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#SalTo19 - Da Alan Pauls a Ernesto Franco: tre incontri dedicati alla narrativa argentina

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Con il titolo di questa trentaduesima edizione che omaggia il maggiore romanzo di Julio Cortázar e uno dei numerosi percorsi tematici dedicato allo spagnolo in qualità di lingua ospite, le letterature ispano-americane non potevano che avere un ruolo da protagonista al Salone del libro di Torino.
La narrativa argentina, in particolare, ha animato tre tra i molti interessanti incontri che si sono susseguiti nella sala Plaza de Los lectores.

Alan Pauls, autore di Trance. Autobiografia di un lettore, e il racconto di una passione smisurata: quella per la lettura 
(sabato 11 maggio, ore 14.30, Plaza del Los Lectores)

Alan Pauls, classe 1959, nativo di Buenos Aires, è un narratore e un raffinato critico i cui libri sono stati tradotti e pubblicati in Italia grazie all'iniziativa della casa editrice SUR. Al Salone del Libro ha presentato, incalzato dalle domande dello scrittore Giorgio Vasta, la sua ultima fatica: Trance. Autobiografia di un lettore, gustosa opera che, sotto forma di glossario (e in questa scelta è già pienamente riconoscibile, nei panni dell'autore, l'identikit di un lettore: il lettore di Roland Barthes) porta sulla pagina quella intricata "fenomenologia della lettura" costituita da quei riti, dalle “superstizioni” che ogni appassionato fruitore di letteratura sviluppa e conosce. In altre parole: la storia, narrata dal particolare angolo di visuale dell'autore (implicito), ma in cui è facile identificarsi, del rapporto tra chi legge e quei mondi generati dalla semplice azione di fissare lo sguardo sul foglio, il racconto di un amore esclusivo, di una dipendenza, a tratti di una bellissima e innocente nevrosi che ci muta e fa sì «che una sofisticata invenzione della cultura umana conquisti lo status di urgenza organica e riesca a infiltrarsi nell'elenco indegno ma improrogabile delle cosiddette funzioni basilari».

Ma “leggere”, sottolinea Pauls, è qualcosa che ognuno di noi mette in atto molto prima di conoscere l’alfabeto e che tutti compiamo quotidianamente e spesso inconsapevolmente. Ovvero, tutto può essere letto: impariamo prestissimo a leggere i volti altrui, le loro espressioni, “leggiamo” ogni giorno le situazioni sociali, leggiamo i quotidiani e lo schermo del nostro computer. Perché leggere significa decifrare, analizzare e, soprattutto, non dare mai nulla per scontato. E la consueta e reiterata lamentela che esprime lo sconforto di un genitore innanzi a un bambino che “non legge abbastanza” riduce il concetto di lettura al solo oggetto libro, non tenendo conto del fatto che forse, suggerisce lo scrittore, si dovrebbe insistere sul potenziare la lettura anche quando è rivolta a un paesaggio, a un viso, a un modo di vestire, a una circostanza.

Durante questa appassionante chiacchierata che è anzitutto un viaggio tra i gusti, le abitudini, le idiosincrasie e le preferenze del grande lettore (di libri e del mondo) in cui germoglia e si radica ogni futuro autore, fertile sostrato alla base di ogni urgenza narrativa, Pauls introduce una delle voci che costituiscono questo curioso dizionario dell’arte di leggere da lui firmato: lo zugzwang, termine tedesco che indica la situazione critica in cui si trova il giocatore di scacchi quando è costretto a muovere e il tempo sta per scadere. Questa mancanza di alternativa, tunnel del tempo e dell’attesa, viene paragonata dall’autore argentino, grazie a un singolare capovolgimento semantico, a talune situazioni in cui la privazione della scelta si converte nel paradiso del lettore. Si prenda ad esempio un lungo viaggio in aereo, un tempo strappato al tempo in cui l’essere privati di tutto, a cominciare dalla possibilità di uscire, rende la lettura improrogabile, sancendo il diritto del lettore a isolarsi da ciò che lo circonda, trasformandosi nella cella monacale che è l’agognata isola di tranquillità a cui ogni bibliofilo aspira. Esiste infatti una componente di voluttuosa rinuncia nell’atto di leggere, di sacrificio sotteso alla conquista di un piacere: a questo proposito Pauls racconta l’aneddoto – che trova spazio anche nel libro, alla voce «celda» – di un amico scrittore, Rodolfo Fogwill, che, molti anni prima, gli annunciò che di lì a poco sarebbe stato arrestato. O meglio, più che annunciarglielo, la notizia uscì dalla sua bocca pacatamente, come se raccontasse un qualsiasi dato di fatto, qualcosa di già accaduto. Preoccupato, sconcertato, Pauls chiese a Fogwill per quale ragione non tentasse la fuga ma egli, imperturbabile, rispose: «Sei matto? Hai idea della quantità di libri che avrò la possibilità di leggere e di scrivere in prigione?».

E di fronte a una domanda di Vasta che verte sul rapporto tra lettura – attività connessa con lo “stare nella durata” e che richiede dedizione assoluta – e l’attuale tendenza a “spezzettare” tempo e concentrazione per rendersi multitasking a ogni costo, il narratore si esprime sulla fruizione del testo come pratica anacronistica da non adattare ai tempi attuali ma, se mai, da radicalizzare. Nel farlo, accenna alla dichiarazione di un altro grande ospite del SalTo 2019, Carlo Ginzburg, il quale, riferendosi alla filologia come pratica di “slow reading” per eccellenza, ha sottolineato come non si debba rinunciare a una fruizione lenta, all’esclusivismo che implica, ma porre la lettura rapida al servizio di quella analitica.

Il dialogo si sposta poi sui libri “trovati”, “incontrati”, quelli che a volte ci si rammarica di aver letto troppo presto o troppo tardi. In genere, prosegue lo scrittore argentino, la vocazione di lettore, quando nasce in tenera età, ha a che fare con la precocità, con una lettura “sbagliata”, nel senso di non propriamente destinata a un pubblico infantile e che finisce per innescare quella scintilla d’amore che ci porta a scegliere i libri come felice ensimismamiento. «Per questo», aggiunge, «come “pedagogo della lettura”, tendo a essere molto permissivo». Inoltre, c’è qualcosa di contemporaneamente istrionico e commovente nella lettura concentrata e “precoce” di un bambino e questo perché tale precocità, che nasce dall’attrazione e dalla curiosità nei confronti delle potenzialità della scrittura, risiede nella volontà di quel bambino di interpretare un particolare personaggio: quello del lettore che vorrà essere, che vuole diventare.

Per giunta, la biografia di lettore di ognuno di noi vive anche di incontri mancati, di libri che non abbiamo scelto ma da cui in qualche modo “siamo stati scelti”, di letture “non idonee” che magari hanno tradito il percorso di lettore che ci eravamo prefissati. E le letture premature, con il loro contenuto perturbante, sono fondamentali. L’idea di Alan Pauls riguardo al rapporto col testo non è legata a un senso di pacificazione e conforto: ritiene infatti che sia proprio ciò che di un libro non comprendiamo, quel quesito insoluto, quel residuo ermetico, ad accompagnarci negli anni, a restarci impresso: «ciò che non capiamo nei libri – ma anche in un quadro o in un film - permane in noi anche a distanza di anni come “seminato” nel lettore».

Durante l’incontro ci si sofferma inoltre su un’attività in cui molti bibliofili accaniti e lettori maniaci sono in grado di riconoscersi: quella di sottolineare, glossare e annotare (a cui Pauls dedica delle bellissime pagine alla voce «subrayar», appunto) i libri durante la lettura. «Leggere i libri sottolineati da altri, interrogarne i tratti vergati a penna o a matita, è qualcosa che mi piace perché è come leggere due libri contemporaneamente: il libro vero e proprio e la relazione tra quel libro e la persona che l’ha letto, una piacevolissima pratica voyeuristica». Inoltre, quando si torna, a distanza di anni, ai libri della propria biblioteca, quei segni, quelle annotazioni hanno lo stesso valore degli anelli di accrescimento degli alberi, da cui è possibile dedurre la loro storia e la loro età. Grazie a essi è possibile ricostruire una narrazione importante, quella dell’evoluzione di una passione, di un interesse, di una dedizione: l’avventura autobiografica di un lettore.

Borges e Puig: due grandi maestri della narrativa argentina a confronto in un dialogo tra Beatrice Manetti, Vittoria Martinetto e Alan Pauls 
(sabato 11 maggio, ore 19.30, Plaza de Los lectores. Incontro a cura de L’indice dei Libri del mese in collaborazione con SUR edizioni)

Alan Pauls, questa volta indossando non più i panni del narratore ma quelli di critico, partecipa a un altro incontro dedicato alle lettere argentine, un dibattito che insieme a lui ha visto protagonisti anche Vittoria Martinetto, docente di Lingua e Letterature Ispano-americane all’Università di Torino e Beatrice Manetti, condirettrice della rivista L’indice dei Libri del mese
Al centro del dialogo tra i tre, due universi letterari apparentemente lontanissimi: quello animato dall’iperletterarietà di Jorge Luis Borges, uno scrittore che, come sottolinea Martinetto, «si configura sin da subito come classico», e quello di Manuel Puig, rappresentante del postmodernismo e legato a un immaginario preso in prestito dalla cultura pop: quello dei radiodrammi, dei rotocalchi, delle canzonette. 
Per ciò che concerne il rapporto tra questi due giganti delle letteratura ispano-americana e mondiale, esso sembra essere stato unilaterale: Borges ignorava Puig, fedele al celebre detto secondo cui non avrebbe letto alcuna opera che non avesse compiuto almeno mezzo secolo. Per di più, secondo Borges, i libri del suo connazionale avevano l’ulteriore demerito di avere dei titoli terribili. 
Pare invece che Manuel Puig ammirasse Borges: come sottolinea Pauls, egli aveva assistito a una lezione del più anziano scrittore sul genere poliziesco. Probabilmente è necessario partire da qui per andare alla ricerca di un trait-d’union tra due narratori così diversi: l’autore de Il bacio della donna ragno si reca sì ad ascoltare Borges, ma nel momento in cui, al centro dell’analisi di quest’ultimo, c’è un genere popolare, di grande consumo. E Borges spese molti anni della sua vita a diffondere il racconto poliziesco in Argentina, stilandone lui stesso degli esempi e creando antologie: il Borges che interessava a Puig era l’autore che metteva in discussione i valori letterari tradizionali e la loro monumentalità e che, dunque, in qualche modo, anticipava l’opera che egli stesso avrebbe portato avanti. 
Per quanto l’immaginario del “provinciale” Puig scaturisca da oggetti provenienti dalla cultura “bassa”, di massa, mentre le avventure dei personaggi di Borges partono dai libri stessi, sono indissolubilmente connesse al fruire e al fare letterario, vi è nel bonaerense la volontà di relazionarsi con la propria erudizione con grande ironia, un’ironia che costituisce il cuore del suo linguaggio letterario, giocando con l’idea della superstizione del lettore nei confronti dell’autore e rendendo il narratore oggetto di parodia, di riso, di scherno. 
Una tecnica che, com'è ancora Pauls a ricordare (che a Borges ha dedicato il saggio Il fattore Borges, edito da SUR), egli sviluppa secondo due modalità: mettendo in discussione il valore dell’originalità e ponendo l’attenzione su figure autoriali marginali, per esempio autori poco noti e figure sussidiarie alla produzione letteraria, come i traduttori. Peraltro, aggiunge Martinetto, un ulteriore fil rouge che lega i due autori risiede nel modo in cui entrambi giocavano con tutto ciò che costituiva il paratesto della propria opera, spesso esibito all’interno della finzione stessa. In questo senso, continua Pauls, Borges era molto concettuale, un precursore di ciò che intenta la letteratura contemporanea: egli lavorava sul “forzare i limiti”, infrangendo i confini tra i generi. Per esempio, all’interno di un libro di racconti inseriva la recensione di un libro completamente inventato e niente, all’interno della narrazione, faceva supporre che stesse descrivendo un oggetto che non aveva riscontro reale. Poi spostava lo stesso racconto dalla raccolta in cui inizialmente era apparso in un libro di saggi. In altre parole, produceva un effetto di straniamento modificando il contesto.
D’altro canto, se ci si pensa bene, si potrebbe leggere anche tutta l’opera di Puig come frutto di un’operazione molto vicina alla tecnica borgesiana, ovvero come un lavoro di costruzione che si serve di materiali preesistenti fornendo loro una nuova collocazione (e dunque un nuovo contesto) all’interno dei territori della finzione.

Tra i punti cruciali toccati durante questo interessante incontro, ha avuto spazio l’atteggiamento di questi due intellettuali nei confronti del potere politico. Elusivo, nel caso di Borges, il cui scritto maggiormente “politico”, ricorda Martinetto, fu frutto di un lavoro a quattro mani con Adolfo Bioy Casares, l’autore insieme al quale, adottando uno pseudonimo, dava vita a narrazioni assai distanti da quella che era la sua consueta cifra letteraria. Il racconto, intitolato La fiesta del monstruo, racconta l’assassinio di un ebreo durante una manifestazione: dietro questa traccia si cela in realtà la visione delle élite colte rispetto al peronismo all'epoca dominante, visione pienamente condivisa dai due autori. Ma ciò che rende interessante questo testo è l’irruzione violenta della corporeità, della materialità, così lontana dallo stile borgesiano: come se, proprio nel momento in cui questi due scrittori si trovavano a propugnare una posizione fortemente reazionaria, la loro scrittura si plasmasse in modo da contraddirne i principi di classe. 
Come è noto, la rottura di Puig con il proprio Paese si ebbe invece nel 1973, con la pubblicazione di The Buenos Aires Affair, quando, dopo il sequestro delle copie e l’accusa di oscenità, l’uscita in versione censurata e poi il definitivo ritiro dal commercio, egli decise di lasciare per sempre l'Argentina.

Il modo dei due artisti di vivere la propria identità nazionale, la propria “argentinità” è – e anche in questo è facile scorgere un’affinità – in qualche modo “parassitario” nei confronti della produzione artistica e culturale mondiale
Per Borges, si trattava non tanto di una questione di identità quanto di una “posizione”, quella di chi, in virtù della propria periferica provenienza, ha diritto di impossessarsi di materiali derivati da un patrimonio culturale e artistico "altro", un'operazione non dissimile da quella compiuta da Joyce con il suo Ulisse, “autorizzato” dai propri irlandesi natali.
In cambio, i prodotti culturali “altri” di cui si serve Puig sono le pellicole americane degli anni Quaranta. Egli infatti, cresciuto in un piccolo villaggio nella provincia di Buenos Aires, non ha vaste biblioteche a disposizione, gli unici strumenti con cui può forgiare la propria immaginazione e che costituiranno una tappa importante della sua formazione sono quelle pellicole proiettate in una piccola sala cinematografica. Anche se, in maniera un po’ vanitosa, Puig giocò spesso col proprio anti-intellettualismo in relazione alla proprio storia personale – probabilmente per non svelare gli strumenti alla base di una raffinata tecnica letteraria – è importante ricordare «come uno scrittore si costruisca a partire da ciò che ha», osserva Pauls. Ed è proprio il critico argentino a concludere questo avvincente ritratto dei due grandi maestri sottolineando il peso della loro eredità in ambito contemporaneo: se, infatti, il realismo magico non può contare su una nutrita schiera di epigoni (se non per quanto riguarda il giornalismo, tanto che, aggiunge, potremmo parlare di periodismo mágico), il sentiero tracciato da questi due autori ha visibilmente connotato il volto della letteratura ispano-americana sino a oggi.


Ernesto Franco parla di Julio Cortázar e del "sentimento del non esserci del tutto" 
(domenica 12 maggio, ore 15.30, Plaza de Los Lectores)

Ancora negli spazi de Plaza de Los Lectores, nel pomeriggio di domenica 12 maggio, Ernesto Franco, scrittore, studioso della cultura ispano-americana, traduttore e curatore, tra gli altri, di diversi testi di Julio Cortázar per la casa editrice Einaudi, ha tenuto una relazione dedicata al grande autore de Il gioco del mondo, conducendo gli spettatori nei territori della finzione cortazariana, filtrati attraverso un particolare sentimento: “il sentimento del non esserci del tutto”, dimensione a partire dalla quale è possibile interpretare non solo ogni singolo libro, a cominciare da Rayuela (che, parrebbe essere, sia nell’edizione italiana che in quella spagnola, il libro più venduto del Salone del Libro 2019), del grande autore argentino ma anche la sua traiettoria esistenziale.

Ma che cos’è, esattamente, il sentimento del non esserci del tutto?
Per spiegarlo, esordisce Franco, dobbiamo specificare che, anzitutto, nel parlare di sentimenti, possiamo suddividerli in due grandi categorie: i sentimenti che tutti abbiamo “in dotazione”, che ci provengono dalla specie – nostre patrie e nostre prigioni – , la grammatica emozionale con cui proviamo a comprenderci e – direbbe Cortázar – a perseguitarci.

E poi ci sono i sentimenti “trovati”, quelli che non è inevitabile provare, che si scoprono in luoghi a volte sorprendenti: in un libro, nella vita degli altri, guardando un quadro. «Io», prosegue Franco, «ne ho individuati cinque: il disincontro, il sentimento del nonsoché, l’istante eterno, la disperanza e, naturalmente, il sentimento del non esserci del tutto. Quest’ultimo consiste nel non essere esattamente nel tempo e nel luogo in cui ci si trova ed è ciò che per esempio accade quando si gioca, quando si legge». A questo particolare stato, Cortázar dedica un breve brano ne Il giro del giorno in ottanta mondi, libro bizzarro che rifugge le definizioni, a cui Cortázar consegna una gran varietà di forme testuali e in cui sono custoditi appunti, disegni, fotografie, riflessioni critiche e poesie.
Per esempio, quando le parole si staccano dalle frasi per narrarci singolarmente delle storie, “parole-scrigno” - un passo più in là delle «parole-valigia» di Lewis Carroll - e sono contemporaneamente se stesse e qualcos’altro, quando si volgono in anagrammi, o costruiscono palindromi o vengono considerate nella loro polisemia, allora divengono veicoli del sentimento del non esserci del tutto. «Consideriamo la parola “sperare”. Tutti sappiamo cosa significa nella sua prima accezione: attendere in maniera fiduciosa che un certo accadimento si realizzi oppure confidare in qualcosa o in qualcuno. Ma “sperare” ha l’ulteriore significato di osservare un corpo controluce per vedere in trasparenza e, se lasciamo che entrambi i significati convivano e operino in questa parola nel momento in cui la usiamo, ecco che frasi come “io spero in te”, “io spero in Dio”, assumono un valore diverso. Significano che nel momento in cui io spero in te, guardo attraverso te, come se osservassi la realtà filtrandola attraverso la tua immagine. Se spero in Dio, ecco che guardo il mondo attraverso Dio».
Le possibilità di straniamento che abitano una parola sono qualcosa a cui Cortázar è da sempre legato: pensiamo al racconto Lontana, testo in cui la protagonista gioca con l’anagramma del proprio nome: Alina Reyes diventa facilmente «es la reyna y…».
E ancora: questo peculiare sentimento, così legato a una questione di posizione, al modo in cui guardiamo l’esistente, lo possiamo ritrovare quando consideriamo un’opera d’arte attraverso una particolare prospettiva. Lo studioso porta l’esempio pittorico di una curiosa Annunciazione, quella di Lorenzo Lotto, l’Annunciazione di Recanati. A un primo sguardo, in questo dipinto fanno mostra di sé tutti gli elementi della rappresentazione iconografica classica: la Vergine, Dio e l’arcangelo Gabriele, lo splendido giardino alle spalle come emblema della purezza di Maria. «Ma… all’improvviso, nell’immagine, salta un gatto, come spaventato o indispettito dall’irruzione dell’arcangelo». Se l’attenzione di chi guarda il quadro si concentra sul gatto e riconsidera tutta la scena a partire dal felino, Dio e l’arcangelo appaiono irrompere“muscolarmente” nel dipinto, mentre la Madonna, stravolta, sembra voler saltare fuori dal quadro. 
«Il sentimento del non esserci del tutto lo proviamo quando ci viene da ridere a un funerale, quando durante una sfilata di moda ci concentriamo sullo sguardo disperato delle modelle, è il sentimento delle cose fuori posto, di chi tiene il cellulare in un calzino e le matite colorate nel tostapane, il modo di guardare il mondo dell’umorista, del cronopio, delle persone che interessavano a Cortázar: coloro che mantengono viva in loro quella che il grande scrittore argentino chiama “la costante ludica”».
E scrivere è senza dubbio un modo per no estar del todo: in quella pagina del suo libro-almanacco in cui racconta questo particolare punto di vista sul mondo, Cortázar dice: 
«escribo por falencia, por descolocación; y como escribo desde un intersticio, estoy siempre invitando a que otros busquen los suyos[...] (scrivo per carenza, per dislocamento; e poiché scrivo da un interstizio, invito gli altri a cercare i propri [...])».
Non si tratta solo di una dichiarazione di estetica, ma di una visione più ampia che è tutta contenuta nella citazione di Artaud posta in epigrafe al brano:«Jamais réel et toujours vrai».
La stessa idea di fantastico ha a che fare, nell’opera cortazariana, con questo peculiare sentimento, il suo “fantastico senza fantasmi” è anzitutto nostalgia, nel senso etimologico del termine – e l’etimologia è forse la scienza che, per definizione, non c’è del tutto – ovvero quello di trovarsi in un luogo e contemporaneamente proiettarsi altrove. Una sovrapposizione di livelli che pervade tutta l’opera di Cortázar: nel brevissimo racconto Continuità di parchi, il libro che sta leggendo il protagonista e la realtà esterna al romanzo si mescolano, si connettono e sovrappongono; in Axolotl, il racconto dedicato a questo bizzarro anfibio, non viene portato sulla pagina il fantasioso resoconto di una trasformazione: è la focalizzazione a cambiare, a trasferirsi da quella del visitatore a quello dell’animaletto recluso nell’acquario. 

E il sentimento del non esserci del tutto anima anche L’autostrada del Sud, dove un prodigioso ingorgo si trasforma in un luogo di vita regolato da proprie leggi, ed è il modo di sentire che guida le azioni e la percezione del protagonista de Il persecutore, Johnny Carter, alter ego letterario del grande musicista Charlie Parker. Naturalmente i cronopios, gli strani esseri che popolano Storie di cronopios e di famas, sono i "campioni" di questo sentimento, portato a vera e propria arte, loro che trasformano la vita in poesia e che così si ribellano all’idea della fine.

Perché il sentimento del non esserci del tutto è qualcosa che si può andare a cercare, che si può provocare, stimolare, per difendersi dalla vita, dai limiti del reale, dall’incombere della morte. I due protagonisti di Rayuela, Horacio Oliveira e la Maga, lo cercano nella loro quotidianità stabilendo dei riti, dei giochi: ad esempio quello di incontrarsi per caso in un certo quartiere di Parigi o di esorcizzare un ricordo cercando di rievocarne i particolari inutili, minori. Una ribellione fortissima che Cortázar attua e applica alla sua stessa esistenza, specie durante quell’ultimo viaggio con Carol Dunlop, sua ultima compagna, quando, entrambi malati terminali, inventano il grande gioco di spostarsi con un pulmino Volkswagen attrezzato da Parigi a Marsiglia, un gioco che, come ogni gioco che si rispetti, deve seguire determinate regole (non uscire dall’autostrada, non fermarsi in più di due stazioni di servizio al giorno). Un percorso che si dilaterà fino a durare un mese e che verrà descritto ne Gli autonauti della cosmostrada, un modo per assolutizzare, rendere atemporale, un banale tratto di autostrada e che costituisce l’ultima disperata ribellione, terribilmente impotente, di Julio Cortázar: quella di fronte alla morte.

Ernesto Franco conclude la sua appassionante relazione, che ha tra i suoi pregi la leggerezza e un grande rispetto nei confronti dell'uomo e dello scrittore al centro della sua analisi, spiegando come il sentimento del non esserci del tutto sia, sì, una lente di ingrandimento grazie alla quale l’opera e la vita di Julio Cortázar si illuminano di nuova luce, ma anche un sentimento che se, scoperto o, meglio ancora, cercato, si rivela proficuo e condivisibile da tutti.


Nike Gagliardi