande collezionista ottocentesco, il barone Enrico Pirajno di Mandralisca, che l’aveva trovato a Lipari nella bottega di uno speziale. La necessità di Consolo è quella di dare un nuovo senso ai fatti storici, di ribaltare la logica gattopardesca di un Risorgimento aristocratico, per consegnare la storia in mano alla plebe contadina. Nella sua rivolta di Alcara Li Fusi, risuonano le parole di Sciascia sui fatti di Bronte. Con questo romanzo Consolo sentiva l’esigenza anche biografica di farvi confluire stili e correnti culturali che avevano caratterizzato la scena culturale e politica degli anni Settanta, anche a costo di cadere nell’impopolarità del dubbio e del dissenso (come ben nota nel suo saggio  del 1999, "Quale in lui stesso l'eternità lo muta..." in un confronto con Sciascia, Antonio Di Grado).

Ma che effetto fa l’Arte sugli stessi artisti? È sempre una spinta catartica la loro? Se dovessimo basarci sull’idea che ci hanno lasciato molti scrittori, nelle lettere e nei diari, potremmo scoprire che l’arte è un linguaggio totalizzante, e che distrugge in parte la vita degli stessi artisti, non la libera, se non attraverso lo stesso gesto pittorioc, ce lo dimostra Caravaggio, ma anche Van Gogh, che nelle lettere al fratello Teo ci narra del suo sforzo supremo, della sua volontà di raggiungere una perfezione che lo frustra e lo ammala. Forse per questa ragione l’arte non si spiega, ci pensano i critici a raccontarcela ma se ci prova anche un critico letterario, come Nigro, l’effetto si amplia e prende più scena e più spazio.
È il caso di Silvano Salvatore Nigro che ci parla di Jacopo Carucci, detto il Pontormo nel saggio romanzo  “L’orologio del Pontormo. Invenzione di un pittore manierista, in appendice Il libro mio”, edito per Rizzoli nel 1998, e poi riproposto, nel 2013, per i tipi Bompiani ed arricchito, in appendice, da “Il libro mio, la Lettera al Varchi e i versi di Burla del Bronzino al maestro”.

In quest’ultima edizione è presente un’introduzione a firma di Giorgio Manganelli, che conferma: “Il libro mio non è il libro della confessione del Pontormo; al contrario, è il libro del suo silenzio. Si potrebbe dire che è stato scritto seguendo i margini del grande e terribile fragore che stava nel centro della sua testa inquieta, e che era il fragore del Giudizio universale, la fine del mondo, quel mondo di piova ed escrementi, che solo le piaghe di Cristo potevano salvare”.

Incompreso dal suo tempo per la sua straordinaria modernità, Pontormo fu un grande genio, basti pensare alla cromia innovativa della sua Deposizione nella chiesa di Santa Felicita a Firenze. L’arte per Pontormo è però una spinta che non riesce a diventare catarsi ma che dilania, che sottrae, che catalizza ogni cosa, e così, nel suo libro mio, una sorta di diario dell’artista scritto tra il 1555 e il 1556,  Jacopo Pontormo non ci consegnerà parole e concetti in grado di spiegarci la sua arte, piuttosto segnerà giorni, cibo, annotazioni di poco conto. Il tempo dell’esistenza che diventa tempo di sottrazione senza la spinta totalizzate dell’arte.

Samantha Viva