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"Angelica e le comete" di Fabio Stassi: mettere in scena, con grazia, l'arte del raccontare

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Angelica e le comete
di Fabio Stassi
Sellerio editore, 2017

pp.136
€12.00




Nella biblioteca di Babele, spaventoso specchio dell'universo che prende vita nell'arco di poche pagine in un vertiginoso racconto di Borges, sono contenute tutte le combinazioni dei venticinque segni ortografici (le ventidue lettere dell'alfabeto, lo spazio, il punto, la virgola): tutte le narrazioni auspicabili, moltiplicate per il loro numero di variabili grafiche, linguistiche e diegetiche, tutte le teorie e  le conseguenti apologie e confutazioni, tutto lo scibile e l'immaginabile, fino all'annullamento di ogni distinzione tra reale e fittizio, tra storia e letteratura, fino a svuotare il Tempo di significato.
Di finzione in finzione, il volume che l'autore di Angelica e le comete – calatosi, all'interno della cornice del romanzo, nei panni di narratore – si trova fra le mani potrebbe essere giunto da lì: si tratta di un romanzo che Fabio Stassi non ha mai scritto e che pure aveva reclamato la propria esistenza molti anni prima, quando la vocazione di scrittore si era per la prima volta fatta strada in lui.

E, a quanto pare, a ogni autore resta un debito da pagare nei confronti delle storie che sono sempre state lì a invocare il proprio diritto di danzare sul foglio, nei confronti di quei personaggi e di quei mondi rimasti in attesa che un demiurgo prestasse finalmente orecchio alle loro istanze e ne ritagliasse sapientemente le sagome, i movimenti, i pensieri, che fosse in grado di estrarre dall'oceano linguistico quelle preziose gemme e di lavorarle con arte, disponendole nella sequenza necessaria a renderli immortali, a regalare il soffio vitale a ciò che non esiste.

La propria natura di fantocci, i personaggi di Stassi – essi stessi burattinai – la denunciano esplicitamente nel loro essere in fuga dal passato, incastrati nell'unico presente per essi possibile, quello dell'intreccio che sono destinati a rappresentare su un proscenio di carta e inchiostro. Il loro tempo non ha che fare con quello umano, non c'è orologio o ticchettio in grado di scandirlo: è un tempo degli occhi e del cuore, è il tempo dilatato o spasmodico, convulso o rarefatto della scrittura e della lettura, è il tempo dell'immaginazione. Il lessico onomastico che identifica le creaturine di Stassi definisce l'essenza di ognuna di esse: in una scalcagnata compagnia di pupari c'è un gigante che porta, per l'appunto, un nome da gigante, Bruciavento (e come non pensare a quell'altro burbero burattinaio, quello del teatro di carta collodiano?); c'è Cate, una donna corta quanto il suo nome e che nel mondo reale sarebbe una reietta, una nana da circo, ma che sul palcoscenico in miniatura dell'opera dei pupi diventa – unica marionetta in carne e ossa – Angelica, la più bella giovane che abbia respirato sulla Terra; c'è lo Spagnolo, puparo che forse una volta aveva un'identità, una nazionalità e dei ricordi ma che li ha smarriti di porto in porto, di piazza in piazza, a ogni polveroso sentiero percorso e a ogni vicenda cavalleresca narrata. Il suo unico diritto d'asilo presso la comunità umana è rappresentato dai paladini di Francia, dagli intrecci dell'Orlando Furioso, dal patrimonio del fantastico ("Mi pasaporte son mis paladines", dirà). 
Egli infatti non può essere altri che Lo Spagnolo, personaggio di Angelica e le comete e riflesso dell'animo del proprio artefice, evolutosi nel corso di un segreto e ininterrotto dialogo tra i due in cui l'uno ha interrogato l'altro sulla propria più riposta essenza, forse da sempre presente, magari camuffato alle spalle di un diverso personaggio in un altro libro dello scrittore, all'ombra di un sipario, in attesa del momento giusto per muovere i primi passi sotto le luci della ribalta e diventare ciò che era sempre stato: un puparo chiamato Lo Spagnolo che aveva perso il proprio nome tanti anni prima.
"E poi anche Cate, certe sere, si chiedeva se Lo Spagnolo in fondo non le somigliasse. Se non fosse come lei un pupo di malacarne e sangue, se esistesse soltanto finché esisteva la compagnia, e il carro di Bruciavento correva su strade piene di polvere che seccavano la gola, sempre in equilibrio tra la terra e il mare, sul limite di una costa.
Non riusciva a immaginarselo al di fuori del suo teatro. Non c'entrava nulla con gli uomini che venivano a vedere lo spettacolo. Non aveva mani né da marinaio né da contadino. Aveva mani solo da puparo."
Il suo diritto all'esistenza è intimamente connesso alla materia alfabetica di cui è costituito (e a cui  le dieci delicate illustrazioni di Alfonso Prota rendono il giusto onore) ed è forse per questo che, pur non sapendo leggere, continua a interrogare i libri allo stesso modo in cui ognuno di noi interroga Dio o la Natura o la biblioteca dell'esistente. Nella medesima maniera in cui alziamo gli occhi al cielo e, come i fantocci del cortometraggio di Pasolini, ci domandiamo smarriti: Che cosa sono le nuvole?
Così Ardesio, pupo di nessun conto, osserva in disparte l'avvicendarsi dei paladini sulla scena: nel contemplare quel forsennato universo in cui armate nemiche si fronteggiano senza sosta, si pone delle domande sulle leggi che lo regolano e sulla natura del proprio costruttore. Egli è marionetta quasi muta poiché le parole muoiono nella sua gola di legno non appena sta per pronunciarle. Del resto, i pupi hanno diritto a una voce solo quando sono coinvolti in azioni valorose, in passioni limpide e definite, altrimenti nessuno regala loro la battuta appropriata, degna di levarsi alta oltre le sgangherate travi di legno che sostengono il teatrino, di essere udita da qualcuno.
Il rapporto antitetico col mondo degli uomini, più complesso e sfumato, appare espresso in maniera raffinatamente ironica: anche nel mondo al di là delle pagine, quando non ci si riconosce in una verità altrui, specie se questa incarna la morale o il pensiero dominanti, è difficile farsi ascoltare.
Diventa impervio e vano prendere la parola in una giostra di Orlandi impazziti e di improvvisati eroi che si lanciano in bellicose campagne per il miraggio di un'angelicata bellezza in fuga:
"Quasi tutti lo credevano muto. Un incidente occorso allo Spagnolo durante la sua fabbricazione, una svista, una mancanza. Ogni tanto capita, uno riuscito peggio degli altri. A volte si butta coi legni che non servono più, a volte si tiene.
Ma Ardesio era così insignificante che nessuno gli chiedeva ragione del suo silenzio. Un pupo ha così pochi bisogni che parlare non gli è necessario se la follia non lo spinge o non lo spinge l'odio, il comando, il tradimento, l'amore.
Si sporse da un ponte. L'acqua della Senna transitava lentamente, inargentata. Così era il suo mondo, un mondo di passioni liquide, senza la torbida complessità di quelle degli uomini."
E questa povera compagnia di pupi e di opranti, di cui fanno parte, oltre ai personaggi suddetti, tre cani e due cavalli (Baiardo e Brigliadoro, come i  mitici destrieri del poema cavalleresco, per dare meglio conto di quanto labile sia la barriera, lì ove gli unici confini possono essere stabiliti dalla scrittura, che divide l'universo di Orlando da quello di coloro che lo mettono in scena), sembra l'unico luogo salvifico, al riparo dalle narrazioni e dalle faziosità, ben più pericolose, che animano il reale. Ricorda quel circo male in arnese in cui i personaggi reietti de La guerra della fine del mondo di Vargas Llosa trovano un rifugio e uno spazio solidale: un mondo alla rovescia, l'unico in cui chi non sembra tagliato per aderire alle grandi avventure della Storia o alla compagine umana, nel modo idealizzato in cui pensa se stessa, può trovare uno spazio accogliente, in cui chi è bollato come clandestino acquisisce finalmente diritto di cittadinanza e diviene anzi elemento indispensabile per i suoi compagni.

C'è un racconto di Stevenson – una favola, per la precisione – in cui: "Dopo il 32° capitolo dell'Isola del tesoro, due dei fantocci andarono a fare un giretto, prima che la storia ricominciasse, per fumare una pipatina, e si incontrarono in uno spazio aperto, non lontano dalla storia". Durante il dialogo, Long John Silver e il capitano Smollett si interrogano sui piani che l'Autore ha in serbo per loro. Essi sono consci dell'inevitabilità di un destino e di un'identità di funzioni necessarie al romanzo, di character predeterminati. Eppure Silver non nasconde una certa insofferenza rispetto al suo ruolo di incorreggibile gaglioffo, giungendo a filosofeggiare sull'ambiguità della morale e manifestando una certa vena eversiva rispetto ai propositi di chi l'ha creato e alla mano che gli dà vita sulla pagina (e divenendone così, probabilmente, il più fedele dagherrotipo all'interno del racconto, nunzio di una riflessione che attraverserà tutta l'opera del Tusitala scozzese).
Il libro di Stassi, strappato il velo dell'intreccio, si palesa come arguta riflessione sul mestiere di scrivere, sull'autonomia dell'opera e dei personaggi dal demiurgo che presta loro voce e movimenti: egli ha il compito, sì, di confezionare la veste più adatta per mandarli nel mondo, di scolpirli, parola per parola, esattamente come un puparo "cerca" un paladino in un ceppo di tiglio, gli cuce addosso l'abito e gli forgia con cura la corazza, per poi animarlo attraverso le proprie voce e mani, farlo divenire un Ferraù, un Orlando, una Bradamante, un Ruggiero. Eroi che, andandosene in giro con la loro armatura di parole, diverranno poi, indipendentemente dalla sua volontà, generatori di senso. A ognuno di essi, affiderà un pezzetto di sé, una scheggia di una propria profonda verità che plasmerà sotto forma di raffinatissima menzogna, di verosimile artificio.

L'arte sta nel mettere assieme, pezzo dopo pezzo, tutti i componenti dell'ingranaggio narrativo senza perdere di vista l'urgenza interiore, primigenia, che ha spinto l'autore ad affidare quel particolare messaggio alla comunicazione letteraria. Senza quella, si assisterebbe alla concrezione di un mirabile cristallo, di una morta geometria, che precluderebbe a quell'organica e tanto instabile materia umana ogni possibilità di riconoscersi in essa.
L'arte sta, anche e soprattutto, nel rendere invisibile la mano che ha plasmato l'intreccio, teso i fili del cielo su cui far stagliare le sagome dei burattini, piegato ogni fisionomia incontrata ai fini di tesser loro umane fattezze. Un Dio-geometra che spifferasse ai quattro venti i propri piani di costruzione non avrebbe alcun seguace.
Quest'arte, Fabio Stassi la possiede e il suo romanzo, piccolo gioiello, la conchiude. Dalla sua penna vien fuori uno stile lieve, un ritmo dolcemente malinconico che evoca il rollio delle barche in uno sperduto porticciolo siciliano e rammenta il lirismo di certe pagine di Galeano in cui ogni frammento, ogni breve storia è portatrice di un'immagine e ogni immagine si sposa in modo armonico con le altre, come il grano di una collana. Un'armonia in virtù della quale, come in certe strutture di Calvino, alcune tessere del puzzle risultano intercambiabili.

Centotrentasei pagine che generano innanzi agli occhi del lettore l'immagine della biblioteca di cui ogni libro è contenitore e frutto, in cui ciascun brano è capace di dilatarsi in profondità, ben oltre la superficie della carta. Proprio come quel mondo di paladini e battaglie, di saraceni e ippogrifi, di maghi e streghe è in grado di sfondare le quinte di un teatrino dei pupi ed estendersi per spazi infiniti.


Nike Gagliardi