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#SpecialeMERIDIANI - Leggendo i romanzi di Pirandello, un formidabile palcoscenico narrativo

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Mi ricordo che ho comprato il Meridiano dei romanzi di Luigi Pirandello perché stavo preparando un esame monografico sull'autore all'università.
Il fu Mattia Pascal, nello specifico, era oggetto di un'analisi particolarmente approfondita: ricordo lezioni e appunti mirati a imprimere gli elementi chiave di un testo così grande.

A una prima lettura non riesci a cogliere tutti i piani che lo compongono.

Quel narratore dubbioso che con la sua voce frammentava la realtà regalandoci una narrazione estraniante era la prova che il Novecento letterario era iniziato con Pirandello e che lui ne era una delle voci più importanti, non solo in Italia ma a livello mondiale.




L'opera in due volumi, con introduzione a cura di Giovanni Macchia e cronologia a cura di Mario Costanzo, testimonia la natura composita della letteratura pirandelliana come grande cantiere aperto. Nel suo essere cangiante e plurale - romanzi, novelle, teatro, poesie, cinema - l'opera di Pirandello ha un'unità d'intenti sorprendente.

A cavallo tra i due secoli l'autore si è interrogato sull'uomo e sulla sua coscienza di vivere, ha creato una narrativa filosofica nella misura in cui è scossa da domande e attraversata dall'urgenza di risposte. Ha inaugurato una visione umoristica della vita, poi formulata come dichiarazione di poetica nel saggio L'umorismo del 1908, solo quattro anni dopo la prima pubblicazione di Il fu Mattia Pascal.
Il passaggio dall'avvertimento del contrario al sentimento del contrario è cruciale: i personaggi di Pirandello generano la riflessione sulle ragioni dell'esistere, sono persone vestite da personaggi o personaggi nei panni di persone. Sono maschere nude che soffrono della propria condizione innaturale di esseri vulnerabili.



È con l'umorismo pirandelliano che nasce questo doloroso e autoironico compatimento di sé, il mescolamento dei contrari. La riflessione è un momento cerebrale fondamentale nel processo creativo: " è per lo scrittore quasi una forma di sentimento", per usare le sue stesse parole.


 Ma non è solo una narrativa filosofica, è anche teatrale. Nell'ordine di una struttura fissa, divisa in atti e scene e delimitata dallo spazio fisico di quattro mura, ecco che entra il caos (profeticamente annunciato dalla nascita di Pirandello che avvenne in una villa detta "Il caos", nelle vicinanze di Agrigento).

Il caos del flusso della vita e della società siciliana, specchio deformante della società umana nel suo complesso. La sua narrativa è un teatro pieno di specchi che restituiscono un'immagine alterata di noi, in cui i nostri nasi e i nostri sguardi d'un tratto ci sembrano di altri, in cui è difficile ricordare il nostro nome. 



Il meridiano fu allora per me il modo per accostarmi all'opera di Pirandello non nella sua dimensione atomica - difficilmente se ne coglierebbe il senso - ma per capirne l'evoluzione interiore: dalle opere di impianto ottocentesco naturalista, come L'esclusa, dove comunque troviamo già tutti i germi della sperimentazione pirandelliana, arriviamo a Uno, nessuno e centomila e al senso della totale disgregazione dell'io. 

Solo così ricordo di aver compreso che Mattia Pascal ha fallito dove invece è riuscito Vitangelo Moscarda, finalmente evaso dalla società nella consapevolezza che "la vita non conclude" e che allora tanto vale "far saltare il mondo con una dinamite". 
Non è forse questo ciò che ha fatto Pirandello con i suoi romanzi?









Da Il fu Mattia Pascal (pp. 414-415, vol. I)




Assistendo alla vita degli altri e osservandola minuziosamente, ne vedevo gli infiniti legami, e, al tempo stesso, vedevo le mie tante fila spezzate. Potevo io riannodarle, ora, queste fila con la realtà? Chi sa dove mi avrebbero trascinato; sarebbero forse diventate subito redini di cavalli scappati, che avrebbero condotto a precipizio la povera biga della mia necessaria invenzione. No. Io dovevo rannodar queste fila soltanto con la fantasia [...]
Ma io volevo vivere  anche per me, nel presente. M'assaliva di tratto in tratto l'idea di quella mia libertà sconfinata, unica, e provavo una felicità improvvisa, così forte, che quasi mi ci smarrivo in un beato stupore; me la sentivo entrar nel petto con un respiro lunghissimo e largo, che mi sollevava tutto lo spirito. Solo! solo! solo! padrone di me! senza dover dar conto di nulla a nessuno! Ecco, potevo andare dove mi piaceva: a Venezia? a Venezia! a Firenze? a Firenze!; e quella mia felicità mi seguiva dovunque. 




Da Quaderni di Serafino Gubbio operatore (pp. 720-721, vol. II)




- Come sarebbe? - mi domanda, stordito, Cavalena. E io:

- Evadere, signor Fabrizio, evadere; sfuggire al dramma! È una bella cosa, e anche di moda, le ripeto. E-va-po-rar-si in dilatazioni, diciamo così, liriche, sopra le necessità brutali della vita, a contrattempo e fuori di luogo e senza logica; sù, un gradino più sù di ogni realtà che accenni a precisarcisi piccola e cruda davanti agli occhi. Imitare, insomma, gli uccellini in gabbia, signor Fabrizio, che fanno sì qua e là, saltellando, le loro porcheriole, ma poi ci svolazzano sopra: ecco, prosa e poesia; è di moda [...]
Cavalena mi guarda con tanto d'occhi: forse gli sembro impazzito.

- Eh, - poi dice. - Poterlo fare!

- Facilissimo, signor Fabrizio! Che ci vuole? Appena un dramma le si delinea davanti, appena le cose accennano a prendere un po' di consistenza e stanno per balzarle davanti solide, concrete, minacciose, cavi fuori da lei il pazzo, il poeta crucciato, armato di una pompettina aspirante; si metta a pompare dalla prosa di quella realtà meschina, volgare, un po' d'amara poesia, ed ecco fatto!
- Ma il cuore? - mi domanda Cavalena.
- Che cuore?

- Perdio, il cuore! Non bisognerebbe averne!
- Ma che cuore, signor Fabrizio! Niente. Sciocchezze. Che vuole importi al mio cuore se Tizio piange o se Cajo si sposa, se Sempronio ammazza Filano, e via dicendo? Io evado, sfuggo al dramma, mi dilato, ecco, mi dilato!




Da Uno, nessuno e centomila (pp. 760-761, vol. II)



Siate sinceri: a voi non è mai passato per il capo di volervi veder vivere. Attendete a vivere per voi, e fate bene, senza darvi pensiero di ciò che intanto possiate essere per gli altri; non già perché d'altrui giudizio non v'importi nulla, ché anzi ve ne importa moltissimo; ma perché siete nella beata illusione che gli altri, da fuori, vi debbano rappresentare in sé come voi a voi stessi vi rappresentate.
Che se qualcuno vi fa notare che il naso vi pende un pochino verso destra... no? che jeri avete detto una bugia... nemmeno? piccola piccola, via, senza conseguenze... Insomma, se qualche volta, appena appena avvertite di non essere per gli altri quello stesso che per voi; che fate? (Siate sinceri.)
Nulla fate, o ben poco. Ritenete al più al più, con bella e intera sicurezza di voi stessi, che gli altri vi hanno mal compreso, mal giudicato; e basta. 




Da Uno, nessuno e centomila (pp. 901-902, vol. II)



L'ospizio sorge in campagna, in un luogo amenissimo. Io esco ogni mattina, all'alba, perché ora voglio serbare lo spirito, così, fresco d'alba, con tutte le cose come appena si scoprono, che sanno ancora del crudo della notte, prima che il sole ne secchi il respiro umido e le abbagli [...] E l'aria è nuova. E tutto, attimo per attimo, è com'è, che s'avviva per apparire. Volto subito gli occhi per non vedere più nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Così soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni. La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane. 





Selezione a cura di Claudia Consoli