in

Scrittori in ascolto - attimo di grazia e scrittura in compagnia di Elizabeth Strout

- -
Elizabeth Strout e Debora Lambruschini
Elizabeth Strout
In casa editrice Einaudi, 11 settembre 2017


Un romanzo meraviglioso, un’autrice premio Pulitzer brillante e generosa, una manciata di blogger e giornalisti che hanno avuto il privilegio enorme di conversare con lei: lunedì scorso, ospite in casa editrice Einaudi, sono rimasta completamente stregata da Elizabeth Strout, in Italia per presentare il suo ultimo romanzo, l’intenso Tutto è possibile.
Vi racconterò del suo punto di vista sulla storia, dello spiraglio sulla scrittura che ci ha regalato, delle influenze e dei sentimenti che si legano ad ogni nuovo libro da scrivere; ma, prima di tutto, voglio ricordare l’emozione fortissima di trovarsi di fronte ad uno dei miei idoli letterari e restare completamente rapiti dal piacere di una conversazione brillante e, soprattutto, dall’umiltà, dalla generosa affabilità con cui si è intrattenuta con questo gruppo in evidente soggezione di fronte ad una delle scrittrici americane più importanti della sua generazione.
Non è la prima volta che ho il piacere di incontrare scrittori, italiani o stranieri, e discutere con loro di scrittura e vita, ma raramente ho avuto così forte come nel caso di Strout la sensazione di genuino interesse per ciò che i lettori – perché in fondo noi, prima di tutto, siamo lettori – pensano delle sue storie, e una così calda umanità che per un attimo permette di dimenticare il personaggio pubblico, la scrittrice pluripremiata, il tour promozionale, e riconoscere semplicemente la persona.
A partire da quel semplicissimo gesto, appena entrata nella stanza dove da un paio di minuti appena la stavamo aspettando, seduti intorno al mitico tavolo delle riunioni per molto tempo presiedute da Giulio Einaudi: un sorriso caloroso e una stretta di mano ad ognuno di noi, presentandosi semplicemente come Elizabeth. La stessa spontaneità e generoso calore che ha portato anche al termine dell’incontro “ufficiale”, quando si è intrattenuta singolarmente con noi apprezzando il rinfresco organizzato in suo onore. Per un attimo, anche in quel momento, abbiamo provato tutti una certa soggezione, timorosi di avvicinarla nonostante la generosità con cui poco prima aveva risposto alle nostre domande intorno a quel tavolo di legno, quasi impauriti di spezzare l’incantesimo. E invece, Strout non ha mai smesso di sorridere, rispondere alle domande, chiacchierare amabilmente, scrivere dediche e scherzare, ringraziandoci di cuore per il tempo e le belle parole che le abbiamo rivolto. Ecco, sono proprio questi momenti quelli che ricordo sempre con più piacere di ogni incontro, e di questo pomeriggio senza dubbio conserverò memoria a lungo, un po’ come un innamorato che ripensa ai primi, perfetti, appuntamenti.
«Ciò che mi interessa davvero sono le persone, non la storia», ha rivelato Strout nel corso dell’intervista e, nel breve tempo che abbiamo condiviso in casa editrice in effetti questo aspetto è risultato evidente: è emerso dall’attenzione con cui ascoltava e rispondeva alle nostre domande, dalle parole con cui raccontava i personaggi – di Tutto è possibile, dei romanzi precedenti – dallo stupore ripensando a quante volte in America le abbiano detto di non aver mai incontrato nella realtà persone come quelle di cui lei scrive e che invece sono proprio lì, sono loro, siamo noi, umanissimi ed imperfetti, eccezionali. Parlava di loro e di quel meraviglioso caos che è la vita come se fosse ancora dentro la storia e non davvero disposta ad uscirne del tutto, un’immagine bellissima che mi ha fatta sentire un po’ più vicina al genio della scrittura, al mistero della creazione letteraria. E nei confronti di questi personaggi, ho fatto notare, si pone sempre con profondo rispetto, senza scadere mai in sterili sentimentalismi, spingendomi a chiedere come riesca, dal punto di vista pratico, a mettere a freno il giudizio, la voce autoriale: 
È qualcosa che ho imparato negli anni. Non me l’hanno insegnato ma mi sono resa conto che più scrivevo, più lavoravo sui miei personaggi, più mi sembrava quella la cosa giusta da fare perché quando ho un personaggio davanti se questo mi evoca un’emozione allora può restare, altrimenti deve andarsene. Devi amarli i tuoi personaggi, ma se non c’è qualcosa non vale la pena lavorare alla loro storia. Mi rendo conto quindi che come scrittrice non posso e non devo giudicarli, una volta che c’è questo feeling loro possono fare quello che vogliono, io mi limito ad annotarlo, sono esseri umani e quindi come tali possono fare le cose più turpi, non importa, fa parte del fatto stesso di essere umani e quindi imperfetti. È questo che ho imparato. Ne sono diventata consapevole quando ho scritto il mio primo romanzo (anche se erano anni che scrivevo prima di pubblicare Amy ed Isabel): in quella occasione mi sono proprio resa conto che non avrei mai voluto parlare di bene e male e di quella dimensione di sentimentalismo, melodramma: io voglio focalizzarmi su tutto quel caos della vita umana, tutti gli elementi che ne fanno parte e che poi il lettore leggerà. È una scelta che faccio consapevolmente, devo solo raccontare e non giudicare.
Raccontare e non giudicare, in una narrazione che riporta evidente l’influenza della short story in quell’equilibrio perfetto di sottintesi, spazi bianchi, non detto, uno degli aspetti a mio avviso più interessanti della scrittura di Strout. La limpida chiarezza delle parole che contrasta con l’intensità delle storie e dei sentimenti, in un attento lavoro di sottrazione, come rivela l’autrice, frutto di anni di esperienza e scrittura.
E, ancora, involontariamente ci regala una bellissima immagine, raccontando di quando questo ultimo lavoro ha preso vita:
"Tutto è possibile" è nato quasi contemporaneamente a "Mi chiamo Lucy Barton": scrivevo di Lucy, costretta in quella stanza d’ospedale a New York, e del suo riavvicinamento alla madre, del peso di un passato con cui sembra impossibile venire a patti, le storie di tutti quei personaggi collaterali che si intrecciano alla sua. E allora, seduta alla mia grande scrivania, continuamente mi spostavo dall’altro lato del tavolo di lavoro, abbandonando per attimo Lucy e la madre per dare voce alle storie di Pete, Tommy, Patty, Charlie, Abel, Vicky, mentre i loro ricordi, la loro interpretazione del passato, si mischiavano a quelli di Lucy. E di colpo mi sono resa conto che anche un altro romanzo – "Tutto è possibile" – era in qualche modo già scritto.
Tutto è – davvero – possibile: è un inno alla vita questa storia di esseri umani imperfetti e per questo tanto vivi, reali, come piccole e reali sono le felicità possibili nel caos della vita. Un canto, dicevo nella recensione, di bellezza e speranza, perché in fondo c’è felicità nella vita, deve esserci, come ci ricorda la stessa Strout:
[…] Deve esserci. Imperfetta, magari, e fugace, ma c’è. Dal mio punto di vista Tutto è possibile riguarda quegli attimi di grazia che all’improvviso si manifestano nella nostra vita: come quando Tommy cambia la vita di Pete Barton, in maniera inaspettata. Sono piccoli momenti di felicità, ma ci sono nella vita.
Ecco, “gli attimi di grazia”, nel caos della vita, e quella frase con cui si chiude il libro e che ne racchiude il senso: la verità perfetta, l’idea meravigliosa che tutto sia possibile:
L’ultima riga l’ho scritta prima di aver finito il libro, perfino prima di aver finito la storia. Si, quello è il punto, ogni cosa è possibile, se siamo disponibili ad accogliere questi momenti di grazia, se siamo capaci di vedere quel momento, allora si tutto è possibile. 
Anche incontrare Elizabeth Strout e rimanerne completamente stregati.


di Debora Lambruschini