in

#CriticaLibera - Appunti per una recensione sul tempo. “Un uomo & Il suo orologio” a cura Matt Hranek

- -

Un uomo & il suo orologio
a cura di Matthew Hranek
L'ippocampo, 2019 (prima ed. 2017)

pp. 216
€ 29,90



Da qualche giorno la scrivania è occupata per un quarto da un poderoso volume, Un uomo & il suo orologio, a cura di Matt Hranek con contributi fotografici di Stephen Lewis (traduzione dei testi affidata a Paolo Bassoni, L'Ippocampo). «Orologi iconici e storie degli uomini che li hanno attraversati», è scritto sull’apice centrale.
Il volume è una tasca, di fianco sta un piccolo ritaglio che lascia emergere una regione del contenuto, ovvero una delle rotelline che permettono al possessore dell’orologio da polso di potersi adeguare all’orario e alle date comuni. Adeguare o confondere, poiché c’è chi altera con cognizione la lancetta di cinque minuti. Un ritardatario con la passione per gli uomini, per esempio. Conosce il proprio vizio e non potendo estirparlo fa appello alla propria cattiva memoria: quando crederà di essere in ritardo, sarà in tempo.


Si potrebbe cominciare da Cartesio: la disciplina filosofica è sempre l’àncora più interessante per chi non sa come iniziare. Ma a chi servirebbe una discussione sull’origine del tempo? No, si dovrebbe piuttosto osservare il tempo dalla prospettiva della fisica: citare il celebre volume di Carlo Rovelli L’ordine del tempo (Adelphi). Esibire la propria erudizione. Oppure scivolare verso la disciplina genetica: non aveva forse per titolo L’orologiaio cieco il volume di Richard Dawkins sull’evoluzionismo (Mondadori)? Perché invece non preferire il territorio cinematografico? L’estetica è la grande invenzione delle democrazie liberali. Il filosofo Gilles Deleuze non aveva forse scritto un saggio dal titolo "L’immagine-tempo"? È proprio in una rifrazione del tempo che si produce il montaggio. Durante una proiezione de Il settimo sigillo di Ingmar Bergman, mentre il cavaliere Antonius Block domanda conto dell’esistenza di Dio a un crocifisso inerte nel centro di una chiesa, un uomo dalla platea non riesce a contenere una risata. Lo stacco di montaggio aveva presentato, nell’ordine: A. il dolente Block. B. il silenzioso crocifisso di gesso. C. di nuovo Block, persino un po’ deluso. Era stato il governo del tempo esercitato dalla tecnica cinematografica a produrre su ogni spettatore un effetto differente. Si potrebbe persino descrivere l’aneddoto, nella recensione. 

Non è la teoria dell’umorismo che presenta l’efficacia del tempo comico? Altrimenti, per non allontanarsi troppo dal territorio dei libri, si potrebbe presentare la dialettica tra il tempo della vita e il tempo del racconto. Un paio di citazioni a Proust. Ecco, basterebbe soltanto aprire il volume Einaudi della Recherche all’ultima pagina del settimo volume, Il tempo ritrovato (tradotto da Giorgio Caproni), per leggervi: «…nel Tempo». Che dire invece della teoria musicale? Si deve battere il tempo, ma come confida il Cappellaio ad Alice: il tempo odia essere battuto.

Eppure il volume resterebbe silente: l’orologio non ha relazioni con il tempo. Lo segna, ma ad arbitrio di chi lo indossa. Si potrebbe senza alcuna ragione smuovere le lancette fino a un orario indefinito. Allora lo strumento proseguirebbe, indifferente, il suo giro. Chi scrive ha tenuto al polso per qualche mese un orologio del tutto inerte. L’orologio è più simile a un segno che a un oggetto: la sua utilità (rispondere alla domanda “che ore sono?”) si disperde nell’oceano di relazioni che attraverso esso si producono, insieme economiche ed estetiche. «Ho l’orologio di mio padre», scrive Hranek in prefazione, «quell’orologio ha mantenuto vivo il mio legame con lui».

Come per tutti i segni, le parole non bastano. Un segno è anzitutto un segno, una certa incisione che lo sguardo coglie per caso. Allora nulla potrebbe descrivere il volume meglio che una recensione fotografica. Perché nulla se non l’immagine potrà descrivere la moltitudine del segno. 

E poi, è più veloce: controlli, il lettore, sul suo orologio. Se funziona.



Antonio Iannone