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#CritiCINEMA - Martin Scorsese: «"The Irishman" è il mio film sul significato della vita e della morte»

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Martin Scorsese al Festival del Cinema di Roma, 21 ottobre 2019
Il 21 ottobre del 2019 è il giorno di Martin Scorsese alla Festa del Cinema di Roma, appuntamento cinematografico della capitale giunto, quest’anno, alla sua quattordicesima edizione. È il giorno di Scorsese e del suo ultimo film, The Irishman, poderosa pellicola di tre ore e mezza sulla biografia del mafioso irlandese Frank Sheeran, tratto dall’omonimo romanzo di Charles Brandt di prossima pubblicazione (sarà nelle librerie il 24 ottobre) per Fazi Editore. Dopo la proiezione del film in anteprima ai giornalisti, il cineasta di New York e la produttrice hanno risposto alle domande della stampa che, pur reduce da una visione che definirei da sbronza cinefila, ha ancora la freschezza adatta per chiedere al regista di raccontare di più su questo progetto che parla molto di amicizia, Storia, letteratura e nuove tecnologie.

Martin Scorsese
«A darmi l’idea per girare questo film è stato Bob (Robert De Niro). Mi parlava con così tanto entusiasmo di questo romanzo che aveva appena letto che non potevo ignorarlo. Non lavoravamo insieme da ventitré anni, eppure non appena ci siamo trovati dentro questo progetto sembrava che il tempo non fosse passato. Bob aveva preso davvero sul serio la parte di Frank (Sheeran, l’irlandese protagonista): tanto che con la macchina da presa era un continuo inseguirlo, ogni suo gesto o espressione del viso sembravano compiuti per essere inseriti nel film».

C’è quindi una profonda amicizia dietro questo lungometraggio da 140 milioni di dollari, ma soprattutto un ideale di racconto in grado di attraversare la vita intera di un individuo e coglierne la fragilità, l’incedere inesorabile verso la morte e la solitudine. Non un semplice film sulla mafia: un film sull’umanità. Ecco perché la pellicola è attuale pur essendo ambientata tra anni Sessanta e Settanta; in fondo, dice Scorsese, un film non deve essere ambientato nel presente per essere contemporaneo, ma basta che racconti della natura umana e il suo messaggio diventa universale. Questo il suo obiettivo: seguire la parabola di un uomo che ha compiuto migliaia di gesti, alcuni di certo deprecabili, ma che alla fine della fiera si trova solo e senza nessuno al suo fianco se non la vecchiaia e la morte.

«Di certo c’è una dimensione religiosa sottesa in tutto il film, anche se la marca distintiva mi sembra essere la malinconia. Una malinconia però senza rimpianti, ma vista per quello che è, cioè un ritorno continuo al passato e compagna della morte, che bisogna accettare come parte integrante della vita. Frank è tutto questo: il pretesto per tornare sempre nel passato, sia personale che universale (sono tantissimi infatti i riferimenti storici, dalla Seconda Guerra mondiale che vide Frank combattente in Italia all’elezione di Kennedy fino al Watergate, ndr)».

The Irishman, di Charles Brandt, Fazi Editore.
In libreria dal 24 ottobre.
La sintonia con De Niro, specialmente, ma anche con gli altri incredibili attori del cast, tra cui Joe Pesci che interpreta il boss Russell Bufalino e Al Pacino, nel ruolo Presidente del sindacato dei camionisti Jimmy Hoffa, figura di spicco della società americana di quegli anni, trova conferma nella statura data alle figure dei gangster. Scorsese è convinto: l’intenzione della squadra (e la sua, che ha conosciuto la criminalità in prima persona nelle strade di New York) non è stata quella di raccontare la dimensione spettacolare nella vita dei mafiosi, bensì scegliere l’approccio nudo del racconto di un uomo, con le sue colpe e i suoi pregi e con il peso dell’espiazione necessaria dei peccati. Una dimensione di certo accentuata dal continuo viaggio nel passato nella vita di Frank, Russ e Jimmy: consapevoli, da spettatori, di quello che è avvenuto nella loro vita, a ogni passo indietro si ha la possibilità di comprenderli meglio e coglierli, appunto, nella loro umanità (o disumanità).

Inevitabile, infine, la parentesi relativa a Netflix. La premessa è che Scorsese si è sempre fatto portavoce del valore delle sale cinematografiche rispetto alla diffusione dei film in streaming. E allora cos’è successo con The Irishman?
«Se vogliamo andare al cinema, bisogna che ci siano film da vedere. E come possiamo creare pellicole se non ci sono i soldi per farle? Io ho iniziato a pensare a questo progetto più di sei anni fa, ma non c’era nessuno disposto a investire del denaro. Poi è arrivata Netflix che, non solo ha messo a disposizione il budget necessario, ma ha anche assicurato piena libertà creativa e un periodo di sei mesi in più a disposizione solo per il CGI (la postproduzione digitale). Solo con queste premesse è stato possibile realizzare questo film: pensate che durante la lavorazione è stata testata, prima, e applicata, poi, una tecnologia di CGI in grado di lavorare sui visi degli attori e renderli giovani senza costringerli a indossare maschere verdi o dispositivi particolari. In nessun altro modo sarebbe stato possibile avere il film che avete visto: io non avrei accettato altri attori che interpretassero Bob o Al da giovani e loro non avrebbero potuto affrontare un ruolo del genere con tutte quelle diavolerie addosso. Questa è la tecnologia del XXI secolo, bisogna prenderne atto e andare avanti. Cosa succederà nel giro di qualche anno? Chi lo sa! Certo è, e questo lo continuerò a dire, che i cinema devono continuare a investire sulle pellicole di qualità, di registi indipendenti magari, e non cercare solo quei titoli da parchi divertimento che il cinema sforna ogni giorno. Solo così si potrà permettere ai nostri giovani di staccarsi, per un momento, dagli schermi dei loro cellulari o tablet, e cogliere il vero significato dell’arte». 
Come dargli torto?

Federica Privitera